Si è fatto un gran parlare ultimamente della vicenda-burkini, che credo sia emblematica dei tempi in cui viviamo. Alcuni commenti sono sembrati motivati e intelligenti, aldilà di differenze di vedute, altri rituali e retorici, altri hanno usato anche questa vicenda per dar adito al solito becerume fascista e razzista. Del resto, se anche il terremoto di questi giorni è pretesto per simili sfoghi razzisti, figuriamoci il burkini! Su questi, inutile su UN soffermarsi.
Ritengo sia necessario partire da una considerazione preliminare: la questione è importante aldilà dell’indumento in questione, e sbagliano coloro che la sottovalutano, perché non solo permette di capire il periodo in cui viviamo senza paraocchi ideologici, ma evidenzia tutte le contraddizioni e la confusione di tante e tanti compagni. Questa vicenda rappresenta una sorta di continuum logico di altri dibattiti ultimi, come l’ imperialismo, nello specifico attualizzato a forza con la categoria di neocolonialismo, l’importanza della libertà individuale, il sessismo, la critica alle religioni e l’ondata, solo militante…, di anti-islamofobia in reazione a quella islamofobica.
Tutti questi dibattiti sono caratterizzati dal persistente ancoraggio di miti e retoriche in diversi ambiti di movimento, in primis l’area post-autonoma, con tutta la sua implosione politica e umana, ma non solo. Più grave, a mio vedere, constatare quanto determinate suggestioni siano diventate parte anche dell’immaginario di alcuni anarchici. Di questi, una parte si è dimostrata, ancora una volta, alla prova dei fatti succube culturalmente e politicamente rispetto alla stereotipata vulgata cosiddetta antimperialista.
La prima considerazione che si pone è, a mio parere, la cantonata che alcune componenti anti-sessiste hanno preso nel giudicare la questione. Detto che l’attenzione alle tematiche di genere giustamente è fondamentale per ogni libertario, già è forzato usare esclusivamente questa categoria per interpretare ogni aspetto della vita, e della lotta, quotidiana; in questo caso, leggere esclusivamente in chiave sessista il divieto di alcuni sindaci francesi del burkini è limitante e si presta a forzature clamorose: nega, o minimizza, il ruolo crescente del fondamentalismo religioso, nega, o minimizza, che ci sia un conflitto in corso, vicino e lontano; nega, o minimizza, la paura esistente, che è motivata, anche se è in voga lo sport di deridere le paure dei francesi, come non ci riguardassero; nega, o minimizza, che se c’è una componente fascista sempre più presenta nella società, in questo caso anche il salafismo islamico e i suoi derivati, questa colpisce tutte e tutti. Ma soprattutto non scioglie un’ambiguità, come tutte le visioni eccessivamente rigide: e se fossero state donne a chiedere il provvedimento? Libertà per libertà, se diamo ad essa un valore astratto ed esclusivamente legato al genere, quella di eventuali sindachesse per venire incontro alle opinioni delle loro amministrate non è di un livello inferiore a quella di donne velate… o si prende, della realtà, solo ciò che ci piace ed è confermativo delle proprie tesi?
Ma, tornando alla questione principale, è quanto meno drammaticamente curioso che l’accento vada sull’oppressione del gendarme, cosa del resto giustissima da criticare, che “misurerebbe gli abiti con cui ci si veste”, e non anche sull’oggetto stesso del contendere, ossia un indumento che fin dal nome, burkini, si richiama al burka, l’abito che, per taluni islamici, dovrebbe coprire tutto il corpo delle donne islamiche. Stringendo la questione, come fa notare il teologo Vito Mancuso, con tanto di lettura del Corano e della Bibbia, e dopo aver dimostrato con conoscenza della materia le evidenti somiglianze dei due testi sacri: “Dietro il burkini quindi, e in generale dietro ogni tipo di velatura più o meno ampia (con fascia, scialle, foulard, velo semplice, velo totale incluso il viso), c’è l’idea che la donna sia inferiore all’uomo e a lui sottomessa.”.[1]
Ora, noi possiamo raccontarcela quanto vogliamo, ma il burkini resta un’astuta mossa commerciale dalle profonde connotazioni politiche e culturali, per avallare di fatto come cosa ormai assodata e scontata, un’idea aggressiva e oscurantista di religione. Negare questa evidenza con argomentazioni importanti sul piano teorico (“ogni legge è un arbitrio”, “lo stato non può sancire criteri di abbigliamento”, eccetera) risulta tra il retorico-rituale e il totalmente avulso dalla realtà.
Oltretutto, in questa dicotomia ultra-ideologica, si perde di vista il contesto, ossia il provvedimento stesso che in realtà mirava a contrastare ogni simbologia religiosa in ambito pubblico, e questo, che lo si voglia o no, è un marchio evidente dello stato francese, anche rispetto ad altre religioni, almeno a livello di forma, ed è di forma, che qui si parla. Ricordarlo, se le parole e le idee hanno ancora un senso, non significa difendere uno stato e tutte le sue nefandezze passate, presenti e future, ma capire di cosa si parla. E allora, ecco riscoprire a piacimento Fanon e tutta la polemica neo-colonialista, decontestualizzando in modo così profondo tutto l’importantissimo movimento del dopoguerra, da farlo divenire una caricatura di se stesso. Leggere in chiave neocolonialista tutta l’attuale tensione che si vive in Europa significa non voler vedere che la nostra società è ormai, e per fortuna, così composita socialmente, culturalmente ed etnicamente, che le prime vittime degli attentati europei sono stati gente “normale”, compresi tanti musulmani; significa voler relativizzare forzatamente a un oggi eterno un ieri che per sua natura non può essere identico; significa distorcere la volontà politica degli stati, che è necessariamente mutata tra il XX° secolo e l’attuale; significa addossare categorie storiche totalmente improprie a popolazioni la cui colpa è di essere nate nell’Occidente: i proletari francesi, quali poi?, sono i colonizzatori di 100 anni fa? “Noi europei“, di nuovo: noi chi? L’operaio a 1000 euro, la cassiera, l’interinale, il precario: chi, di grazia?, siamo gli “sfruttatori occidentali”?
Ancora, attenzione: dire questo non significa ne’ difendere ne’ minimizzare le attuali responsabilità di stati ancora effettivamente dominanti, ma almeno cercare di capire ed evitare banalizzazioni, forzature ideologiche e ottusità. Capisco che per molti soggetti politici orfani di seguaci sia diventato vitale cercare di autoproclamarsi referenti delle nuove periferie, però qui pare evidente che il tentativo risulta abbastanza ridicolo, dato che nel mondo reale già solo i linguaggi proprio di queste élite politiche risultano assolutamente distanti.
Se fin qui siamo nel campo delle libere idee, ridicolo, a mio parere, è stato vedere il fervore con cui tanti militanti antimperialisti o anti-neocolonialisti hanno esaltato interviste a figure di donne musulmane entusiaste del loro coprire il proprio corpo, o che hanno, ovviamente sempre “liberamente”, fatto tale scelta successivamente ad una conversione. Ma come, la religione non era l’oppio dei popoli? E ora gioiamo di fronte a conversioni a religioni oltretutto in fasi di vero fanatismo e inneggianti alla devozione personale auto-limitativa? E tutti i secoli di letteratura e lotte a dimostrazione dell’oppressione non solo spirituale ma anche materiale delle varie fedi? E la sociologia con gli studi sui condizionamenti pesantissimi di determinate ideologie nelle cosiddette “psicologie delle masse”? Nei processi di interiorizzazione e di assolutismo, non si scorgono le analogie tra totalitarismi passati e l’attuale ondata di radicalizzazione religiosa-identitaria? E le lotte per secolarizzare i costumi e di denuncia contro l’assoggettamento psicologico scaturito da pratiche e influenze irrazionali? C’è molta confusione sotto il cielo, ma la rivoluzione è assolutamente lontana, compagno Mao!
Ma ciò che rende ancora più ipocrita questa polemica, è l’assurdità, questa sì molto eurocentrica, per cui per rincorrere il consenso di nuovi soggetti o per difendere la libertà di scelta delle donne, di fatto non solo si sancisce lo sdoganamento dell’oscurantismo religioso, ma di fatto si nega l’eroismo, sì, eroismo, di tante e tante donne che nei paesi islamici, sunniti e sciiti, senza differenze, osano sfidare l’autorità costituita con piccoli, grandi esempi di libertà, come per fortuna diverse femministe hanno evidenziato. Invece da noi, dai nostri comodi salotti o tastiere europee, ci avviluppiamo in virtuosismi teorici in base ai quali, improvvisamente, che le donne, e non gli uomini!, coprano parti del proprio corpo, è espressione di libertà femminile. Nella sola Algeria, decine di migliaia sono state le donne massacrate; nella penisola araba, la repressione è tuttora pesantissima, senza contare le donne che in Iran vengono lapidate e appese sulle gru per mancanze similari. Del macello che sta avvenendo nello Stato Islamico, evitiamo di parlare. S’immagina la gioia della signora araba che, dopo anni in cui litiga con familiari vari o è sottoposta a sguardi riprovevoli dei passanti, perché ritiene di non avere nulla di cui vergognarsi, guarda alla parte di femministe nostrane che, tra una cosa e l’altra, difendono il diritto al burkini… magari poi domani il rischio sarà il burka, tanto anche nell’avanzata società europea la cosa è passata. Domani, cosa passerà, come espressione di libertà individuale? L’infibulazione in ospedali pubblici, se riguarda bambine o meno, non cambia granchè il discorso, così, come per il tuffo in mare, “almeno avverrà in modo sicuro”? La possibilità di pregare sul posto di lavoro? Moschee come se piovesse? Sono queste le nostre battaglie, da libertari? Tutto è libertà? Libertà di cosa? Libertà da che cosa?
Attenzione: non è l’islam in se il problema, come non è l’ebraismo, il cristianesimo, il buddismo: per quanto espressioni di fede, e quindi irrazionali, derivanti da un’idea di sacro, e quindi potenzialmente motivo di fanatismo e intolleranza, ma è l’accezione aggressiva che ogni religione esprime in un dato momento storico. Ed oggi, esiste un islamismo molto aggressivo e molto preoccupante, senz’altro motivato da logiche economiche, di dominio e identitarie, ma ugualmente la realtà è questa.
Paradossalmente, questi compagni e compagne così islamofili, non si rendono conto che risultano anche abbastanza razzisti. Per loro, evidentemente, arabo è sinonimo di islamico, e islamico di religioso convinto. Non esiste più uno spazio di laicità, evidentemente.
E questo è un altro aspetto non preso seriamente in considerazione: pochi decenni fa questa cappa oscurantista non era la normalità neanche nei paesi islamici. Nel campo sciita, da Khomeini in poi, non a caso, già esaltato campione dell’antimperialismo, il quadro è andato terribilmente mutandosi, mentre nel campo sunnita da quando correnti salafite hanno progressivamente, grazie alla potenza economica degli stati della penisola araba, sbaragliato la concorrenza. Il salafismo, in campo politico e culturale, assomiglia molto al fascismo nostrano, e così è considerato da tanti arabi che ancora resistono; da noi, invece, le loro affermazioni suscitano dibattit: con che coerenza contestare dementi quali vandeani, Militia Christi e compagna becera? Anche lì, ci sono donne che esprimono la loro libertà in quel modo. I meccanismi che li sottintendono sono analoghi: paternalismo, identitarismo estremizzato, intolleranza per il diverso, potere.
Ora, la questione è molto complessa, e impossibile da definire in modo che non risulti, sotto qualunque aspetto, almeno contraddittorio. Del resto, la contraddittorietà è la natura del genere umano, soprattutto in una civiltà che, per forza di cose, sempre più andrà mischiandosi, e questo non può che essere positivo e “naturale”.
Ugualmente però, bisognerebbe evitare la riproposizione rituale, anche a sinistra, dei vecchi, superati e stancanti clichès interpretativi. Se l’antimperialismo declinato dal sinistrame italico ormai è assolutamente improponibile se non per gli stessi, arrivando ad esaltazioni di regimi come quello iraniano, siriano, putiniano e via di dittatori continuando; così anche questa variazione in stile terzomondismo scimmiottato porta gravi incongruenze logiche.
Di fatto, risulta anche pericoloso, perché, ponendosi su un piano talmente elitario e fuori dalla realtà da non essere non dico condiviso, ma neanche lontanamente compreso alla popolazione, porta ad una reazione in senso razzista ed identitario negativo: “se i compagni e le compagne dicono questo, non sono credibili e guardo altrove”. Potremmo, brechtianamente, appellarci a sostituire il popolo, ma dubito si andrebbe lontani, pur condividendo la critica all’imbecillità delle masse. Però la critica non dovrebbe essere solo esercizio radical-chic, almeno il tentativo di provare a capire il presente per cercare, magari, di spostare gli equilibri in senso libertario e autogestionario, andrebbe fatto.
Bisognerebbe chiedersi i motivi di questa illeggibilità del presente: la persistenza di miti così radicata da non essere possibile smuoverla? L’assistenzialismo che si sostituisce alla lotta di classe, dati gli spazi sempre meno reali di opposizione sociale? L’ammissione che contestare il burka e i suoi derivati metterebbe in discussione un modus operandi politico debole rispetto all’islam che ormai è colpevolmente accettato da anni? L’opportunismo di chi pensa di cavalcare un soggetto che lo porterà, finalmente, alla vittoria? Un ribellismo convenzionale per cui, senza alcuna idea propria e prospettiva credibile, tutto è sempre sbagliato a prescindere? La facilità di interpretare tutto allo stesso modo? La voglia di pubblicità? La nostra profonda debolezza ad immaginare una realtà davvero diversa?
Forse tutto questo, o forse no. Almeno, per noi anarchiche e anarchici, dovrebbe restare la libertà come stella polare di riferimento, e in base a questo, capire istintivamente e razionalmente che nessun copricapo in stile religioso afferma una qualsivoglia libertà femminile, e che affermarlo è assurdo. La libertà di chi si sceglie la sua corda.
L’anarchismo è una forza che deve scardinare la realtà per proporre un mondo realmente nuovo, in cui le discriminazioni di genere, lo sfruttamento del lavoro, l’oppressione di classe, lo stato, la soggezione religiosa, l’autoritarismo non devono più esistere.
Il burkini, almeno secondo le motivazioni reali, che non sono estetiche e libere, ma religiose e culturalmente oscurantiste, che hanno portato a proporlo ora, non ha spazio nel mondo che vogliamo costruire. Così come il poliziotto, sia che misuri vestiti sia che sbatta nei gulag.
Massi
[1] La repubblica 26 agosto 2016