Deportazioni in Albania: tra autoritarismo fascista e guerra ai poveri. Una storia già vista.

Nel momento in cui scriviamo non si sono ancora sopite le polemiche per la mancata convalida, da parte del tribunale di Roma, della procedura di trattenimento ed espulsione a carico di sedici immigrati deportati in pompa magna nel centro di trattenimento di Gjader in Albania tra le fanfare del governo Meloni.

Questo doveva essere il primo atto ufficiale della nuova strategia governativa per quella che i fascisti amano definire “la difesa dei confini”. E infatti, anche per essere coerenti con il linguaggio militarista e bellicoso che si utilizza per combattere questa perenne guerra ai poveri, è stata persino mobilitata una nave militare, la Libra, per il trasferimento di quei sedici poveri disgraziati in uno dei nuovi lager per migranti che l’Italia ha allestito in un paese estero – l’Albania – toccando probabilmente uno dei punti più bassi e vergognosi nella storia politica di questo paese.

Sulle pagine di Umanità Nova ci siamo già occupati (numero 36 del 2023) dei centri di detenzione italiani in Albania e di questo cinico piano di esternalizzazione delle frontiere escogitato con il protocollo tra Roma e Tirana. A distanza di quasi un anno, il governo è stato bruscamente stoppato dal tribunale di Roma che non ha convalidato il trattenimento dei sedici per due motivi molto semplici: quattro di loro sono minorenni (e il protocollo italo-albanese esclude espressamente il trasferimento di donne e bambini nei centri di Gjader e Shengjin), mentre gli altri dodici provengono da Egitto e Bangladesh, ovvero paesi ritenuti «non sicuri» e verso i quali i malcapitati non possono e non devono essere rimpatriati.

I giudici di Roma hanno motivato la loro decisione citando una sentenza dello scorso ottobre della Corte di giustizia europea nella quale si nota che «il diniego» della convalida dei trattenimenti nelle strutture albanesi è dovuto «all’impossibilità di riconoscere come paesi sicuri gli stati di provenienza delle persone trattenute, con la conseguenza dell’inapplicabilità della procedura di frontiera».

Le reazioni del governo, da Giorgia Meloni al ministro dell’Interno Piantedosi, passando per il solito Salvini, sono state rabbiose e sguaiate, con le classiche dichiarazioni al limite dell’eversivo, e il riproporsi dello scontro tra esecutivo e magistratura nel quale quest’ultima viene tacciata di essere politicizzata “a sinistra”.

A Palazzo Chigi faticano a capire (o fanno finta di non capire) che i giudici della diciottesima sezione del tribunale di Roma non si sono inventati proprio niente. Hanno semplicemente applicato la legge considerando, da un lato, il divieto di deportazione per soggetti vulnerabili (previsto proprio dal protocollo sottoscritto da Meloni con il suo omologo albanese) e, dall’altro, le indicazioni in ambito europeo in materia di protezione internazionale che si basano sulla direttiva n. 32 del 2013 (alla quale ha fatto riferimento la sentenza della Corte di giustizia).

Alla luce di tutto questo, è davvero inquietante la forzatura con la quale il governo ha voluto mettere nero su bianco – a mezzo decreto – una sua lista dei paesi sicuri nella convinzione che debbano essere gli stati a stabilire questo genere di cose, e non certo la magistratura.

E se per l’Europa i paesi veramente sicuri erano – fino all’altro giorno – ventidue, con questo nuovo decreto l’Italia ne riduce il numero a diciannove, escludendo dall’elenco Camerun, Colombia e Nigeria, paesi in cui sono documentate palesi violazioni dei diritti umani o sono in corso dei conflitti, e verso i quali sarebbe davvero impossibile organizzare un rimpatrio senza grattacapi burocratici.

Quindi, da oggi, è il governo italiano a stabilire quali siano i paesi “sicuri”, nella convinzione che – da ora in poi – i giudici non potranno più mettere il bastone tra le ruote nelle procedure accelerate di frontiera. «Il giudice non può disapplicare una legge, tenderei a escludere che possa disapplicarla», ha detto il guardasigilli Nordio, in conferenza stampa.

E invece sì. Nordio dovrebbe sapere che i giudici possono e devono disapplicare la legge se è in contrasto con la normativa europea perché questa è sovraordinata alla norma nazionale. Si tratta proprio dell’abbiccì della giurisprudenza.

Non è facile fare previsioni su come andrà a finire questa storia. Il dato essenziale è che questo governo, per ragioni politiche e di propaganda, sta mettendo in campo una serie di iniziative squisitamente autoritarie in spregio a qualunque rispetto delle forme e dei limiti su cui si strutturano le istituzioni democratiche. Di certo non spetta a noi assumere la difesa d’ufficio della democrazia, ci mancherebbe altro. Ma al contempo non ci interessa nemmeno ribadire, in questa occasione, quanto schifo facciano le istituzioni soltanto perché dobbiamo ottemperare al nostro dovere di anarchici. Chi ci conosce sa già come la pensiamo e qual è la società che vogliamo costruire.

Quello che vogliamo sottolineare invece, rivolgendoci soprattutto a quelli che non la pensano esattamente come noi, è che questo governo è disposto a tutto pur di perseguire i propri fini repressivi e discriminatori. È un governo che non esita a provocare cortocircuiti istituzionali, a piegare il diritto a suo uso e consumo, a emanare decreti o leggi palesemente incompatibili con l’ordinamento giuridico nazionale o sovranazionale. Il tutto, come sempre, sulla pelle dei più deboli, dei più poveri, o di chi cerca di alzare la testa.

Una storia già vista, che ben conosciamo, e che si sta ripetendo.

TAZ laboratorio di comunicazione libertaria

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