Verità e giustizia per Moussa Diarra

Il 20 ottobre hanno ucciso un ragazzo. A Verona, alle 7.00 del mattino, domenica. Davanti alla stazione. Aveva un nome, Moussa Diarra. Le prime ricostruzioni dei fatti, nel comunicato congiunto di Pretura e Questura, parlano di un’aggressione con un coltello a degli agenti di polizia ferroviaria, tre colpi sparati “da posizione ravvicinata”, uno dei quali uccide il giovane. I media riprendono la notizia, calcando sulla presunta violenza della vittima. Giudicante e giudicato che, prima delle indagini, affermano la stessa cosa, derubricando già il caso a legittima difesa – il fantasma di Genova che ritorna, con Fini che, dopo essere stato nella sala operativa della questura, assolve mediaticamente il carabiniere che ha freddato Carlo Giuliani. Le indagini affidate alla questura stessa, come nel caso delle torture avvenute nei suoi uffici. Il caso sembra già risolto. Solo che Moussa è conosciuto e le associazioni che avevano cercato di dargli aiuto si mettono di traverso (Laboratorio Autogestito Paratod@s in primis). E la versione ufficiale inizia a mostrare le prime falle, i primi aggiustamenti, già dopo qualche giorno, come ad esempio sulla distanza che si va allargando a 5 metri o sulle tempistiche1. L’esame autoptico di giovedì 24, inoltre, conferma il fatto che gli spari non possono essere stati esplosi a breve distanza per l’assenza di bruciature e mette in dubbio sia i danneggiamenti alle vetrine che la precedente colluttazione con la polizia locale, che sarebbe avvenuta almeno due ore prima dell’uccisione senza che venissero presi provvedimenti, vista la mancanza di lividi o escoriazioni sulle mani2. Senza contare il foro sul vetro dall’altra parte del piazzale, ad alzo zero. Cos’è successo, quindi? Starà ad un processo, che si preannuncia lungo e tortuoso, stabilirlo. Ma qualcosa possiamo dirlo, come ha fatto Mackda Ghebremariam Tesfaù sul Manifesto3: un uomo nero è stato ucciso da un poliziotto. Un uomo o, meglio, un ragazzo di origine maliana di 26 anni. Un ragazzo nero (e il colore della pelle è dirimente in questa storia) che è stato ucciso più volte, avendo dovuto subire prima le violenze di un Paese che non lo voleva (e che non smette di non volerlo, con la legislazione in materia d’immigrazione, con i campi di concentramento in Libia e in Italia, con l’espulsione dal sistema di accoglienza, con l’assenza di politiche abitative e di cura, con lo sfruttamento semi-schiavile della forza-lavoro)4 e, dopo la morte, la criminalizzazione mediatica e istituzionale. Istituzioni che si sono affrettate, senza esclusioni, a dare il loro sostegno alla polizia. Non un dubbio, nessuna volontà di comprendere, nemmeno dopo gli allarmi lanciati dal Consiglio d’Europa e dall’Onu. Più in generale, dopo Genova non si è mai aperta una discussione seria sull’istituzione poliziesca. Perché la polizia non solo conserva il diritto, producendo insicurezza mentre mette in pratica leggi securitarie, ma lo pone anche, riproducendo marginalità con la sua applicazione differenziale sulle diverse soggettività, con una profilazione che razzializza e inferiorizza, con le esasperanti lungaggini per l’ottenimento dei documenti5. E lo fa in maniera più violenta di quanto facciano le altre istituzioni. Non per questo si deve minimizzare l’impatto che hanno queste ultime. Il Comune di Verona, ad esempio, non ha mai individuato una soluzione per le circa cinquanta persone che avevano trovato rifugio nella casa occupata del Ghibellin Fuggiasco, tra cui c’era Moussa. O la difficoltà di accesso a cure adeguate del Servizio Sanitario Nazionale.

Le ricostruzioni parlano di un evidente stato di agitazione del ragazzo, mentre gli amici hanno raccontato che da tempo soffriva di depressione. Questo disagio psichico ha bisogno di tempo, di una rete relazionale, di un supporto di operatori qualificati e, sì, di una cura farmacologica ponderata. Ha bisogno anche di un luogo dove stare al sicuro, dove nascondersi quando necessario. Anche da qui passa la linea del colore, anche da qui passa il privilegio della bianchezza, anche da qui passa il razzismo strutturale che ogni giorno agisce su persone come Moussa. Persone, occorre ribadirlo. Per farlo, per chiedere verità e giustizia per il suo omicidio e per opporsi alle leggi liberticide e razziste del governo sabato 26 più di cinquemila persone sono scese in piazza, rispondendo all’appello dell’Alto Consiglio dei Maliani in Italia, dell’associazione Faso Yeredon, del Paratod@s e delle molte altre associazioni che hanno aderito. Una manifestazione di rabbia, determinata ma pacifica, checché ne dicano i media mainstream e squallidi rappresentanti governativi, palesando la propria malafede. Il successo della giornata, però, non basta: ora si aprirà un periodo in cui l’attenzione mediatica verrà meno e il silenzio rischierà di favorire l’oblio sulla vicenda. Starà a tutti noi quindi vigilare affinché questo non avvenga, perché questa non è solo una vicenda locale, ma chiama in causa la società nel suo complesso. Un aiuto concreto, per chi vuole e può, lo si può fornire contribuendo con una donazione per le spese legali e il sostegno alla famiglia sul conto corrente intestato a “APS Equilibrio Precario” – IBAN: IT91X0501811700000011689940 – causale: “Verità e giustizia per Moussa”.

Niccolò Furri

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