Parlare di 4 novembre oggi, della nostra opposizione al militarismo, alla retorica e alla propaganda che giustificano le guerre significa necessariamente confrontarsi anche con la forte opposizione sociale alla guerra che abbiamo visto recentemente crescere nelle piazze.
In questi mesi milioni di persone si sono mosse sotto lo stimolo dell’azione della Global Sumud Flotilla, delle immagini del genocidio a Gaza, contro la guerra e il sostegno che il governo italiano ha dato all’aggressione da parte dello Stato di Israele.
Si tratta di un movimento composito in cui si sono trovati accanto antimilitaristi con esponenti dei movimenti pacifisti e nonviolenti e persino delle chiese. Accanto a loro si sono mosse tantissime persone che non si vedono mai alle manifestazioni, sintomo di un malcontento e di un’opposizione alla guerra profondamente radicati nelle masse popolari, assieme alla sfiducia nell’azione del governo e delle opposizioni parlamentari, e alla volontà di fare qualcosa di concreto contro l’orrore che ci circonda. E qualcosa di concreto è stato fatto, con i blocchi che hanno paralizzato gran parte del paese e che hanno avuto ripercussioni anche all’estero.
Si tratta indubbiamente di un movimento eterogeneo, che comunque sfugge agli organismi sindacali e politici che pretendono di rappresentarlo e, con le loro narrazioni, di darne una visione distorta, come un movimento mosso solo dalla richiesta di rispetto del diritto internazionale, di riconoscimento dello stato di Palestina, di una svolta nella politica estera dell’Italia.
In realtà il dato da cui bisogna partire è la volontà di scendere in piazza al di fuori delle sigle di partiti, sindacati o centri sociali, è la pratica dell’azione diretta e dell’autorganizzazione che ha visto spesso messi ai margini i capetti dei sindacati, delle liste elettorali e dei centri sociali che pretendevano di dirigere il movimento.
All’interno di questo percorso, la messa in discussione della produzione e del traffico di armi ha assunto un ruolo centrale come obiettivo di lotta, al di là delle mediazioni istituzionali sapientemente svolte da alcuni sindacati, così come un fattore importante è stata la solidarietà spontanea che si è espressa nell’enorme quantità di aiuti raccolti dalla Flotilla.
Impossibile quindi ridurre questo movimento a un movimento di appoggio al nazionalismo palestinese e in particolare alle tendenze islamiste al suo interno, elementi che pure non mancano. Più interessante senz’altro leggerlo anche come movimento che esprime un nuovo protagonismo della classe operaia e dell’insieme delle lavoratrici e dei lavoratori, in grado di esprimere la solidarietà internazionalista al di là dei confini verso una popolazione martoriata.
Saper cogliere gli elementi positivi e lavorare su di essi per ridurre l’influenza degli aspetti negativi è il compito della componente schiettamente e coscientemente antimilitarista: per questo è importante essere presenti all’interno del movimento. La critica antimilitarista deve mettersi in relazione con i fenomeni nuovi, come questo movimento, per allargarsi ad altri strati sociali, con la presenza nelle assemblee e nei collettivi, evitando che siano dominate da forze che nulla hanno a che fare con l’antimilitarismo.
Il 4 novembre è l’occasione per un intervento di questo tipo. Quello che oggi fa l’esercito israeliano a Gaza lo ha fatto l’esercito italiano in Slovenia e Croazia, in Libia con lo sterminio dei Senussi, in Etiopia, in Spagna con i bombardamenti a tappeto di Barcellona e delle altre città repubblicane. L’esercito italiano di oggi è sempre quello che nel 1898 prendeva a cannonate gli affamati o che, all’indomani del 25 luglio 1943, sparava sui manifestanti che chiedevano la fine della guerra.
Con la fine della seconda guerra mondiale non c’è stata alcuna soluzione di continuità, tanto che, ancora oggi, si celebrano le battaglie della guerra imperialista fascista così come strade, scuole ed edifici pubblici sono intitolate ai massacratori in divisa.
Il 4 novembre è la festa di tutto questo, è un momento di propaganda istituzionale dell’ideologia della violenza, del militarismo. L’ideologia militarista della deterrenza e della competitività è quella che sta dietro al genocidio di Gaza e ai mille genocidi sparsi nel globo; la guerra nelle città è stata argomento di un’apposita dottrina elaborata dalla NATO negli anni scorsi, di cui l’operazione Strade sicure è solo la prima tappa. E la guerra nelle città è in primo luogo guerra contro la classe operaia, per sottometterla al dominio dei governi e dei padroni.
Ecco quindi che la contestazione delle cerimonie ufficiali per il 4 novembre fornisce l’occasione al movimento complessivo per fare un passo in avanti, sotto lo stimolo della critica antimilitarista, verso l’apertura di un processo di trasformazione sociale, senza rinchiudere il movimento che si è recentemente sviluppato nella prospettiva meschina di una lista elettorale per il 2027.
Tiziano Antonelli