Mentre sono in corso molteplici iniziative in occasione della ricorrenza dell’80° della fondazione della Federazione Anarchica Italiana, da segnalare un impegnativo convegno scientifico (Carrara, 11-12 ottobre 2025), anticipo in sintesi – per i lettori di Umanità Nova – un paio di tematiche di carattere metodologico ma anche, a mio modo di vedere, sostanziale, che ho trattato di recente in un saggio in corso di pubblicazione presso l’editore Viella, volume collettaneo dedicato agli anarchici nella Resistenza (curatore Claudio Silingardi). Si tratta, in primis, di superare la “sacralità” della cesura periodizzante dell’anno 1945 adottandone invece una più confacente, sebbene densa di complessità, ossia il decennio della crisi 1937-1948, cambiandone così radicalmente la visuale. Si tratta, infine, di spiegare il “ridimensionamento” delle file anarchiche nel secondo dopoguerra, fenomeno evidente e spesso rimosso, ampiamente certificato dalle fonti.
L’insufficienza del 1945 come cesura periodizzante globale e italiana è confermata, di contro, dalle notevoli continuità. La prima è quella dei campi d’internamento che, dopo il 25 luglio 1943, proseguivano in Italia la loro funzione con il governo Badoglio – come nel caso di Renicci d’Anghiari, destinato a slavi e anarchici – universi concentrazionari che, dopo la liberazione di Auschwitz (27 gennaio 1945) proseguivano in URSS, sotto forma di Gulag, e ben oltre la morte di Stalin.
La seconda continuità è quella dello Stato italiano, esaminata da Claudio Pavone. Quattro gli insiemi di fattori da lui individuati come ostacoli alla discontinuità: la sottovalutazione del problema dello Stato da parte della Resistenza, insieme alla precarietà / inconsistenza istituzionale dei CLN; il ruolo di continuità svolto di fatto dalla Repubblica Sociale Italiana e la restaurazione messa in atto dagli Alleati; il compromesso su cui era nata la Costituente e le debolezze attuative della Carta costituzionale; la risibilità dei provvedimenti di epurazione e delle sanzioni contro il fascismo, la permanenza infine degli apparati del parastato sviluppatisi negli anni Trenta e del personale prefettizio.
Le cesure 1937-1948, attinenti alla specifica parabola novecentesca dell’anarchismo italiano, ne intersecano sia le dinamiche belliche e postbelliche globali, proprie delle guerre civili di lunga durata, sia il precipuo contesto nazionale di riferimento, ossia l’Italia-paese. Contesto dove, in quel preciso periodo, si addensavano eventi traumatici istituzionali dalle persistenti conseguenze sociopolitiche e culturali. È il cosiddetto “decennio della crisi italiana” e delle transizioni evocato da Giovanni De Luna. Un decennio che aveva evidenziato le enormi difficoltà nell’uscire da una dittatura ventennale e da una guerra rovinosa, e che avrebbe poi continuato ad alimentare narrazioni a “compartimento stagno” e per “feudi interpretativi”. Erano pertanto maturi i tempi “per un racconto di quegli anni il più possibile complessivo e compiuto”. Anni in cui – dopo la bruciante sconfitta dell’antifascismo in Spagna e l’avvento delle leggi razziali – precipitavano la Seconda guerra mondiale, precipitava la Repubblica Sociale Italiana (RSI), la Shoah, la Resistenza, il Regno del Sud… Si avviava, nei primi anni Quaranta, il processo d’impianto dei tre grandi partiti – DC, PCI e PSI – egemoni per il successivo mezzo secolo (fino cioè al collasso del sistema politico italiano nel 1992), e ancora precipitavano il referendum istituzionale e con esso la dinastia sabauda; si esauriva così la secolare battaglia delle forze popolari antidinastiche, precipitava la Guerra fredda e, alla coppia fascismo-antifascismo si giustapponeva la nuova coppia comunismo-anticomunismo, mentre si riducevano spazi e agibilità politica per le “terze forze”, in particolare di quelle di ispirazione libertaria. E nasceva la Repubblica democratica…
Il sopracitato 1948 può essere assunto come delimitazione ad quem, anno periodizzante che – a mio parere – al di là delle innumerevoli continuità politiche e istituzionali di contesto, e anche di alcune interessanti esperienze personali di longevità militante, ha marcato un nuovo “punto di non ritorno” (il secondo in ordine cronologico dopo il 1937), verso il ridimensionamento libertario. A diminuire non era certo la qualità della riflessione teorica, tutt’altro. Valga per tutti l’esempio di “Volontà”, rivista che, nel periodo della direzione di Giovanna Caleffi Berneri, dalla fondazione a tutto il decennio successivo, fungerà da crocevia e laboratorio intellettuale per un dialogo fra libertari e sinistra eretica in Europa. Erano piuttosto cambiati, insieme alla geopolitica globale, i tempi e i modi di concepire spazio pubblico e comunicazione. Il mancato ricambio generazionale era stato uno dei motivi dell’assottigliamento nelle fila del movimento; forse non l’unico, come si può rilevare sia dagli studi basati sulle fonti di polizia, sia da quelli derivati dall’attenta compulsa, per gli anni Quaranta / Cinquanta, del settimanale “Umanità Nova”.
Nel dopoguerra il movimento perdeva la sua base di classe in coincidenza delle profonde trasformazioni del paese. La militanza partigiana come lotta di liberazione nazionale contro l’occupante tedesco, il richiamo al Risorgimento, il mito sovietico, erano i contenuti d’impatto nella transizione alla democrazia. L’antifascismo, convertito in sistema di governo, fungeva da elemento di ricomposizione tra Politico e Statale. Il PCI e la CGIL, complici lo sviluppo dei partiti di massa e l’inclusiva strategia togliattiana, raccoglievano a sinistra l’eredità del sovversivismo. Il restante ridimensionamento si compiva con la Guerra fredda. Anche nelle zone a consolidata tradizione libertaria si verificavano scollamenti nell’area simpatizzante; specie al referendum del 2 giugno 1946 e alle elezioni del 1948, appuntamenti del “non ritorno”. Integratosi il movimento operaio nello Stato, iniziava la normalizzazione. La fase delle opportunità antifasciste radicali si era rivelata effimera; si apriva quella invece dell’abbandono delle grandi speranze. A quel punto, la nostalgia politica rimaneva un supporto inefficace e fragile per stimolare creatività e immaginazione sociale (almeno fino al risveglio, e agli ancora lontani nuovi Grand Espoir della sinistra radicale del 1956 e del 1968).
Giorgio Sacchetti
nell’immagine: Disegno fuori di senno di Clara Germani