Ddl 1660. Repressione, omologazione, consenso.

Il ddl 1660 entra a far parte a pieno titolo del lungo elenco di leggi, decreti e provvedimenti con i quali i vari governi della monarchia prima e della repubblica italiana poi hanno cercato, formalmente, di garantire la sicurezza e l’ordine pubblico nel nostro paese, e sostanzialmente, di mettere a tacere ogni voce discordante, ogni opposizione non allineata, potenzialmente pericolosa, o anche solo “fastidiosa” per l’autorità.

Nello stesso tempo, il ddl 1660 presenta tutta una serie di novità, se non per il contenuto in sé stesso per il periodo storico, politico e culturale nel quale si inserisce, che fanno emergere abbastanza chiaramente dinamiche sociali sottese e un disegno complessivo di controllo generalizzato.

I governi italiani di tutte le epoche non sono mai stati avari di leggi autoprotettive a tutela del proprio dominio, provvedimenti che, specie nei momenti di grave crisi politica e sociale, ne rafforzassero l’autorità facendo ricorso alla limitazione e alla soppressione di quelli che potremmo chiamare genericamente “diritti di protesta” inasprendo, o introducendo, pene per coloro che erano tacciati di comportamenti contrari all’ordine costituito. Una condotta e un’attitudine tipici per chi detiene il potere e lo considera una proprietà personale da difendere contro chiunque provi anche soltanto a contestarlo, come tipico è il fatto che il potere giudiziario si sia sempre schierato a difesa e a fianco dell’esecutivo, essendo da sempre leggi e “monopolio della forza legittima”, per dirla con Weber, i principali strumenti deputati a salvaguardare la classe dirigente anche e soprattutto dalle richieste e dai tentativi di emancipazione dei governati: “Governo significa diritto di fare la legge e di imporla a tutti con la forza: senza gendarmi non v’è governo”.(Malatesta).

Solo per citarne alcune possiamo ricordare le “leggi antianarchiche” del governo Crispi del 1894 che inasprirono le pene per l’apologia di reato, l’incitamento all’odio di classe a mezzo stampa, e l’istigazione alla disobbedienza dei militari; le “leggi fascistissime” emanate da Mussolini nel biennio1924-25, che decretarono la soppressione delle libertà di associazione, sindacale, di stampa e un inasprimento delle norme di pubblica sicurezza; la “legge Reale” del 1975 con custodia cautelare, fermo preventivo, regolamentazione sulle manifestazioni ed estensione della possibilità al ricorso alle armi da parte delle forze dell’ordine.

Lo scopo repressivo di queste “leggi di emergenza” è abbastanza evidente, e se in questo senso il ddl 1660 si colloca senza soluzione di continuità nel solco tracciato da esse e da altre dello stesso tenore, è peraltro innegabile come il clima e il contesto sociale attuale siano per più di un aspetto molto diversi da quelli per esempio immediatamente successivi al moto dei fasci siciliani, dell’instaurazione del regime fascista o degli anni di piombo, e come questa diversità imponga una riflessione che non si limiti solo a denunciare l’intento “intimidatorio” del “decreto sicurezza 2024”, ma che cerchi almeno di comprendere le premesse da cui nasce e di capire quali siano gli obiettivi non dichiarati che si pone.

La conflittualità sociale odierna non è certamente paragonabile a quella di fine ottocento, periodo nel quale esistevano forze dichiaratamente antisistema, tra tutti anarchici e socialisti, che non si accontentavano cioè di un miglioramento delle condizioni esistenti, ma aspiravano alla rivoluzione, intesa come un totale sovvertimento delle fondamenta della società, puntavano cioè a scardinare completamente i presupposti sui quali era basato tutto il sistema di potere vigente, sostituendolo con una visione che permettesse l’inclusione reale, e non solo formale, delle classi sfruttate e fino a quel momento subalterne. Da questo punto di vista possiamo affermare, con tutte le differenze del caso, che anche l’obiettivo delle forze dichiaratamente antifasciste, anarchici, socialisti, comunisti…era la distruzione del regime mussoliniano, quindi, in questo senso, si muovevano anch’esse in una prospettiva antisistema. Da sottolineare il fatto che, rispetto ad oggi, queste forze avevano un largo seguito e riuscivano a intercettare gran parte del malcontento sociale e a fornire, intellettualmente e anche praticamente, un’alternativa al presente e una prospettiva per un futuro diverso edificabile a partire dai bisogni individuali e dalla volontà comune.

Durante gli anni di piombo, pur nella mutata situazione politica e nell’atteggiamento delle forze della “sinistra tradizionale”, ormai collocate stabilmente all’interno del sistema e convertite ad un riformismo che di fatto accettava le regole del gioco senza più metterle in discussione, la spinta antisistema trova sbocco in tutta una serie di movimenti extraparlamentari che si propongono, in modi più o meno condivisibili, l’abbattimento della società e la creazione di un “mondo migliore” e che pur non avendo un seguito paragonabile a quello dei periodi precedentemente accennati non

sono nemmeno completamente incompresi, almeno nelle aspirazioni di fondo, tipica in questo senso un’espressione molto comune e citata del periodo: “Né con lo stato né con le BR”.

Riassumendo grossolanamente possiamo affermare che in tutti i casi sopra descritti le forze antagoniste si proponevano la distruzione del sistema e della classe dirigente che fino a quel momento lo aveva retto e ne aveva beneficiato; possiamo quindi affermare, che, dal punto di vista del potere costituito, le leggi antianarchiche, quelle fascistissime e quelle antiterrorismo fossero leggi di “legittima difesa”, in un momento in cui il “pericolo” di una rivoluzione era percepito come presente e reale, in cui le forze antisistema avevano un largo seguito, in cui la mobilitazione e la partecipazione delle masse era costante, in cui l’elaborazione culturale, era più che mai viva e con grandi capacità di analisi critica del presente e di elaborazione di un futuro alternativo.

Le condizioni della società attuale e del momento storico che stiamo vivendo possiedono queste caratteristiche? È presente, realistica e imminente la possibilità di una rivoluzione o comunque la possibilità di una rottura delle regole del sistema che possa essere percepito come una minaccia dal potere costituito e tale da costituire una “giustificazione” al ddl 1660?

Il sistema capitalistico, neoliberista o in qualunque modo vogliamo chiamarlo è riuscito, e questo è indubbiamente uno dei suoi successi più evidenti, a distruggere il tessuto sociale, ad “appianarne” tutte le differenze in nome di un individualismo senza appartenenze, che isola i soggetti illudendoli di essere unici, che crea un mercato su misura, personalizzato, fruibile a domicilio, senza necessità di rapportarsi con gli altri, senza interazioni sociali, senza scambi di idee, senza condivisione di problemi e elaborazione di soluzioni comuni; il “popolo” è stato disgregato e sostituito da una massa di individui isolati che vivono questa situazione come una liberazione e che barattano volentieri questa “tranquillità” con la “fatica” dell’impegno e della partecipazione, che cedono di buon grado la propria indipendenza e la propria autonomia in cambio dell’illusione di una libertà che consiste nel consumare i prodotti che vengono loro imposti: “Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata (…) L’indipendenza del pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono private della loro fondamentale

funzione critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui (…) Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettati come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo” (Marcuse).

Contemporaneamente la produzione culturale critica e non allineata, lungi dall’essere censurata viene fagocitata dal sistema, digerita e resa merce, un prodotto acquistabile che nel momento stesso in cui viene convertito in denaro perde la sua carica “sovversiva” e rafforza il sistema stesso, sia materialmente che in termini di apparente e democratica tolleranza verso il pensiero “altro”. Le forze apparentemente e alternativamente di opposizione oltre ad essere parte integrante di questo meccanismo contribuiscono con la loro condotta e la loro sdegnata condanna per ogni forma di protesta non codificata dalle regole del “politically correct”, a istituire una sorta di cerimoniale istituzionale, un galateo di come e fino a che punto, con quali toni e gesti, in che orari e luoghi, con quali modalità e limiti si possa pubblicamente dimostrare la propria contrarietà al potere, come se rivendicare diritti o condizioni di vita dignitose fosse un gioco da tavolo con regole prestabilite o un ballo di società con passi codificati.

Se escludiamo le forze, obiettivamente minoritarie, della cosiddetta “sinistra antagonista”, come se poi fosse concepibile una sinistra non antagonista, non esiste nessun movimento che metta in discussione il sistema, si proponga di sovvertirlo o anche solo di contestarne i presupposti; è proprio a queste forze, a questi movimenti, spesso locali, emarginati e ghettizzati che il ddl è rivolto, in parte perché irriducibili ad essere “digeriti” e inglobati nella visione di società “ordinata” e senza conflitti che la narrazione ufficiale impone, ma anche , e forse soprattutto, in quanto si prestano, proprio per la loro alterità, ad essere usati come “spauracchi” da temere, in un circolo vizioso che prevede maggior controllo, telecamere a tutti gli angoli, più forze dell’ordine, più pistole per “difendersi” e soprattutto maggiore e ulteriore disgregazione sociale e individualismo isolazionista; la paura è da sempre un alleato potente nelle mani dell’autorità, un’arma che distoglie da propositi di emancipazione e che fa sì che il potere, per quanto dispotico, venga percepito non solo come necessario ma come indispensabile a garantire la sicurezza; in una società che è sempre più simile a quella immaginata da Alan Moore nel suo famoso fumetto “V per vendetta”. Ultimo aspetto da evidenziare è la continua ricerca, da parte della classe politica, del consenso, merce preziosa, che non richiede più per essere concesso visioni del mondo alternative o anche solo progetti a medio o lungo termine, ma che, come tutte le merci, risponde alle leggi del mercato e della pubblicità, quindi non più programmi ma spot, non più contenuti ma forma, non più sostanza ma apparenza, non più realtà ma reality show; in questo senso apparire difensori della tradizione, dei sacri confini, della proprietà privata contro chi vuole sovvertire tutto quanto c’è di più sacro e istituire il regno del caos in un mondo capovolto e contro natura può risultare senza dubbio molto redditizio, situazione fotografata benissimo da Bakunin quando scriveva: “La stessa esistenza dello stato esige che ci sia un qualche tipo di classe privilegiata che è interessata, per una questione vitale, nel mantenere quell’esistenza. E sono precisamente gli interessi di gruppo di quella classe che sono chiamati patriottismo”.

Cosa c’è di meglio quindi per raggiungere lo scopo se non individuare e additare alla platea degli elettori un nemico interno contro cui fare muro, un gruppo di “diversi” a cui opporre la normalità, una banda di briganti dai quali difendersi, nuove streghe da condurre al rogo in nome di ordine, sicurezza e tranquillità, per garantire i quali concedere a chi ci governa carta bianca? Ecco allora che i pericoli per la sicurezza, l’ordine e il decoro pubblico diventano il migrante col cellulare, il manifestante che interrompe il traffico, l’attivista che vernicia statue e quadri, il senzatetto che cerca un riparo, l’accattone che chiede l’elemosina, l’“ospite” di carceri e cpr che protesta per le condizioni disumane in cui vive. Non ci si sforza di trovare le cause del degrado e dell’emarginazione, né tantomeno di cercare possibili soluzioni, molto più semplice e redditizio in termini di consenso trasformare le vittime di un sistema malato ed iniquo nei “carnefici” e, particolare non trascurabile, migranti, carcerati, accattoni, senzatetto, anarchici e antagonisti in genere non votano e possono essere quindi “sacrificati” in nome del “bene comune”.

Situazione che appare abbastanza disperata per chi non accetta di omologarsi e ancora crede nella possibilità anche solo di poter immaginare un futuro diverso; soluzioni facili non esistono e non sono mai esistite, ma per iniziare basta forse imparare qualche volta a dire “NO”, motivandolo con ragioni forti, non certo a coloro cui è diretto, ma ai possibili compagni di viaggio, in modo che attorno a quel semplice no sia possibile aggregarsi sempre più numerosi per offrire una visione alternativa del futuro e iniziare un cammino che possa provare a realizzarlo: “Che cosa è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta non rinuncia tuttavia. (…) Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando” (Camus).

Alessandro Fini

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