Il cibo tra finanza e spreco alimentare
Il controllo della produzione e distribuzione del cibo è stato storicamente una delle più importanti leve del potere, contribuendo a mantenere il solco delle divisioni in classi e il dominio di alcuni Stati su altri. L’equazione era di semplice soluzione: chi possedeva la terra e i mezzi di produzione (animali e schiavi o salariati) si garantiva il potere; il problema era sostenere una sufficiente produzione, le carestie erano la minaccia per tutti, potere compreso. Oggi i termini dell’equazione sono mutati, il Pianeta, pur essendo in grado oggi di produrre più di quanto viene consumato e disponendo di cibo sufficiente per il proprio fabbisogno, ha problemi di sperequazione alimentare tra chi dispone di cibo in eccesso e di chi ha problemi ad alimentarsi. Due sono le questioni sul tappeto: il prezzo dei generi alimentari, ovvero chi e come lo si determina, e lo spreco alimentare. Per spreco alimentare si intende cibo prodotto e non consumato, o perduto lungo l’intero ciclo di produzione e distribuzione, quindi sia lo spreco di materie prime o di semilavorati che vengono scartati, che di prodotti commestibili che pur acquistati, da privati o dal circuito della ristorazione, poi non vengono consumati. Normalmente la questione viene trattata dal punto di vista etico, mentre dovrebbero essere presi in esame gli aspetti economici ed ecologici. Ad oggi è stimato che, solo in Italia, sia tra i 12 e i 18 milioni di tonnellate annui la quantità di cibo che non raggiungono le mense. Nel mondo, il cibo sprecato potrebbe sfamare milioni di persone mentre contemporaneamente c’è chi non ha accesso a una quantità di cibo sufficiente per il proprio fabbisogno. Il cibo può essere sprecato in svariati modi: dalle primissime fasi della produzione, già anche nei campi nel caso di prodotti agricoli, sino alla vendita passando da trasformazione, lavorazione e trasporto per arrivare fino al consumo domestico. Molti prodotti vengono scartati già in fase di raccolta, a causa di standard estetici rigidi; altri sono danneggiati durante il trasporto e altri ancora rimangono invenduti nei supermercati; infine, molto cibo viene sprecato presso i consumatori finali, perché acquistato in eccesso o perché mal conservato. Le cause dello spreco alimentare sono molteplici e complesse. Fra queste pesa ancora tantissimo un alto livello di ignoranza sul vero valore del cibo, sulle cattive pratiche agricole, sulla mancanza di infrastrutture per il trasporto e la conservazione, sulle stesse strategie commerciali aggressive, che incentivano l’acquisto in eccesso, e gli standard estetici che escludono dal mercato i prodotti “imperfetti”. Il punto fondamentale della questione è legato alla sperequazione tra il cibo che viene prodotto ogni anno e il cibo che effettivamente serve. Lo spreco effettivo è la sovrapproduzione rispetto alle reali necessità, quanto meno di una parte del mercato globale, quello che ha le disponibilità per acquistare i prodotti.
Le cause? Fondamentalmente tre: la sperequazione, la cattiva gestione delle risorse in generale e lo spreco. Solo negli Stati Uniti, food loss e food waste arrivano ai 50 milioni di tonnellate di prodotti l’anno. Come già osservato a livello mondiale, un terzo del cibo, con volumi che arrivano a superare ampiamente il miliardo di tonnellate, viene sprecato. Il WWF stima che questo spreco potrebbe risolvere il problema della denutrizione di 800 milioni di persone. Secondo i dati ONU ogni anno vengono sprecate oltre 1,5 miliardi di tonnellate di cibo, per un valore economico che arriva a 1200 miliardi di dollari, un terzo della produzione agroalimentare globale. Da non trascurare gli effetti ambientali tra cui la modalità di smaltimento dello scarto. La quota di cibo recuperato, riciclato e riutilizzato in altre forme è ancora molto modesta. La grande quantità di rifiuti organici che appunto approda nelle discariche contribuisce a sua volta alla produzione di gas serra, in particolare metano, aggravando ulteriormente il problema del cambiamento climatico. Una parte minore viene recuperata per il compost o l’alimentazione animale. L’altro grande aspetto è lo spreco che insiste sulla componente di distribuzione. Al di là dei prodotti invenduti, per questioni derivanti da ragioni meramente organizzative commerciali, come i prodotti che subiscono danni alle confezioni, nella varie fasi di trasporto di esposizione nei punti vendita o che sono in prossimità della loro data di scadenza, il tema centrale è l’induzione al consumo attraverso la moltiplicazione dei prodotti. La corsa all’acquisto non tiene assolutamente conto di ciò che serve, ma di quello che viene pubblicizzato, reso adeguatamente attraente, per non parlare delle porzioni effettivamente necessarie. Accanto al tema che attiene alla quantità di cibo prodotto e consumato, occorre poi considerare che la gestione del cibo sprecato ha un doppio impatto negativo sull’ambiente. Il “Carbon footprint” dei rifiuti generati dallo spreco alimentare arriva a generare qualcosa come 3,3 giga tonnellate di gas serra e rappresenta un volume enorme, pari a un terzo delle emissioni annuali derivanti dai carburanti fossili. Ad aggravare il problema ci sta il fatto che il gas metano, generato dai rifiuti alimentari, è particolarmente dannoso per l’ambiente, molto più pericoloso della stessa anidride carbonica, che è diventata una sorta di riferimento.
In tema di cibo la grande novità del presente secolo è il suo valore. Per millenni il prezzo del cibo è stata la risultanza tra domanda ed offerta. Ora non è più così, sembra tramontata una verità storica incontestabile. Da che cosa dipendono ora le periodiche impennate di prezzo dei generi agricoli, che causano poi drammatiche crisi alimentari? Per rispondere a un simile quesito, bisogna in sintesi descrivere come si formano tali prezzi. La loro determinazione avviene nelle grandi Borse merci mondiali, in particolare in quelle di Chicago, Parigi e Mumbai. Bisogna prendere in considerazione due elementi fondamentali. Il primo: si tratta, a partire dalla Borsa di Chicago, di realtà private i cui principali azionisti sono i più grandi fondi finanziari globali. Nel caso di Chicago, i pacchetti più rilevanti sono in mano a Vanguard, BlackRock, JP Morgan, State Street Corporation e Capital International Investors. Secondo elemento: soprattutto nelle Borse di Chicago e di Parigi la stragrande maggioranza degli operatori non è costituita da soggetti che producono e comprano realmente il grano o cereali, ma da grandi fondi finanziari e da quelli specializzati nel settore agricolo che, senza aver alcun contratto di compravendita dei beni materiali, scommettono sull’andamento dei prezzi. In altre parole: per ogni contratto reale nelle Borse merci, i fondi finanziari operano centinaia di migliaia di vere e proprie scommesse che sono in grado di determinare poi le quotazioni reali. Se le aspettative sono orientate all’aumento dei prezzi, scommettono al rialzo e trascinano così i prezzi a livelli insostenibili per intere popolazioni. All’origine dell’inflazione alimentare e della fame, si pongono quindi gli strumenti finanziari che sono prodotti dai fondi. In ogni caso i produttori reali dei beni agricoli sono un numero molto ristretto di soggetti e si identificano in quattro grandi società: Archer-Daniels Midland, Bunge, Cargill e Dreyfus. Le prime due in particolare sono possedute dai grandi fondi, Vanguard, BlackRock e State Street, che sono, appunto, i medesimi operatori finanziari nelle Borse merci di Parigi e Chicago. Del resto, i fondi hanno in mano anche il complesso del settore alimentare. Tra le prime dieci società per fatturato troviamo Associated British Foods (di cui Berkshire possiede il 9,2%, Vanguard l’8,5, BlackRock il 7 e State Street il 4), Kellogg’s, (che è nelle mani di Vanguard per il 9%, di BlackRock per il 9 e di State Street per il 3,8), Mondelez (di cui Vanguard detiene il 9,1%, BlackRock il 7,3 e State Street il 4,4), Pepsico (che è posseduta da Vanguard per il 9,3%, da Black Rock per il 7,8 e da State Street per il 4,2). Il processo di concentrazione ha ancora ulteriori risvolti. I terreni agricoli degli Stati Uniti sono circa 900 milioni di acri: di questi una trentina sono nelle mani di una ristretta cerchia di grandi finanzieri, che li hanno comprati non certo per interessi agricoli. Si tratta di John Malone, grande azionista dei media, di Ted Turner, di Jeff Bezos, di Bill Gates e di pochi altri. Hanno acquistato queste sterminate pianure perché il prezzo della terra, negli Stati Uniti, è cresciuto tra il 2021 e il 2022 del 34%. Si tratta di un aumento trascinato dalla lievitazione dei prezzi dei cereali, a loro volta infiammati dalla speculazione dei titoli derivati sui cereali stessi. Così i grandi finanzieri, che hanno scommesso sui derivati, possono comprare e vedono crescere il valore dei terreni che acquistano. La finanza sta monopolizzando la già monopolistica agricoltura americana, consegnando ad un club di ultramiliardari la determinazione dei prezzi mondiali. I prezzi agricoli dipendono da dinamiche interamente finanziarie. I terreni agricoli offrono rendimenti costanti anche in periodi di alta inflazione, e le aziende sperano che la domanda di colture rimanga costante, dato che le Nazioni Unite prevedono che il mondo avrà bisogno del 60% in più di cibo entro il 2050, a causa della crescita demografica. Circa il 60% dei terreni agricoli statunitensi è di proprietà e gestione degli agricoltori, mentre il resto è di proprietà di operatori non agricoltori, tra cui individui, trust e società. Le società di investimento dicono di acquistare terreni agricoli perché sono resistenti all’inflazione, offrono rendimenti stabili attraverso l’affitto dei terreni e hanno un rischio di ribasso limitato, caratteristiche che sono diventate più interessanti dopo il crollo finanziario del 2008, che ha spinto gli investitori a costruire portafogli diversificati. Nel caso del Chicago Mercantile Exchange, i pacchetti più rilevanti sono in mano a Vanguard, BlackRock, JP. Morgan, State Street Corporation e Capital International Investitors. Presenze in parte simili compaiono nella Borsa di Londra e in altre sedi minori.
Il risultato di tutto ciò è che si genera la contraddizione più assurda: quotidianamente le risorse del Pianeta vengono messe alla prova per produrre una quantità di cibo ampiamente superiore al fabbisogno di una parte dei suoi abitanti, mentre contemporaneamente non ci sono le condizioni per sfamare tutti.
Daniele Ratti