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Rifiuto del lavoro

Rifiuto del lavoro

nowork “L’estetica del lavoro è lo spettacolo della merce umana” – Demetrios Stratos

Bel pomeriggio quello di sabato 2 aprile al “Polpetta”, a Livorno. Era di scena il dibattito sul “rifiuto del lavoro”, organizzato da MaloXX, a cui ha partecipato Ottone Ovidi, autore del libro “Il rifiuto del Lavoro”, pubblicato da Bordeaux.

La relazione di Ovidi si è sviluppata su due temi: da una parte la nascita e lo sviluppo dell’ideologia lavorista, di pari passo con l’affermazione dell’ideologia capitalista; dall’altra la tematica del rifiuto del lavoro sviluppata dall’Autonomia Operaia nella seconda metà degli anni ’70, sulla base delle pratiche diffuse nella classe e delle elaborazioni dell’area operaista sviluppate negli anni precedenti.

In quegli anni (1976-1977) anche nell’area a cui facevo riferimento, quella comunista libertaria, si sviluppò un dibattito sulla tematica del rifiuto del lavoro, ma a partire dalla modifica dei rapporti di produzione che non vedevano più nella piena occupazione uno degli obiettivi della programmazione economica.

Una delle tesi elaborate vedeva proprio nel 1975 l’anno di svolta, con immediate ricadute sul movimento operaio, che passava da una situazione di attacco, quale quella della fine degli anni ’60 e della prima metà degli anni ’70, ad una ondata controrivoluzionaria, che allora nessuno di noi immaginava quanto fosse profonda e duratura. Il dilagare, rispetto agli anni precedenti e soprattutto agli anni ’60, della Cassa Integrazione e della disoccupazione giovanile erano le basi strutturali di questo riflusso, mentre l’ingresso del PCI nell’area di governo ne rappresentava il coronamento politico.

Ad esso si accompagnava un ‘intensa azione repressiva nei confronti delle avanguardie di fabbrica, con la cacciata di decine di migliaia di lavoratori rivoluzionari dalle fabbriche, grazie all’opera di spionaggio organizzata appunto dal PCI e dalla CGIL.

In questo quadro, alcuni di noi, ed io ero fra questi, vedevano nel rifiuto del lavoro una forma di accettazione dell’attacco capitalistico, una sottovalutazione della problematica della disoccupazione e della sua capacità, come si sarebbe visto negli anni successivi, del fronte di classe. In altre parole la tematica del rifiuto del lavoro era propria di una idealizzazione della sconfitta. Da questa impostazione, naturalmente, discesero valutazioni diverse del movimento del ’77 e dei primi tentativi di organizzazione sindacale al di fuori di CGIL-CISL-UIL; pratiche e valutazioni diverse che portarono alla diaspora di quell’area che si era aggregata attorno ai convegni dei lavoratori anarchici prima e alla rivista Fornte Libertario poi.

Per quanto riguarda l’affermazione dell’ideologia lavorista, Ovidi ha individuato nell’affermazione dello Stato-nazione da una parte, e nello sviluppo del movimento socialista in genere, le due fonti di questa ideologia.

Ora, se è indubbio che il movimento socialista nelle sue varie componenti, libertarie e autoritarie, rivoluzionarie e riformiste, d’azione diretta e legalitarie, si è rivolto soprattutto ai lavoratori salariati ed ha fatto del conflitto sul luogo di lavoro fra questi ultimi e i capitalisti il perno della sua forza, non si può ignorare che il bolscevismo ha svolto un ruolo decisivo nell’affermazione dell’ideologia lavorista e nella statalizzazione del movimento operaio.

Già all’indomani della rivoluzione d’ottobre, le spinte dal basso all’autogestione della produzione da parte della classe operaia, ispirata dal movimento anarchico venivano incanalate, da parte del nuovo potere bolscevico, nell’anodino obiettivo del “controllo operaio”. Con il rafforzarsi della dittatura, si accelera la pressione sulla classe operaia, per imporre la disciplina e l’ordine nella produzione; si prolunga l’orario di lavoro, compreso il sabato e la domenica. Protagonista di questa fase è soprattutto Trockij, che vuole dare la supremazia nella vita della neonata URSS, all’industria. Poi, senza soluzione di continuità, verranno i piani quinquennali e le tragiche buffonate dello stakanovismo. Sarà l’epoca di Stalin.

Fedele interprete di questi sviluppi è Antonio Gramsci che, nel suo “Americanismo e fordismo”, sostiene che l’economia programmatica, termine usato per ingannare la censura fascista che si riferiva all’URSS, si impone necessariamente, e questi aspetti della produzione ne sono il risultato. Anzi, essi sono alcuni degli anelli che segnano il passaggio dall’economia capitalista (“individualismo economico”) a quella socialista. Non solo il lavoro, e non solo lo sviluppo delle forze produttive in genere, ma l’intensificazione del dispendio di lavoro, il taylorismo, la catena di montaggio, l’aumento dello sfruttamento del lavoro in genere rappresentano il passaggio alla fase di transizione.

Nel pensiero di Gramsci si attua quindi un curioso rivolgimento per cui la subordinazione del lavoratore alla produzione, il sacrificio delle sue esigenze vitali di fronte alla macchina e ai suoi ritmi, in altre parole un aumento della sottomissione reale del lavoratore al capitale sarebbe un segnale della nuova organizzazione sociale, mentre l’aspirazione del lavoratore alla libertà e alla naturalità è frutto della sua subordinazione all’ideologia borghese: “nel campo sessuale il fattore ideologico più depravante e “regressivo” è la concezione illuministica e libertaria propria delle classi non legate strettamente al lavoro produttivo, e che da queste classi viene contagiata alle classi lavoratrici.”.

Questa concezione di Gramsci sarà fatta propria dal Partito Comunista, e all’indomani della Liberazione sarà uno degli elementi ideologici dell’asservimento del movimento operaio alle esigenze della ricostruzione capitalistica. Solo le lotte degli anni 60 del secolo scorso, soprattutto le lotte del ’68-’69 prima, il movimento delle donne poi, metteranno in crisi questa sovrastruttura ideologica.

Non si può parlare quindi di rifiuto del lavoro senza tener conto la situazione oggettiva della classe operaia, così come non si può mettere in discussione l’ideologia lavorista senza combattere l’esperienza bolscevica, da Lenin a Stalin, che trova nel “Manifesto dei comunisti” la fonte di ispirazione, là dove dice “Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura.”.

Tiziano Antonelli

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