«Non dimentico l’accoglienza ricevuta ventiquattro anni fa quando sono arrivato sulle coste calabresi. L’Italia di allora era diversa da quella di oggi». Talip è un interprete curdo fuggito dal Bakur in Europa alla fine degli anni ’90. «Io conosco questa rotta. È la stessa che ho fatto io partendo dalla Turchia in cerca di una speranza. La comunità curda è stanca e dispiaciuta di vedere che le persone debbano pagare per finire in mare» continua ancora l’interprete, che insieme a decine di attivisti e volontari, da giorni supporta i familiari delle vittime del naufragio di Steccato di Cutro. Non è nemmeno l’alba di domenica 26 febbraio quando una vecchia barca partita dal porto di Smirne, in Turchia, si schianta su una secca in sabbia e detriti a 150 metri dalla riva. La ricostruzione della nottata è al vaglio della Procura di Roma, che su questa strage ha aperto l’ennesimo fascicolo di inchiesta. Chiamate e una mail per chiedere aiuto, un numero turco poi diventato irreperibile da cui parte una telefonata: tutti elementi che rendono ancora difficile capire cosa sia realmente successo quella notte. Ora come ora è certa una segnalazione che l’agenzia Frontex invia alla Guardia di Finanza (punto di contatto italiano) e alla Guardia Costiera (per conoscenza) alle 22.26 di sabato 25 febbraio; ossia la sera precedente al naufragio. Durante la notte da Crotone parte una motovedetta della GDF e un pattugliatore da Taranto. Poi rientrano. «Il mare è proibitivo» dicono le forze dell’ordine che non trovano la barca. E’ attivato un dispositivo per rintracciare l’imbarcazione da terra, ma nessuno lancia l’attività di ricerca e soccorso in mare, la Sar. Alle 4.35, una telefonata annuncia che la barca si è ribaltata. Le ore successive vengono raccontate da una bambola che spunta in mezzo alla sabbia ad almeno due chilometri dai resti della barca. Da una tutina rosa, dai giocattoli, da scarpe, vestiti e zaini che per chilometri spuntano fra le tavole in legno da cui era composta la barca. Gli abitanti di Steccato di Cutro accorrono sulla spiaggia per prestare i primi soccorsi ma sulla costa incontrano solo la disperazione di chi cerca figli, coniugi, parenti inghiottiti dal mare. Più passa il tempo, più il mare restituisce un corpo. E spesso si tratta di un bambino. «Aspettiamo» dice Vincenzo, uno dei pescatori che per primo ha prestato soccorso ai migranti. «Da quello che dicono, all’appello mancano fra le 37 e le 50 persone. Ora vado. Comincia a piovere» dice questo signore di mezza età, che da quasi quindici giorni fa avanti e indietro sul litorale ˈperché ogni madre abbia il corpo del proprio figlioˈ. E’ stato lui, quella tragica mattina, a recuperare un bambino di tre anni. «L’ho preso in braccio. Pensavo fosse vivo, ma ho solo dovuto chiudere i suoi occhi», ha dichiarato alla stampa quella domenica. «Questa strage ci ha fatto male. Ho visto in questi giorni la solidarietà del popolo calabrese, ma noi siamo stanchi che nel 2023, in un Paese civile, accadano ancora queste stragi» dice ancora Talip. «La disperazione non può giustificare viaggi che mettono in pericolo i propri figli»1 ha dichiarato il ministro Piantedosi giunto a Cutro il giorno dopo la strage, mentre i pescatori recuperavano donne e bambini restituiti dalle onde. A parte la visita alla camera ardente aperta al Palamilone- la palestra comunale di Crotone- nessun rappresentante del governo italiano ha omaggiato le vittime del naufragio, e non ha nemmeno fatto visita ai loro familiari e ai superstiti. Davanti alla palestra ci sono cartelloni e poesie lasciate lì dalle scuole del territorio. Ci sono mazzi di fiori e centinaia di lumini che le persone del posto, abituate da sempre all’accoglienza, hanno voluto poggiare a terra in ricordo di chi è morto davanti alla costa. All’interno della palestra ci sono almeno tre lunghe fila di bare stese a terra. Su alcune c’è scritto KR- che sta come Crotone- e un numero: quello della vittima ritrovata. «Ci sono minori e bambini che nessuno reclama. Forse anche i loro genitori non ci sono più» dice Noemi, una volontaria, con gli occhi gonfi di lacrime.
Il 9 marzo, la presidente Giorgia Meloni e i suoi ministri hanno lasciato Roma per arrivare in Calabria, a Cutro. Pochi hanno inteso la sfilata del governo come un segno di vicinanza a questa terra dove i problemi reali sono l’emigrazione dei giovani, la mancanza di lavoro e infrastrutture e anni di corruzione e malaffare. «Piantedosi ha rilasciato delle dichiarazioni vergognose. Questa passerella politica serve solo a nascondere il trambusto attorno a questa strage» denuncia Vittoria Morrone, mediatrice al Palamilone scesa in piazza per contestare il governo giunto in Calabria per approvare il nuovo decreto flussi. «In quella palestra vediamo gente disperata piangere. Arriva sempre un’altra bara; spesso piccola e bianca. Queste persone scappano dalle guerre che abbiamo creato noi», continua ancora Morrone. Passano le auto blu e dalla folla parte un lancio di peluche verso chi è complice di politiche disumane. Forze dell’ordine in assetto anti- sommossa, non riescono comunque a fare arretrare attivisti e attiviste decisi a contestare il governo arrivato in Calabria per approvare il decreto flussi. «Nel Mar Mediterraneo sono morte più di 25 mila persone. Sulla spiaggia di Steccato sono morte persone accolte già dalla Turchia, finanziata dalla Turchia per le tematiche legate all’accoglienza. Sono quindici giorni che vedo il dolore e la rabbia di chi ha perso un familiare oppure è sopravvissuto» dice Talip poco dopo la partenza del corteo convocato l’11 marzo per chiedere giustizia e verità per le vittime del naufragio di Steccato di Cutro. C’è vento e il mare è di nuovo agitato, quando almeno 5 mila persone accorse da tutta Italia sulla costa ionica calabrese cominciano a camminare lungo le strade di questa località balneare. «Il problema sono le nazioni. Perché non avete pensato alle conseguenze che la guerra di Bush, agli inizi del 2000, avrebbe avuto in Europa? Nessuno vorrebbe lasciare il proprio Paese se non fosse costretto», continua ancora l’interprete. «Noi siamo qui in solidarietà alla strage di Cutro. L’altro giorno abbiamo fatto un presidio davanti al porto di Catania, dove da giorni ci sono un incrociatore e un sommergibile turchi. Abbiamo voluto denunciare le responsabilità della Nato nelle guerre in Medio Oriente» dice Enrico S. di Catania solidale con il popolo curdo. «Dobbiamo solo vergognarci. Ci riempiamo la bocca chiedendo il rispetto dei diritti sulle donne, e poi? Chi c’è in quella bara? Donne afghane, iraniane. Non si risolvono così le stragi in mare. C’è bisogno di rendere sicuri questi viaggi» afferma decisa Manuelita Scigliano di Sabir, una delle associazioni impegnate fin da subito nel supporto ai familiari delle vittime e che fa parte della rete 26 febbraio, un coordinamento di varie realtà nato in Calabria all’indomani del naufragio. «Ho perso il mio fratellino di 6 anni. Mia madre me lo aveva affidato per avere un futuro in Europa. Non l’ho potuto salvare. Vivrò per sempre con questo dolore. Non dimenticare i dispersi. Non dimenticate i morti di questa strage» chiede Laif, un giovane siriano sopravvissuto a quella terribile notte. Il corteo arriva sulla spiaggia. In mare e sulla sabbia vengono posati fiori bianchi e rose. Un ragazzo afghano intona una preghiera. Il vento si è calmato e c’è solo un silenzio più forte del rumore delle onde del mare che grida ‘Basta morti in mare’.
Alessia Manzi