Se parliamo di “giustizia trasformativa” credo sia inevitabile porsi una domanda preliminare: cosa significa “fare giustizia”?
Se intervistassimo persone a caso per strada, credo che le risposte ruoterebbero nella gran parte attorno al concetto di “punizione del colpevole”. Avremmo dunque un doppio focus, sul responsabile come oggetto principale del discorso e sulla punizione come scopo primario. Il tutto letto attraverso la lente della colpa. Una colpa che, per sovrappiù, di fatto non si esaurisce al termine della punizione, ma si cristallizza nell’identità del “criminale”, del “delinquente”, del “pregiudicato”. Quest’ultima locuzione mi pare particolarmente interessante, poiché identifica, attraverso un mero dato oggettivo, l’esistenza di un pre-giudizio: una condizione immutabile e irredimibile, con buona pace della funzione rieducativa della pena.
Ovviamente, lo strumento principe della punizione è il carcere, anche se non dubito che nelle nostre ipotetiche interviste non tarderebbe a fare capolino anche la pena di morte.
Questo l’asfittico orizzonte all’interno del quale si sviluppa la maggior parte del discorso pubblico attorno alla giustizia, anche quando si parla di violenza di genere e di violenza sessuata.
Questo è l’orizzonte nel quale si muove anche buona parte del femminismo contemporaneo, quello che da diverse studiose e militanti è stato definito “femminismo punitivo” o “femminismo carcerario”.
La “giustizia trasformativa” è invece “un tipo di giustizia che arriva fino alla radice del problema e lì genera soluzioni e guarigione, così che vengano trasformate le condizioni stesse che creano l’ingiustizia” (adrienne maree brown, Per una giustizia trasformativa, Meltemi 2024). Essa vuole dunque porsi come alternativa alla giustizia della pena e della deterrenza.
Inoltre, in questo immaginario – e nei suoi embrionali tentativi di messa in pratica – un ruolo centrale viene attribuito alla persona che ha subito il danno.
E qui abbiamo già una grande differenza rispetto alla giustizia punitiva. Da un lato – per quanto ovvio è bene sottolinearlo – si scardina l’automatismo per cui “a reato x corrisponde pena y” (pur con tutte le aggravanti, attenuanti o distinguo sulle contingenze), nel tentativo di individuare soluzioni specifiche in relazione ad ogni singola situazione; dall’altro divengono fondamentali le valutazioni e le decisioni di chi il danno l’ha direttamente subito.
Se questo mi sembra un elemento interessante e con elementi sicuramente positivi, non posso negare che apra anche diverse problematiche: è opportuno caricare la vittima di tanta responsabilità? È sensato pretendere che la persona offesa sia in grado di essere “ragionevole” e propositiva? Posso essere io, che ho subito uno stupro – e la domanda per me non è retorica – la persona più in grado di cercare di “genera[re] soluzioni e guarigione”? Intendiamoci, soluzioni e guarigione nella giustizia trasformativa sono visti come responsabilità e obiettivi della collettività tutta, ma ciò nonostante credo che le domande di cui sopra non siano eludibili, nel momento in cui si postula la centralità di chi ha subito il danno, non fosse altro che per la rimozione del rapporto con il desiderio di vendetta.
Vendetta e riparazione del torto sono altri grossi concetti legati a quello di “giustizia”. A mio parere, il primo problematico, il secondo fallace. Il dibattito sulla legittimità della vendetta è troppo ampio e complesso per poter essere sintetizzato in poche righe, mi limito a rilevare che difficilmente, a mio modo di vedere, si può conciliare con una postura trasformativa.
La giustizia riparativa, ponendo l’accento sulla riparazione del torto, può avere invece degli elementi trasformativi del reale, nonostante la dimensione spesso riduttiva e ipocrita che ne viene fatta ad oggi nei tribunali. Vi vedo però un grosso limite e una questione inespressa. Il limite, banale, è che raramente si può riparare ad un torto commesso o ci può essere un reale risarcimento del danno subito, a meno di non aderire ad una logica di monetizzazione in stile legal drama made in USA. Se mi viene portata via la macchina, posso riavere la macchina, ma se viene uccisa mia figlia è evidente che non c’è vero risarcimento possibile. Certo, vi è l’aspetto del riconoscimento, che non intendo sottovalutare: sia il riconoscimento del danno arrecato da parte della persona agente, sia il riconoscimento sociale del danno subito per la persona offesa. Ma non basta. “Cosa fatta capo ha” e qua torna la domanda con cui abbiamo aperto questo testo: qual è lo scopo della “giustizia”? A mio parere, lo sguardo non dovrebbe essere rivolto primariamente a sanare ciò che è stato – non perché sia sbagliato, semplicemente perché spesso è impossibile – ma ad evitare che ciò che è stato si ripeta, nei confronti della stessa persona o di altre.
Ecco che rientra in gioco l’idea di giustizia trasformativa, con il suo portato di proiezione nel futuro. Non voglio però dare l’idea, fortemente riduttiva, che si tratti semplicemente di fare in modo che “la persona non lo faccia mai più” (anche se – ammettiamolo – sarebbe già un gran bel risultato).
Alla radice, si parte dal presupposto che la punizione del singolo deresponsabilizzi la comunità; è necessario invece creare percorsi nei quali il danno viene “messo a sistema”, tentando di portare ad una “guarigione” della vittima sopravvivente, dell’abusante e della collettività tutta; la “guarigione” dovrebbe essere generale, in un’ottica di cambiamento radicale.
La società è plasmata su una visione dicotomica in cui la definizione di bene e male è fondativa, necessaria e sfruttabile: esclude dal quadro la complessità dei fattori, senza rielaborare e tentare di superare le condizioni strutturali e trasversali che sono alla base del danno, causato e subito.
La giustizia punitiva, indicando buoni e cattivi, ponendo un fuori e un dentro astratto e ideale, sempre difficile da stabilire in modo chiaro nella realtà, di fatto comporta un’assoluzione strutturale per il sistema sociale, economico e politico.
La giustizia trasformativa si pone agli antipodi di questa visione: sono proprio le condizioni strutturali e trasversali le prime ad essere messe a critica.
Obiettivi altissimi, che ovviamente – non nascondiamoci – nella pratica spesso si scontrano con i nostri limiti, come persone e come movimenti.
Nel bel saggio già citato di maree brown molti di questi limiti vengono indagati e discussi: mi limito a rimandarne alla lettura.
Vi è un’altra questione però che mi pare resti sullo sfondo, quando invece meriterebbe ampia analisi. Se l’obiettivo è la guarigione della collettività, è necessario porsi la domanda: chi è la collettività che deve guarire?
Nei suoi tentativi di messa in pratica, ad oggi il riferimento è prevalentemente a collettività/comunità politiche, soprattutto femministe, frocie e trans. Parliamo dunque di comunità tendenzialmente ristrette e soprattutto di comunità “di elezione”, quindi relativamente omogenee, sebbene affatto scevre da differenze e disparità di potere al loro interno, come ci ricordano giustamente brown nel già citato testo, Palomba (La trama alternativa, Minimum Fax 2023), Argenide (recensione su n.135 della rivista Germinal ) e chiunque abbia scritto su questo. E già qui le difficoltà non mancano. Vi è però un presupposto di base: la collettività, quando questo processo si innesca, viene riconosciuta dai soggetti in campo come un referente valido. Se questo riconoscimento viene a mancare, saltano proprio i presupposti affinché il percorso inizi.
Ma “fuori”? In un tessuto sociale denso, vario e complesso, cosa vuol dire comunità? Chi ne fa parte, cosa accomuna le persone che la vivono? I suoi principi morali? E allora, chi ne definisce il senso di giustizia e quindi l’orizzonte etico che la identifica? Per funzionare, il meccanismo trasformativo ha quindi bisogno di coordinate morali in cui tutti devono riconoscersi per continuare a far parte della comunità?
Come definire e garantire delle coordinate, senza che diventino un principio di potere soverchiante rispetto alle singole soggettività – prospettiva tutt’altro che desiderabile in ottica anarchica – è problema complesso e, agli occhi di chi scrive, davvero di difficile soluzione.
Asia