Ricordiamo Virgilia d’Andrea a novanta anni dalla morte, avvenuta il 12 maggio 1933 a Nuova York per cancro, traducendo da libcom il necrologio apparso su “Freedom” di Nuova York nel giugno 1933.
Virgilia d’Andrea, la nostra amata compagna e poetessa, è morta il 12 maggio a New York, all’età di 43 anni, vittima di un male che ha sfidato tutte le risorse della scienza e le cure devote dei compagni.
Dopo la recente perdita di Malatesta e Galleani, il movimento anarchico, e in particolare la sua componente italiana, perde con Virgilia d’Andrea un altro dei suoi migliori lasciando un vuoto impossibile da colmare.
Nata l’11 febbraio 1890 (in realtà 1888 – ndr) da una famiglia della piccola borghesia di Sulmona, nel Sud Italia; rimasta orfana in giovane età Virgilia fu confinata ed educata in un istituto cattolico che lasciò all’età di diciotto anni per diventare maestra. Per qualche tempo insegnò ai bambini delle scuole elementari, e il suo nome è ancora ricordato e onorato dai cittadini che la conobbero come una giovane e sincera ragazza. Tuttavia, non era destinata a continuare la sua professione di semplice maestra. La lotta sociale l’ha presto conquistata e nel suo vortice si è trovata a essere poetessa, insegnante e combattente con e per le masse. Poeta del più sublime degli ideali concepiti dall’uomo, l’anarchismo; maestra delle masse che lottano per liberarsi dalla schiavitù del capitalismo, dalle superstizioni della religione, dalle forze dello Stato, e che nel frattempo anelano a costruire una società dove la bellezza, la felicità e l’abbondanza siano patrimonio di tutti.
Virgilia d’Andrea fu una combattente nel senso pieno del termine, con un coraggio indomito e un amore sconfinato per i diseredati. Con il proletariato italiano ha combattuto dove la lotta era più accesa e più dura, e con il proletariato italiano ha condiviso le speranze di una prossima liberazione quando nel 1914, nei famosi giorni della Settimana Rossa, il proletariato si era sollevato in rivolta contro la classe dominante, e di nuovo nel 1920, quando la rivoluzione sociale sembrava così sicura. Gli operai italiani avevano allora conquistato e ottenuto il controllo quasi completo delle fabbriche e delle officine, mentre i contadini stavano prendendo il controllo della terra. Entrambi i movimenti non riuscirono a maturare, a causa della codardia e del tradimento del partito socialista e dei suoi leader. In entrambe le occasioni, Virgilia d’Andrea subì le conseguenze della sconfitta attraverso l’isolamento, il carcere e infine l’esilio.
Nel 1922, dopo che il potere dello Stato era stato consegnato a Mussolini da un gruppo di satrapi suoi complici, Virgilia, in pericolo di vita e impossibilitata a svolgere qualsiasi altra attività in Italia, emigrò in Germania, dove sopportò non solo le sofferenze morali che comporta l’esilio forzato ma anche ogni sorta di privazioni fisiche.
Dalla Germania si recò a Parigi dove fondò e diresse una rivista molto bella, “Veglia”. Lì ha svolto un ruolo importante nella campagna di Sacco e Vanzetti e nell’agitazione antifascista portata avanti in Francia. Nel 1928, quando un ulteriore soggiorno a Parigi fu reso impossibile dal governo francese che agiva su istigazione di Mussolini, i compagni di qui la invitarono a rifugiarsi negli Stati Uniti.
Una volta qui, non si riposò mai finché la malattia non la condannò a un riposo forzato. Attraversò più volte il continente in tutte le direzioni in tournée, risvegliando ovunque le speranze e lo spirito dei compagni e delle masse in generale. Una varietà sorprendente di persone veniva a sentirla parlare. L’eloquenza di Virgilia, la sua vasta conoscenza della vita e delle lettere italiane, la sua profonda ed empatica comprensione dei bisogni delle masse, il suo messaggio appassionato di anarchismo – tutto ciò si combinava per commuovere il suo pubblico come pochi altri oratori sapevano fare.
Non dimenticherò mai come, nei giorni più cupi di un esilio forzato, con la reazione e l’oppressione che raggiungevano livelli tali da farci disperare di un risveglio delle forze della libertà, un piccolo gruppo di noi giovani compagni era solito visitare Virgilia nella più umile e semplice delle case. Lì ci stringevamo intorno a lei mentre ci leggeva le sue poesie sdraiata nel suo letto, o parlava delle lotte passate e di quelle future. Ci scambiavamo opinioni e speranze, parlavamo delle nostre attività. Era già malata ma il suo spirito era vivo e noi, giovani e forti, andavamo da lei con le nostre paure e i nostri problemi per trarre coraggio e ispirazione dalle sue dolci parole.
Virgilia d’Andrea usava la penna come un combattente usa la spada. Quando scriveva in versi, come possiamo vedere nella sua raccolta di poesie “Tormento”, narrava gli eventi rivoluzionari del suo tempo e cantava le sue speranze per l’imminente rivoluzione sociale, o raccontava la sua disperazione quando il suo arrivo veniva nuovamente rimandato. Oppure, scrivendo nella sua prosa italiana chiara e cadenzata, denunciava la viltà e la brutalità del fascismo, come fece in “L’Ora di Maramaldo”.
Era abbastanza artista da vedere la bellezza e il significato dei movimenti rivoluzionari delle masse, ma il suo cuore andava ai ribelli solitari che da soli e senza aiuto osavano sfidare il dispotismo con un’audace azione rivoluzionaria. E il suo lirismo tocca la vetta più alta nel suo ultimo volume, “Torce nella Notte”, nell’esaltare lo spirito di questi individui che hanno dato la vita, in un’ora di oscura reazione, per la causa della libertà.
Se il movimento rivoluzionario russo può vantare una Sophia Perovskaia, quello francese una Louise Michel e quello americano una Voltairine de Cleyre, il movimento italiano può aggiungere Virgilia d’Andrea a questa nobile schiera di donne che hanno incarnato la bellezza, l’amore e il desiderio di aiutare l’umanità anche a costo del loro benessere personale e della loro stessa vita.
I. U. V.
Da: Freedom (New York), giugno 1933
traduzione di Lona Lenti