“La guerra continua”. Crisi istituzionale: il 25 luglio di Giorgia Meloni

La situazione in cui si trova oggi Giorgia Meloni è simile a quella in cui si trovò Benito Mussolini nell’inverno del 1942/43.

Allora la responsabilità della guerra persa fu riversata dal capo dello stato, il re Vittorio Emanuele III, e dal papa, Pio XII, sul presidente del consiglio, il “duce” dei fascisti, attraverso una congiura di palazzo, per evitare che la rivoluzione proletaria spazzasse via i responsabili della tragedia in cui si dibatteva il Paese.

Anche oggi la classe dirigente ha condotto l’Italia in una guerra persa in partenza che, se non ha causato vittime alla popolazione italiana, è costata intanto quasi 30 miliardi concessi al regime di Zelensky, più un aumento vertiginoso dei prezzi ed una crisi che ha travolto l’economia italiana insieme alle maggiori economie europee.

Non è certo casuale che la crisi istituzionale dei nostri giorni sia scoppiata all’indomani della riunione del Consiglio Superiore della Difesa ed abbia coinvolto il segretario dello stesso; né è casuale che tutto ciò avvenisse alla vigilia di importanti consultazioni elettorali: le caratteristiche di quanto successo sono spie dell’andamento della guerra in Ucraina e dei consensi dell’attuale presidente del consiglio.

La guerra continua con i suoi alti e bassi. Mentre la Commissione Europea chiede altri 140 miliardi di euro entro la fine dell’anno per far fronte alle esigenze finanziarie del governo Zelensky, l’amministrazione USA sta lavorando per una pace che eviti a Kiev la sconfitta definitiva e estrometta Zelensky dalle stanze del potere. La prospettiva della pace sarebbe comunque catastrofica, perché l’Ucraina non sarà in grado di restituire i prestiti ricevuti dagli alleati. Il totale di questi prestiti ammontano per l’Italia a quasi trenta miliardi, gettati dalle istituzioni italiane nella voragine della guerra e che prima o poi dovranno essere iscritti a bilancio alla voce “crediti inesigibili”. Meloni rischia di trovarsi con il cerino in mano a causa dell’appoggio ad una guerra voluto da Mario Draghi e da Sergio Mattarella.

La tornata elettorale dell’autunno 2025 ha registrato un vero e proprio crollo del partito di maggioranza relativa. Fratelli d’Italia ha perso più di un milione di voti rispetto alle elezioni politiche del 2022: nelle elezioni per la Camera dei Deputati il partito di maggioranza relativa otteneva nelle sei regioni che sono andate al voto quest’autunno più di due milioni e quattrocentomila voti; alle regionali invece, sommando i voti di ogni regione, ha ottenuto meno di un milione e quattrocentomila voti. Il dato assoluto si riflette nei valori percentuali: il partito di Giorgia Meloni aveva ottenuto il 24,01 nelle elezioni europee del 2024, ha ottenuto il 17,68 nelle ultime elezioni regionali: il calo è di più di sei punti percentuali.

Questi risultati non devono essere certo passati inosservati a via della Scrofa, ed hanno fatto suonare un campanello d’allarme. Se il successo del 2022 è stato dovuto soprattutto alla disunione degli avversari riguardo alla guerra russo-ucraina, una loro unione già con i numeri di allora impedirebbe la vittoria della destra e del partito di Meloni; se a questo si aggiunge il calo dei consensi registrato nelle elezioni regionali il futuro si fa ben più fosco. E non bastano i sondaggi farlocchi periodicamente messi in giro dagli organi di informazione, che celebrano la luna di miele tra il presidente del consiglio e il popolo italiano. Secondo l’ultimo di questi sondaggi, pubblicato su un organo di stampa domenica 30 novembre, redatto dal guru dei sondaggisti italiani, Fratelli d’Italia avrebbe avuto il 28,8 delle dichiarazioni valide rispetto alle intenzioni di voto nel 2024, mentre nell’ultima rilevazione del 27 novembre avrebbe ancora il 28%: questi sondaggi, non so se per un difetto intrinseco o se per volontà di qualcuno, non sono in grado di registrare il tracollo di consenso mostrato dai voti reali.

La strategia del governo si dibatte fra contraddizioni insanabili: il suo protagonismo in campo sociale ed economico finisce per concentrare su di lui tutte le opposizioni disperse nel Paese, la crescente criminalizzazione delle forme di protesta trasforma in atto insurrezionale il gesto di protesta più pacifico, e alla fine il governo si dimostra impotente a fronteggiare l’opposizione sociale.

La pure la tattica governativa si trova di fronte a dilemmi difficilmente risolvibili: di fronte al calo di consensi è meglio ricorrere alle elezioni anticipate, prima che il calo si aggravi e prima che si manifestino le conseguenze finanziarie della guerra in Ucraina, oppure lasciare che la legislatura prosegua il suo corso naturale, in modo da poter approvare una nuova legge elettorale più vantaggiosa per il governo? Inoltre, di fronte all’insorgenza sociale, quali misure prendere? Quanto è successo all’ex ILVA nelle scorse settimane testimonia la difficoltà di fronteggiare questa opposizione. E ancora, di fronte ai tentativi degli USA di arrivare alla pace in Ucraina, quale atteggiamento seguire? Accodarsi agli sforzi di Trump gettando alla ortiche tre anni di retorica che hanno provocato centinaia di migliaia di morti, o accodarsi alla Commissione Europea e proseguire nella guerra con la Russia, gettando nel pozzo senza fondo altri miliardi e rischiando la guerra aperta ad Oriente?

Per questo si pensa a misure eccezionali: la reintroduzione della leva è uno di questi mezzi, sia come strumento di disciplinamento delle giovani generazioni, sia come aumento della consistenza numerica delle forze repressive. La guerra a cui si prepara il governo non è la guerra con la Russia, è la guerra contro le classi sfruttate e l’opposizione sociale.

Le mobilitazioni a sostegno della Global Sumud Flotilla hanno avuto lo stesso effetto degli scioperi del marzo 1943. Ancora una volta la classe operaia torna protagonista sulla scena sociale, torna protagonista in una mobilitazione internazionalista contro la guerra e soprattutto vuole decidere che cosa e come produrre e trasportare, a partire dal rifiuto delle armi. La sfiducia nelle istituzioni testimoniata dalla crescita dell’astensionismo sta trovano le sue forme di espressione: l’autorganizzazione e l’azione diretta.

La continuazione della guerra è l’unica strada che hanno le cassi privilegiate e le istituzione che le difendono per ritardare la resa dei conti, nascondendo la verità sui costi della guerra, aumentando la militarizzazione della società, ridando fiato alla menzogna dell’unità nazionale. E se per proseguire la guerra sarà necessario sbarazzarsi di Meloni e Salvini, il capo dello Stato sarà sicuramente all’altezza del suo predecessore. E la parola d’ordine del nuovo governo sarà sempre quella di Pietro Badoglio: la guerra continua.

Tiziano Antonelli

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