Basta carcere, basta repressione
Il 6 giugno del 2023, nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore, il trentottenne Bassem Degachi si toglie la vita dopo aver ricevuto la notifica di una nuova ordinanza di custodia cautelare per fatti risalenti al 2018. Si trovava in carcere già da qualche anno per fatti legati alla droga, ma da circa un anno era in regime di semilibertà e aveva iniziato a lavorare in una remiera. La prospettiva di dover ripiombare in quel buco nero che è il carcere ha spento ogni speranza nel suo futuro, spingendolo a compiere il tragico gesto.
Ma questa morte non è certo stata una cosa inaspettata ed improvvisa perché Bassem, prima di suicidarsi, aveva telefonato alla compagna, facendole capire quali erano le sue intenzioni: lei proverà a chiamare l’istituto penitenziario per ben tre volte per chiedere di andare a verificare, ma la risposta ricevuta sarà sempre la solita, cioè di non preoccuparsi perché tutto era tranquillo. Poco dopo verrà contatta ricevendo la notizia del decesso del compagno.
Circa un anno dopo per la “giustizia ufficiale” non c’è nessun colpevole. La posizione dei tre indagati, compreso il comandante della polizia penitenziaria, come richiesto dal Pubblico ministero, viene archiviata dal Giudice per le indagini preliminari. Lo Stato non processa se stesso.
Questa vicenda è esemplificativa di quello che sta avvenendo all’interno delle carceri. Secondo i numeri forniti da Ristretti Orizzonti nel dossier “Morire di Carcere”, nello stesso anno in cui si è tolto la vita Bassem Degachi ci sono stati 69 detenuti morti per suicidio (70 per l’associazione Antigone); se contiamo anche le morti causate da assistenza sanitaria disastrata, overdose o per cause non chiare, quindi ancora da accertare, si sale ad un totale di 157 decessi. Nel 2024, alla data del 31 agosto, siamo già arrivati a 68 suicidi (uno avvenuto nel CPR di Roma) e, se si aggiungono le altre cause di decesso elencate sopra, si arriva a 169 morti. Per rendere ancora più evidente la gravità della situazione si possono mettere a confronto gli ultimi dati pubblicati dall’OMS, dove si rileva che il tasso di suicidi in Italia nel 2019 era pari a 0,67 casi ogni 10.000 persone, con il tasso di suicidi in carcere nel 2023 che è di 12 casi ogni 10.000 persone. Come si può notare lo scarto è incredibilmente elevato: in carcere ci si toglie la vita 18 volte di più rispetto alla realtà esterna. Se prendiamo come riferimento l’anno 2022, che, sempre secondo i numeri forniti da Ristretti Orizzonti, con 84 suicidi (85 sempre per l’associazione Antigone) è stato l’anno con il più alto numero di casi, si sale a 23 volte più rispetto all’esterno. Aggiungiamo a tutto questo l’elevato numero di tentati suicidi e di autolesionismo, senza dimenticare le gravi condizioni di sofferenza psichica, con un’ampia fetta di detenut* che fa uso di psicofarmaci. Da segnalare a luglio anche un morto per sciopero della fame nel carcere di Augusta; nello stesso posto nel 2023 sono morte, sempre per il solito motivo, altre due persone.
Quella delle carceri è una situazione ai limiti della sopravvivenza. Secondo l’ultimo dossier dell’associazione Antigone il tasso di affollamento reale è del 130,6% (secondo i dati ufficiali è del 120%, ma non si tiene conto dei posti non disponibili). Alcuni istituti penitenziari superano addirittura il 190%: a Milano San Vittore maschile è al 227,3%, al femminile al 190,7%, Brescia Canton Monbello è al 207,1%, Foggia 199,7%, Taranto 194,4%, Potenza 192,3%, Busto Arsizio 192,1% e Como 191,6%. Addirittura, per la prima volta da anni, anche gli Istituti Penali per Minorenni stanno riscontrando dei tassi di sovraffollamento.
Le condizioni all’interno delle carceri sono degradanti: ci sono situazioni con celle che presentano infiltrazioni e muffa, celle che non hanno la doccia, celle in comune in gravi condizioni con seri problemi di umidità; altre con bagno a vista o a cui manca l’areazione; alcuni penitenziari a cui manca l’allacciamento alla rete idrica; finestre schermate che non consentono il passaggio di luce naturale o areazione, muri scrostati, scarafaggi e cimici da letto, celle che non garantiscono i 3mq di spazio calpestabile a testa. E l’elenco può continuare ancora a lungo. A tutto questo aggiungiamo la tendenza all’aumento della sanzione disciplinare dell’isolamento, l’utilizzo del carcere duro, come il 41bis, continui casi di violenze e soprusi da parte del personale penitenziario, carenza dell’assistenza sanitaria, morti, suicidi, autolesionismo, sovraffollamento, alte temperature, che se fuori sono insopportabili, dentro diventano infernali: tutto questo ha creato il mix perfetto per le rivolte che sono scoppiate negli ultimi mesi.
Da Roma Regina Coeli a Trieste, da Torino a Firenze Sollicciano, dall’Ucciardone di Palermo a tante altre parti del paese, compresi anche alcuni Istituti Penali per Minorenni – come per esempio le ultime rivolte che sono avvenute all’interno del carcere minorile Beccaria di Milano – le carceri si sono incendiate per le proteste contro le condizioni ormai diventate intollerabili. Ma la risposta del governo non si è fatta attendere: già a metà maggio con un decreto ministeriale è stato istituito il Gruppo di Intervento Operativo (GIO), un reparto specializzato della polizia penitenziaria per sedare le rivolte; inoltre, se entrasse in vigore il reato di rivolta all’interno di un istituto penitenziario inserito nel Ddl Sicurezza, questi atti, anche nel caso di resistenza passiva, potranno essere puniti con una reclusione da due a otto anni. Cosa che andrebbe ulteriormente ad aggravare la situazione di sovraffollamento, soprattutto se messo insieme con gli altri punti che il Ddl contiene. Sovraffollamento comunque già aggravato da tutta quella serie di leggi e decreti legge convertiti in legge, tipo il Decreto Caivano, che hanno inserito nuove fattispecie di reato e ne hanno inasprite altre già esistenti.
Il carcere non è un’istituzione che è sempre esistita, per lo meno nella forma attuale; anche il sistema detentivo infatti è figlio del modello di società in cui viviamo. I fatti sopra riportati dimostrano la crudeltà di un sistema che per sua natura genera sofferenza e rancore; i dati sulla recidività che arriva quasi al 70% evidenziano chiaramente l’ipocrisia del concetto di “rieducazione del condannato”; il carcere mostra chiaramente di non risolvere il problema della criminalità, e d’altra parte la criminalità è figlia di quello stesso sistema che genera le carceri.
Nonostante l’evidenza di queste considerazioni, ancora le prigioni vengono viste come realtà indispensabili per il vivere “sociale”.
L’immaginario ideale su cui si fondano gli Stati moderni si può dire che provenga dalla filosofia politica del contrattualismo. Secondo questo sistema di pensiero all’origine gli esseri umani erano degli individui isolati dotati di “diritti naturali”. Indipendentemente che venissero considerati dei buoni che la società poi corrompe, o delle belve che non sono in grado di controllare la loro “libertà assoluta”, distruggendosi l’un l’altro – oppure una via di mezzo tra queste due possibilità – questi individui dovranno stipulare un patto, o contratto, per poter vivere insieme e non recarsi danno a vicenda. Questo contratto, che dovrebbe difendere l’essere umano da se stesso, è lo Stato. Non esiste società in questo passaggio dall’individuo allo Stato, ma la società verrà identificata con lo Stato stesso. Da qui l’idea di uno Stato neutro che ha il solo compito di difendere quella che viene definita la sovranità o volontà generale. Di conseguenza, lo stesso apparato repressivo, che comprende appunto anche il carcere, avrà il compito di difendere gli individui e la loro libertà “naturale” dalla libertà stessa degli individui, oppure di proteggere una fumosa “volontà popolare”.
Al di là di questa costruzione metafisica e ideale con cui si giustificano gli Stati moderni, la realtà materiale ci dice che la società preesiste all’individuo. La società è fatta di individui, ma la mia individualità è tale se riconosciuta da altre individualità, la mia libertà non è metafisica o assoluta, ma si costruisce nel riconoscimento dell’eguale libertà degli altri. Se vivo tra persone libere anch’io sarò una persona libera; allo stesso modo se vivo in mezzo a dei bruti è probabile che diventi io stesso un bruto, o se ho la forza di volontà di non diventarlo, quasi sicuramente diventerò un emarginato. Lo Stato, o meglio, il governo, è formato da un gruppo di individui che distaccatosi dalla società creano una classe a sé e attraverso il monopolio della violenza impongono la propria volontà – quindi non la volontà generale o popolare – al resto della popolazione. Tra i vari strumenti per esercitare questo monopolio c’è il carcere, discarica sociale dove i vuoti a rendere, i soggetti che la società disciplinare non è riuscita a piegare all’interno del processo di produzione del capitale, vengono scartati. Nello Stato, che la narrazione dominante spaccia come società, chi detiene il potere genera rapporti gerarchici soggetto-governo, soggetto-padrone, dove non c’è spazio per legami sociali orizzontali, ritenuti pericolosi per le classi dominanti, per cui ogni rapporto tra individui deve passare attraverso questo ordine gerarchico. Se a questo aggiungiamo una proprietà privata che genera conflitto e disuguaglianze, una logica del profitto secondo la quale per il mio bene posso approfittare degli altri o schiacciarli, l’oppressione del patriarcato, le frontiere militarizzate e la volontà di generare odio tra popoli, è evidente che questo sistema è per sua natura antisociale; e visto che l’essere umano fa la società e la società fa l’essere umano, si può dire che questo sistema è il più grande produttore di criminalità antisociale. Il carcere, che è tutto quello sopra illustrato (gerarchia ferrea, eliminazione dei legami sociali orizzontali, disciplinamento) all’ennesima potenza, di conseguenza riproduce gli stessi risultati.
La lotta contro le carceri, oltre che una battaglia etica, deve essere soprattutto politica. È importante sostenere tutte le battaglie che hanno come fine un miglioramento, anche se minimo, delle condizioni di detenzione. Ma come, per fare un esempio, nel mondo del lavoro, mentre si combatte per i miglioramenti parziali delle condizioni lavorative, il fine che ci si deve prefiggere è l’eliminazione della schiavitù salariale e del modello di sfruttamento capitalista, così per le carceri il fine deve essere la loro abolizione, perché strumento politico del monopolio della violenza delle classi dominanti e quindi dannoso sia per chi ci finisce dentro che per la società tutta. Questo è importante sottolinearlo per tutti quei casi in cui dietro una finzione di miglioramento si nascondono delle reali intenzioni di rafforzamento dell’istituzione.
Un esempio può essere il nuovo Dl Carceri convertito in legge (L.8 agosto 2024 n.112), in cui all’articolo 4bis viene nominato un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. L’idea di costruire nuove carceri per diminuire il sovraffollamento è una falsa soluzione, perché l’esperienza ci insegna che un aumento delle carceri ha sempre voluto dire aumento della popolazione carceraria. Se poi si aggiunge l’inasprimento repressivo volto a creare nuove fattispecie di reato e ad inasprire quelle già esistenti, si capisce che così si aggiunge solo male al male.
Un ragionamento a parte va fatto anche sulle cosiddette misure alternative e di comunità, che sono aumentate molto negli ultimi anni, senza che sia peraltro diminuito il numero delle persone detenute, a dimostrazione che queste misure hanno solamente determinato l’aumento del livello di controllo penale e di repressione. Inoltre, con il fatto che la recidiva è molto più bassa tra le persone che sono riuscite ad inserirsi lavorativamente, si tende a glorificare il lavoro come elemento rieducativo. È ovvio come tutto questo, più che al vantaggio per il detenuto, punti a consolidare un business. Molte sono quelle aziende private che realizzano profitto sulla pelle delle persone più marginalizzate, fragili e ricattabili, persone che molto probabilmente avranno più paura di partecipare a picchetti, scioperi o manifestazioni, per il rischio di incappare nelle maglie della repressione, magari con la scusa della recidiva. Ma soprattutto, c’è da chiedersi cosa ha di “rieducativo” un lavoro che produce ogni anno più di mille morti, sfruttamento, ricatti, diseguaglianza salariale e di genere, precarietà, e si potrebbe continuare ancora a lungo. Forse la stessa educazione che dovrebbe dare nelle scuole l’alternanza scuola-lavoro: quella allo sfruttamento.
Nella canzone di De André “Nella mia ora di libertà” il detenuto protagonista del brano, all’inizio della canzone parla al singolare; solo alla fine inizia a parlare al plurale, cioè nel momento della rivolta collettiva. È quella rivolta la fiaccola che riesce a rompere la gerarchia e l’isolamento schiacciante che genera il carcere, ma poi, se non riesce ad oltrepassare quelle mura spesse e soffocanti che isolano le prigioni, l’ossigeno si fa più rarefatto, il fuoco pian piano si spegne e la risposta repressiva si farà più forte che mai. Nostro compito è riuscire a far uscire quella fiaccola fuori dalle mura, facendola unire alle varie esperienze e occasioni di lotta, dalle esperienze di autorganizzazione nel mondo del lavoro alle lotte antirazziste contro le frontiere e contro CPR, dalle lotte femministe e transfemministe a quelle antimilitariste, ecologiste e così via; comunque sia, facendo sentire sempre il nostro sostegno nelle piazze.
È dall’unione di queste lotte che si possono ricreare i legami sociali orizzontali capaci di spezzare quella gerarchia schiacciante, quell’isolamento che conduce alla morte molt* detenut* e soprattutto capaci di creare quella comunanza di obbiettivi, quella solidarietà in grado di ottenere una vera “rieducazione” e “reinserimento”. Rieducazione e reinserimento, non negli ingranaggi dello sfruttamento e dell’oppressione, ma in una collettività di liber* ed eguali.
Se vogliamo eliminare il delitto dalla società, non dobbiamo innalzare muri e filo spinato, ma abbatterli.
Marco Bianchi