Quando un’analisi è inattaccabile ma bisogna in tutti i modi screditarla, si prova a svuotare di significato la parola che sta dietro al ragionamento e relegarla a qualcosa di ormai vetusto e sorpassato, che insomma poteva valere un tempo ma sicuramente non ha più a che fare con la realtà di oggi, riuscendo così a svuotare quella parola anche del suo significato intrinseco. Un attacco simile, in questa lotta linguistica, era stato tentato anche per il termine “antifascismo” e il conseguente ridicolo tentativo di nobilitare l’ “afascismo” come definizione più attuale e super partes.
Così negli ultimi anni troviamo politic o personagg di spicco che parlano del patriarcato come qualcosa di superato. La sua morte, si dice, era stata già decretata con la riforma del diritto di famiglia del 1975, per cui non ha più senso parlare di lotta al patriarcato, ma ci si deve concentrare, al limite, a combattere la cultura maschilista e machista. Proviamo a giocare con le stesse carte di quest signor per vedere se la loro tesi sta in piedi.
Il 19 maggio 1975, con la sola astensione del Movimento Sociale, il parlamento approva la legge 151. Le modifiche apportate al diritto di famiglia sono considerate un grosso passo avanti nello sviluppo giuridico del paese, in quanto si riconosce alla donna una condizione di completa parità con l’uomo all’interno della “nucleo fondante” di ogni agire sociale. La precedente normativa risaliva al Codice civile del 1942, che aveva disegnato una famiglia basata su una rigida struttura gerarchica, al cui vertice si trovava il pater familias, con i figli e la moglie in posizione subordinata; l’asse ereditario inoltre era a esclusivamente a vantaggio dei figli maschi. Che questo passo non fosse così scontato e facile lo si può constatare dal fatto che solo nel 1948 vengono inseriti gli articoli 29, 30 e 31, in cui la parità di diritti e doveri tra i coniugi viene introdotta anche nella Costituzione. La legge 151 era il punto finale di altri atti avvenuti anni prima; tra il 1968 e il 1969 la Corte costituzionale aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 559 del Codice penale che puniva unicamente l’adulterio della moglie; mentre nel 1970 era stata approvata la legge sul divorzio, ribadita nel 1974 con la vittoria dei “no” nel referendum abrogativo.
Ma tutto questo ha veramente avuto un impatto decisivo e incisivo sulla cultura e su costumi radicati nel Paese? Ha realmente portato al tramonto della famiglia patriarcale e all’affermarsi di nuovi istituti giuridici e modelli familiari? La risposta è un chiaro e netto no; basta pensare che, sempre a livello giuridico, bisognerà aspettare il 1996 per l’istituzione del reato di violenza sessuale (o stupro) come delitto contro la persona e non contro la morale, e la conseguente previsione di una pena contro chi obbliga qualcuno a compiere o subire atti sessuali.
Nel primo Codice penale (Codice Zanardelli), emanato nel 1889 nel neonato Stato unitario, i reati sessuali venivano distinti in violenza carnale e atti di libidine violenti. Per decidere il tipo di reato si svolgeva una vera e propria analisi dell’atto, costringendo la vittima alla dettagliata ricostruzione dei fatti e con domande minuziose spesso era la donna ad apparire come colei che aveva scatenato l’appetito sessuale dell’uomo. Entrambi i reati rimanevano comunque nella sfera della moralità pubblica e dell’ordine familiare; la donna era considerata meramente per la sua funzione sociale ovvero per il ruolo che, volente o nolente, aveva nell’ambito della famiglia e della società. I reati erano visti come crimini contro la procreazione e contro la potestà familiare del marito o del padre; insomma, quello che doveva essere tutelato erano i valori della famiglia e la sacralità della donna non in quanto essere senziente e autonomo ma come madre, moglie e figlia. Il 1° luglio 1930, in pieno regime fascista, entra in vigore il tristemente noto Codice Rocco; qui i delitti di violenza carnale e gli atti di libidine vengono collocati nelle fattispecie poste a salvaguardia “della moralità pubblica e del buon costume”. Ancora una volta la donna veniva cancellata dalla scena e lo stupro concepito come un attacco all’onorabilità della famiglia e all’irreprensibilità delle condotte di tutti i suoi membri. Persino le pene erano concepite in ragione dello status della donna; infatti, qualora fosse stata non nubile o, ancor peggio, prostituta, le pene erano addirittura ridotte. Altro dato interessante, la libertà sessuale non veniva considerata come diritto personale.
Perché le cose cambiassero, almeno in parte, ci vorranno dei fatti reali talmente gravi (ma non lo sono tutti?) da smuovere l’opinione pubblica fin nel profondo. Nel 1965, Franca Viola, dopo essere stata rapita e stuprata violentemente da Filippo Melodia, non solo si sottrasse al matrimonio riparatore (era infatti possibile assolvere l’abusante dal reato di violenza carnale se avesse poi sposato la donna stuprata) ma portò avanti la denuncia fino al processo. Dieci anni dopo, nel 1975, credo che tutt si ricordino i fatti che coinvolsero due ragazze, Rosaria (assassinata) e Donatella, brutalmente picchiate e abusate sessualmente per due giorni da tre ragazzi della “Roma bene” Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira. Il “massacro del Circeo” ebbe ampia risonanza e, per la prima volta, spinse migliaia di donne e movimenti femministi a riunirsi e dare vita a proteste e grandi manifestazioni di piazza per sottolineare la problematica della violenza maschile contro le donne, spesso proprio giustificata partendo dalle abitudini, sessuali o meno, della donna stessa. Altro caso che suscitò l’indignazione pubblica fu quello di Fiorella, 18 anni, che nel 1978 denunciò la violenza carnale subita da quattro uomini, fra cui Rocco Vallone, un suo conoscente. Fiorella dichiarò di essere stata invitata da Vallone in una villa di Nettuno, per discutere una proposta di lavoro come segretaria presso una ditta di nuova costituzione, di essere stata sequestrata e violentata per un pomeriggio intero da Vallone stesso e da altri tre uomini. Questi accadimenti e le manifestazioni femministe portarono alla ribalta l’urgenza di un cambiamento a tutto tondo della società italiana e generarono la spinta necessaria per l’avvio del difficile cammino legislativo verso la modifica del Codice penale atto a riconoscere finalmente i reati di violenza carnale come “reati contro la persona.” Per avere una legge però si dovrà aspettare il 1996, quando per la prima volta, nella legge 66, si parlerà di tutela e rispetto della volontà e di libera autodeterminazione della donna come persona nella propria sfera sessuale. Un aspetto significativo della legge 66 inoltre è dato dall’unificazione in un’unica fattispecie, la violenza sessuale, della violenza carnale e degli atti di libidine violenti. L’unificazione nasceva dalla volontà di tutelare la vittima ed evitare l’ulteriore umiliazione del frugare nella sfera privata e intima per distinguere le due fattispecie (indagini che spesso inducevano la vittima a non denunciare). Nonostante questo, i/le rappresentanti della giustizia sono tuttora portati (ma guarda caso!) a dover distinguere comunque le ipotesi più gravi dai meri comportamenti libidinosi. Si attribuisce cioè al/alla giudice il compito di “graduare”, per cui vengono spesso rivolte alle vittime domande per approfondire la dinamica del fatto, il contesto in cui si è svolta la violenza, i rapporti tra reo-vittima etc. Ancor oggi, nonostante la “morte del patriarcato”, troppo spesso, tanto nelle aule giudiziarie quanto nelle tv generaliste e sulla carta stampata, i casi di stupro vengono analizzati e trattati ponendo l’accento sulla vittima, sulle circostanze in cui si svolti i fatti, se ha chiesto aiuto o fatto capire bene il suo dissenso, finanche invitando le donne a non indossare la gonna o a non bere troppo, correndo il rischio di attirare attenzioni sessuali non desiderate: è quello che viene definito victim blaming o colpevolizzazione della vittima.
Tutto questo porta ad interrogarsi se si debba nuovamente intervenire sulla norma, eliminando i riferimenti alla “violenza” e “minaccia” e preferendo la definizione “contro la volontà” o “contro il consenso della vittima”. Così, si riuscirebbero a ricomprendere in modo più immediato nel reato di violenza sessuale anche i particolari casi di violenza del coniuge o comunque del partner, dove non sempre l’atto sessuale viene imposto con violenza o minaccia.
D’altra parte, la lentezza dell’adeguamento giuridico è legata da un ritardo culturale, sociale e politico che in questo paese, e su queste questioni in particolare, è fortissimo. È solo nel 1978 che alle donne è stato riconosciuto il diritto ad abortire (L.194/1978). Mentre nel 1981, con la legge n. 442 del 5 agosto 1981, veniva abrogata la rilevanza penale della causa d’onore: solo dal 1981 un delitto perpetrato per salvaguardare l’onore proprio e della propria famiglia (art. 587 c.p.) non sarebbe stato più sanzionato con pene attenuate, cancellando così il presupposto che l’offesa all’onore arrecata da una condotta “disonorevole” costituisse una provocazione gravissima tanto da giustificare la reazione dell’“offeso”.
Quindi, anche seguendo solo la giurisprudenza, non si può certo dire che il sistema patriarcale sia tramontato con il nuovo diritto di famiglia. Ma continuiamo a seguire il ragionamento di queste teste quadre benpensanti per cui oggi si dovrebbe ricondurre tutto al maschilismo (atteggiamento culturale e sociale basato sulla presunta superiorità dell’uomo sulla donna) o al machismo (atteggiamento di un uomo che ostenti una virilità appariscente assumendo comportamenti che esprimono forza, aggressività). Anche qui non possiamo essere d’accordo. Usare questi termini sarebbe relegare il problema ad un atteggiamento prettamente maschile o comunque ad una responsabilità esclusivamente individuale, limitando di fatto la possibilità di agire per una vera trasformazione sociale. Parlare di patriarcato significa invece combattere una cultura il cui cambiamento è una responsabilità collettiva, in cui tutt sono coinvolt. È chiaro che il sistema patriarcale non è stato indebolito dal nuovo diritto di famiglia, anzi ha portato molti uomini a usare ancor più la violenza ed ogni altro mezzo per rivendicare quei diritti che prima erano “per legge”. Solo considerando il patriarcato come strutturale all’organizzazione sociale si può capire come mai molte donne non solo non riescono a liberarsi dal ruolo e dai canoni imposti, ma si indignano contro chi questi ruoli li vuole scardinare e sovvertire non considerandoli “naturali”.
Ma c’è di più. Rivendicare la parità tra uomo e donna non significa poter fare le stesse cose che fa l’uomo, come vorrebbero le visioni al femminile di modello meloniano. Diventare dirigenti di azienda o politiche di professione non significa rompere l’ingranaggio dello sfruttamento e creare delle solide basi per l’uguaglianza. Far parte delle forze armate non renderà più rosa il ministero della difesa ma più grigio piombo il femminismo.
Combattere il patriarcato vuol dire voler stravolgere il sistema gerarchico per una vita di condivisione tra eguali. Significa combattere ogni forma di oppressione e di violenza, fisica o economica che sia. Quella delle transfemministe non è una guerra ma una vivace e viva rivoluzione che si deve attuare non solo l’otto marzo ma ogni giorno, finché veramente potremo pensare al patriarcato come ad un’epoca storica buia ma finalmente passata.
Cristina
nell’immagine: manifestazione femminista a Trieste, marzo 2018