In diversi articoli ci siamo occupati su queste pagine delle condizioni di sfruttamento dei rider e in generale dei “platform worker”, cioè dei lavoratori che dipendono da piattaforme digitali (vedi UN 7/2024)
A luglio è stato pubblicato un report relativo al lavoro su piattaforma in Italia, curato dal progetto Fairwork (una iniziativa operante in 38 paesi, coordinata dall’Oxford Internet Institute e dal WZB Berlin Social Science Center). I presupposti su cui opera Fairwork (“Lavoro equo”) sono francamente discutibili, perché il progetto si propone di conferire un bollino di qualità (!) a quelle piattaforme che raggiungano cinque standard minimi riguardo a equità delle paghe, condizioni di lavoro, contratti, gestione aziendale e rappresentanza sindacale dei lavoratori. L’illusione è quella di indurre le aziende ad adottare comportamenti etici sulla spinta dell’attenzione dell’opinione pubblica e della responsabilizzazione dei consumatori. Come ben sappiamo, in assenza di una reale e costante mobilitazione delle lavoratrici/ori, queste iniziative rischiano di dar luogo solo ad operazioni puramente cosmetiche.
Comunque la ricerca fornisce diverse indicazioni interessanti. In Italia sono state prese in considerazione cinque piattaforme, il punteggio minimo da raggiungere per potersi fregiare del “bollino di qualità” è 10, la graduatoria è la seguente:
Jobby 8
Just Eat 7
Glovo 4
Deliveroo 3
Helpling 2
Quindi nessuna delle aziende prese in considerazione raggiunge lo standard minimo richiesto. Per comprendere meglio di che cosa stiamo parlando è importante tener presente che si tratta in genere di piattaforme internazionali che elaborano la loro strategia a livello globale, declinandola poi diversamente secondo la legislazione dei diversi paesi.
Jobby (che nella ricerca raggiunge una quasi sufficienza) è una piattaforma nata in Italia nel 2015 e svolge le funzioni di agenzia del lavoro on line, limitandosi all’intermediazione. La lavoratrice/ore può candidarsi per una vasta gamma di lavori: dalla cameriera al magazziniere al montatore specializzato. Sull’app si incontrano domanda e offerta e Jobby percepisce una commissione per il contratto stipulato. Il neo riscontrato dall’indagine è l’assenza di rappresentanza sindacale, d’altra parte ovvia visto che la piattaforma si basa sulla totale parcellizzazione e precarizzazione del lavoro. Possiamo dire che questa soluzione è il paradiso dei padroni, contratti a prestazione e lavoratore (sfruttato e) contento.
Just Eat è una piattaforma di “food delivery “(consegna di pasti a domicilio) che a livello globale ha scelto di dotarsi di un profilo “etico”, confidando nel positivo ritorno in termini di immagine.
A livello UE Just Eat appoggia l’adozione di una Direttiva europea sui lavoratori digitali (peraltro ancora molto lontana, visto che siamo solo alle prime fasi di un percorso legislativo lungo e accidentato) e in Italia è uscita nel 2021 dal penalizzante contratto Assodelivery-UGL per sottoscrivere con CGIL-CISL-UIL un accordo che riconosce i rider come lavoratori dipendenti inserendoli in una sezione appositamente creata del contratto della logistica.
A seguito di questo accordo il CEO Jitse Groen si pavoneggiava a tutta pagina sul “Corriere della sera” (6/12/2021) ergendosi a paladino dei diritti dei lavoratori e dichiarando: “Sono convinto che il modello basato sui rider freelance non sia sostenibile […] Il passo successivo? Rendere i consumatori più consapevoli del fatto che ora ci sono rider con diritti e rider senza”.
La campagna di immagine della piattaforma è arrivata fino al punto di sponsorizzare il concertone CGIL-CISL-UIL del I maggio 2023 (suscitando le giuste proteste delle lavoratrici/ori).
L’operazione paga anche in questa indagine dove l’azienda raggiunge 7 punti su 10 (risulta carente sulla congruità dei salari e nella gestione trasparente del rapporto di lavoro).
In realtà non è tutto oro quello che luccica. È vero che i rider Just Eat sono inquadrati come dipendenti ma l’accordo sottoscritto coi confederali è molto penalizzante rispetto al contratto della logistica, le paghe sono basse (lo rileva anche il report), si tende ad abusare dei contratti a tempo determinato, permangono i problemi tipici della categoria (assenza di sicurezza sul lavoro, mezzi di lavoro a carico dei dipendenti ecc.) e ultimamente in alcune città (come Torino) si è riscontrato un uso abnorme di procedimenti disciplinari. Su questi punti si sono sviluppate diverse mobilitazioni, promosse specialmente dal Si-cobas.
Con Glovo, Deliveroo ed Helpling entriamo nel mondo vero e proprio dei “padroni delle ferriere” vecchio stile.
Glovo e Deliveroo sono piattaforme di “food delivery” che hanno incentrato la loro strategia globale sulla riduzione al minimo del costo del lavoro, tra le più accese avversarie di ogni proposta di regolamentazione a livello europeo, non perdono occasione di sbraitare che solo la completa libertà di impresa può loro consentire di sopravvivere (!). Deliveroo ha addirittura abbandonato il mercato spagnolo, sostenendo che la legislazione di quel paese (che riconosce i rider come lavoratori dipendenti) sia troppo penalizzante, mentre Glovo, per lo stesso motivo, è uscita dalla Confindustria spagnola sbattendo la porta.
In Italia le due piattaforme applicano il contratto pirata Assodelivery-UGL che consente di inquadrare le lavoratrici/ori come autonomi, spremendoli al massimo.
Nel report di Fairwork Glovo consegue solo 4 punti (è interessante osservare che nel contemporaneo report relativo alla Spagna è inchiodata a zero punti) mentre Deliveroo raggiunge appena i 3 (altrettanti ne aveva conseguiti in Gran Bretagna nel report 2023).
Ma il fanalino di coda in Italia è rappresentato da Helpling, una piattaforma nata in Germania nel 2014 che opera in 10 paesi, svolge una funzione di mera intermediazione del lavoro mettendo in contatto proprietari di case e lavoratrici/ori domestiche. Le garanzie offerte a chi cerca lavoro sono scarse e quindi il punteggio conseguito è di soli 2 punti. Da notare che in altri paesi la piattaforma ha adottato modelli operativi diversi, per adattarsi alla legislazione del singolo Stato, in Svizzera ad esempio assume direttamente il personale, mentre in Germania opera sulla base di contratti permanenti di subappalto.
Il quadro desolante che emerge da questa inchiesta conferma quanto già ampiamente noto: il livello di ipersfruttamento a cui sono sottoposte le lavoratrici/ori digitali. Una situazione che può essere ribaltata solo dall’azione diretta e dall’organizzazione in prima persona delle lavoratrici/ori sfruttate. Il bollino di qualità diamolo alle lotte!
Mauro De Agostini