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Perchè andare oltre Marx

Perchè andare oltre Marx

480213_491698834234922_1274120004_nNello scorso numero di Umanità Nova è comparso un articolo di Manuel Pagliarini[1] nel quale compaiono una serie di obiezioni ad un mio articolo precedente di qualche numero fa.[2] Gli rispondo molto volentieri e sono contento di farlo, soprattutto perché la posizione su Marx che viene espressa nel suo articolo sostanzialmente la condividevo nella mia adolescenza – il venenum in cauda del pensiero di Marx l’ho scorto solo gradatamente e, paradossalmente, proprio il pensatore di Treviri mi ha messo sulla strada, tramite una delle sue celebri Tesi su Feuerbach, nella fattispecie la seconda, che già citavo alla fine dell’articolo precedente:

La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. È nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica.”[3]

Proverò ora ad approfondire la questione, applicando ancora una volta questo aforisma alla totalità del pensiero stesso che lo ha prodotto, prima di giungere brevemente alla questione specifica delle critiche di Pagliarini. Il pensiero marxista ha avuto di là di ogni dubbio un’enorme risonanza nella prassi del movimento operaio e socialista, divenendone ad un certo punto la corrente di gran lunga dominante, giungendo a metà degli anni ottanta del Novecento a governare politicamente – nel senso statuale della parola – grosso modo la metà degli uomini del pianeta ed a influenzare ideologicamente una fetta consistente dell’altra metà. I mezzi per giungere a creare, non dico il comunismo, ma almeno una società maggiormente egualitaria e partecipativa di quelle del capitalismo liberale non sono certo mancati ai governi marxisti; ciononostante, nessuno dei numerosi esperimenti tentati non solo è andato almeno parzialmente a buon fine, ma, dove tali regimi sono esistiti ed esistono ancora, le condizioni di vita delle masse erano e sono in media decisamente peggiori se paragonate a quelle delle società liberalcapitaliste e comparabili solo a quelle presenti sotto le dittature militari e/o fasciste. Quando poi questi regimi vengono meno, implodendo dall’interno,[4] non si trasformano di certo in società senza classi e senza stato, ma in società iperliberiste i cui elementi dominanti hanno avuto libero gioco ad agire indisturbati in un contesto dove il movimento dei lavoratori era stato distrutto dagli stessi governi marxisti precedenti e, di conseguenza, le masse avevano enormi difficoltà a reagire.

Quella che ho svolto finora è stata un’analisi puramente fenomenologica, una banale descrizione degli eventi. Ora, per poter dire che il pensiero di Marx è del tutto estraneo a tutto ciò, che si è trattato di una cattiva applicazione dei suoi insegnamenti da parte del cattivo Lenin prima e del cattivissimo Stalin poi, quanto meno occorrerebbe rinnegare la sopracitata seconda tesi su Feuerbach. Quali ne sarebbero però le conseguenze?

Per capirle, vediamo innanzitutto il senso profondo di questo aforisma. Una difesa di un pensiero con implicazioni politico-sociali apparentemente positive che ha però portato, nella concreta prassi storica, a risultati orribili non è certo nuova nella storia dell’umanità – si pensi solo al cristianesimo, alla retorica del Re Buono e dei Ministri Cattivi, ecc.. Ora Marx aveva individuato un punto chiave della faccenda: l’aspetto di meccanismo ideologico di tali difese, il cui risultato è sempre la riperpetuazione delle condizioni di partenza da cui ci si voleva allontanare tramite una “corretta applicazione” dei Giusti Principi. Il suo aforisma ha proprio il senso di cercare di evitare questo genere di argomentazioni difensive: occorre partire dal presupposto, ci dice saggiamente, che la realtà di un pensiero si misura sulle conseguenze storico-sociali concrete che esso fattualmente comporta, non sulle affermazioni di principio sui suoi obiettivi teorici.

Tra l’altro, a ben pensarci, se accettiamo questo genere di difese per Marx, non si capisce perché non dovremmo accettarle anche per tutte le altre ideologie che, da questo punto di vista, gli somigliano. Prendiamo ad esempio il “neo”liberismo: il pensiero liberal/liberista sostiene di voler raggiungere, tramite l’applicazione delle sue ricette, una società estremamente ricca anche se non egualitaria – in ogni caso le briciole che cadrebbero dalla tavola del ricco verso quella del povero sarebbero molto più consistenti di quelle che avrebbe ottenuto con politiche di stato sociale o marxiste-leniniste. Questi i presupposti teorici. Da decenni, però, le sue ricette vengono applicate in maniera sostanzialmente indisturbata portando a risultati del tutto opposti: le poche briciole del povero (ma anche quelle di chi non era proprio tale e che grazie a tali gustose ricette lo sta diventando) volano verso la già abbondante tavola del ricco e, di fronte a tali fallimenti, non solo non si fa marcia indietro ma, al contrario, le si ripropone in forma sempre più selvaggia. Ora, nelle poche occasioni in cui si riesce a porre la questione, la difesa ideologica è sempre la stessa: il “vero” liberismo non è stato davvero applicato, lo si è mal compreso, ecc., ma se ne fossero stati applicati correttamente i Giusti Principi…[5]

La riflessione marxiana presente nella II Tesi su Feuerbach, pertanto, non la si può abbandonare senza lasciarsi completamente scoperti di fronte ai condizionamenti ideologici dell’avversario politico e/o di classe: il che, però, comporta che essa debba applicarsi a qualunque genere di pensiero politico-sociale – nessuno escluso, nemmeno quello di chi ha esplicitato tale riflessione.

A questo punto, di fronte all’evidente discrepanza tra teoria – “sono la dottrina scientifica che, analizzando le leggi del divenire storico-sociale, condurrà il proletariato a liberarsi dalle sue catene ed a costruire una società liberata, senza classi e senza stato” – e la prassi della sudditanza alle regole della società capitalistico-borghese che caratterizza fenomenologicamente il marxismo, si tratta di svelare l’arcano, in altri termini di individuare l’aspetto di meccanismo ideologico che caratterizza – non ho dubbio, di là della volontà del suo autore – il marxismo.

Questo è quello che ho cercato di fare in vari miei scritti, di cui “L’Unico Marx” è l’ultimo. Tornando a noi, Pagliarini mi pone determinate obiezioni, che non mi convincono. Innanzitutto, che nell’ottica di Marx – e non solo in quella di Lenin – il capitalismo sia “fase di transizione” a se stesso e che tutta la sua attenzione analitica sia rivolta verso il processo della produzione ed in minima parte in quello della distribuzione dei beni mi pare innegabile: pochi accenni ne La Critica al Programma di Gotha ed altrove non cambiano la sostanza della questione, tant’è vero che sono stati ripescati dal fondo del barile solo in tempi recentissimi, sempre nell’ottica della difesa ideologica di cui ho parlato prima, e sono contraddetti da un’enormità di interi testi e, soprattutto, dalle parti fondanti del suo pensiero. I romani avevano un modo di dire – Ubi Maior, Minor Cessat – che è perfettamente applicabile alle conseguenze empiriche di un’ideologia: come dicevo nell’articolo precedente, uno dei dati fondanti del pensiero di Marx, su cui insiste ripetutamente e che mette al centro della sua intera riflessione è innegabilmente che, come sintetizzavo nell’articolo precedente, le forme di produzione si trasformano l’una nell’altra solo quando quella precedente raggiunge il massimo sviluppo delle forze produttive compatibile con essa. La conseguenza logica inevitabile di una tale presa di posizione è che, per l’appunto, il capitalismo è fase di transizione a se stesso: se uno afferma che occorre la pioggia, non può lamentarsi se qualcuno gli fa notare che la inevitabile conseguenza del primo evento è il bagnarsi della terra.

Pagliarini afferma che “a differenza di quanto sostiene Voccia, Marx chiarisce che il compito del proletariato non è semplicemente assumere il potere, bensì trasformare la macchina statale borghese.”[6] Evidentemente mi devo essere espresso male: sono perfettamente d’accordo con il fatto che il pensatore di Treviri afferma proprio questo. Il problema è che la “macchina statale borghese” nell’ottica di Marx è pura sovrastruttura, la quale, di per sé, non può produrre effetti sostanziali sulla struttura finchè questa, come egli ripete a più riprese, non ha raggiunto il massimo livello di sviluppo delle forze produttive. Conseguenza logica inevitabile di tutto ciò è che compito del partito marxista al potere non potrà essere quello di attuare un graduale avvicinamento a forme sociali e politiche sempre più prossime al comunismo, ad una società senza classi e senza stato, ma di portare al massimo livello di sviluppo le forze di produzione restando nell’ambito della forma capitalistica, in attesa della sua rottura. Vediamo il classico “decalogo” del Manifesto del Partito Comunista:

Il proletariato adoprerà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive.

Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante interventi despotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, cioè per mezzo di misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell’economia; ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell’intero sistema di produzione.

Queste misure saranno naturalmente differenti a seconda dei differenti paesi.

Tuttavia, nei paesi più progrediti potranno essere applicati quasi generalmente i provvedimenti seguenti:

1. Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.

2. Imposta fortemente progressiva.

3. Abolizione del diritto di successione.

4. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.

5. Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo.

6. Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato.

7. Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo.

8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura.

9. Unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e della industria, misure atte ad eliminare gradualmente l’antagonismo fra città e campagna.

10. Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell’istruzione con la produzione materiale e così via.

Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell’evoluzione, e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico.”[7]

Questo è uno dei pochi punti in cui Marx esplicita effettivamente una sorta di “programma di governo” concreto in cui si può concretamente vedere cosa intendesse per “fase di transizione”. Ebbene, lui stesso afferma che gli “interventi dispotici” avverranno “nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione”: “borghesi”, per l’appunto, e non capitalistici – Marx conosce bene la differenza. Infatti, lo scopo della “dittatura del proletariato” non è altro che quello di “moltiplicare al più presto le forze produttive” all’interno delle forme capitalistiche, tant’è vero che lui stesso afferma che tali interventi dispotici non modificheranno i rapporti capitalistici di produzione: si tratta di “misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell’economia; ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell’intero sistema di produzione”. Insomma l’economia – la struttura materiale di produzione – non sarà toccata se non in alcuni aspetti puramente giuridici, bensì portata al massimo livello delle sue potenzialità produttive, in attesa che si trasformi da sé nella forma di produzione successiva. Si tratta di un processo puramente evolutivo – il termine evoluzione è esplicitamente utilizzato – che, detto in termini brutali ma effettivi, si può sintetizzare nel fatto che il capitalismo sarà fase di transizione a se stesso – con tutte le conseguenze del caso in termini di meccanismo ideologico, la più importante delle quali è che il marxismo, alla luce degli eventi storici, oggi appaia come il meccanismo ideologico di potere più visceralmente anticomunista della storia del movimento operaio e socialista.

Non voglio però insistere più di tanto sulla questione. Ovviamente credo di avere ragione – è umano – ma mettiamo anche che io mi sbagli sul punto. Resterebbe però anche in questo caso in piedi la questione: se non negli aspetti da me individuati, dove si trova l’aspetto ideologico del pensiero di Karl Marx che ha prodotto una tale scissione tra teoria e prassi?

Enrico Voccia

NOTE

[1] PAGLIARINI, Manuel, “Marx ed Oltre. Dibattito”, in Umanità Nova, Anno 96, n° 27, 18 settembre 2016, pp. 7-8.

[2] VOCCIA, Enrico, “L’unico Marx”, in Umanità Nova, anno 96 n° 20, 12/06/2016, p. 8.

[3] MARX, Karl, “Tesi su Feuerbach”, in Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1950, pp. 77-80, p. 77. La traduzione è di Palmiro Togliatti.

[4] Assai spesso si invoca l’intervento di elementi esterni alle società del socialismo (ir)reale per giustificare la loro caduta. Questi interventi ci sono effettivamente stati, ma non sono stati decisivi: lo mostra, banalmente, il fatto che gli attuali petrolieri, banchieri, capitani d’industria, politici ecc. del capitalismo iperliberista che ha seguito le varie società governate da un partito marxista derivano in presa diretta dalle nomenclature di quest’ultimo e non dal mondo degli oppositori. La caduta dei regimi, la loro trasformazione in società liberiste, ha avuto come protagonisti, salvo rare eccezioni, persone ben integrate all’interno degli stessi.

[5] Indicativo, in questo senso, è un testo di qualche anno fa: ALESINA, Alberto e GIAVAZZI, Francesco, Il Liberismo è di Sinistra, Milano, Il Saggiatore, 2007.

[6] PAGLIARINI, Manuel, “Marx ed Oltre. Dibattito”, in Umanità Nova, Anno 96, n° 27, 18 settembre 2016, p. 7.

[7] https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1848/manifesto/mpc-2c.htm


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