Quando scriviamo queste note – sabato 31 gennaio – sui media ufficiali rimbalzano analisi e notizie che danno per certo un intervento militare di Usa, Gran Bretagna, Francia e Italia in Libia. Per la verità gli annunci di guerra in Libia si susseguono dall’autunno 2014 ma fin ora non se ne è fatto di niente. Tanto rumore per nulla, allora? Non proprio.
Tra caos controllato e interessi economici
Se si affronta la questione libica la prima cosa da dire è che quello che accade effettivamente in Libia lo sanno in pochi. Lo sanno i libici che lo sentono sulla loro pelle, visto che secondo l’ONU nel 2014 erano circa 400mila gli sfollati (ma della sorte della popolazione libica non interessa niente a nessuna delle potenze in campo). Lo sanno, probabilmente, i governi dei paesi che da anni hanno sul campo i loro agenti segreti e corpi speciali. Non mi riferisco solo alle grandi potenze occidentali – Usa, Gran Bretagna, Francia e Italia soprattutto – ed alla Russia ma anche ai paesi mediorientali direttamente coinvolti nella guerra civile: Turchia, Qatar, Emirati arabi uniti, Arabia saudita, Egitto. Tutti questi attori hanno un ruolo nel caos libico; forse non riescono a controllarlo perché in conflitto fra di loro, ma certamente lo conoscono bene. Quello che accade lo sanno bene, senza alcun dubbio, anche le multinazionali dell’energia che, nonostante il caos politico, riescono da anni a fare buoni affari con il petrolio ed il gas libici. Tanto per essere chiari: all’ENI sanno bene cosa sta accadendo in Libia, se non altro perché l’ENI, come la BP o la Total, è protagonista di questo dramma.
Quindi per concludere questa breve introduzione, noi sappiamo quello che vogliono farci sapere e poco più.
Interventismo anglo-francese e timori italiani
Le notizie apparse sui giornali in questi giorni riferiscono di un attivismo americano, inglese e francese in vista di un intervento in Libia. Non si tratterebbe di una invasione massiccia di terra ma di azioni mirate dal cielo con supporto terrestre di non meglio identificate forze locali, supportate da “istruttori” occidentali. Inutile dire che il bersaglio sarebbe l’ISIS, obiettivo perfetto per far crescere il consenso popolare sull’operazione. Fra l’altro da mesi si continua a ripetere che in Libia l’ISIS avanza incessantemente e che dunque va fermato.
I giornali riferiscono anche che l’Italia sarebbe contraria all’intervento militare dei suoi potenti alleati. La linea italiana sarebbe quella di passare attraverso un governo di unità nazionale – burattino nelle mani di ONU e occidentali, naturalmente – che legittimerebbe un intervento “umanitario”.
Questo il quadro dipinto dai media, cioè dalla propaganda.
Gli interessi dell’ENI al centro della politica libica dell’Italia
Fino a pochi mesi fa la guerra civile era descritta sui giornali come uno scontro fra un governo legittimo, quello di Tobruk, riconosciuto internazionalmente, e gli islamisti che si erano impossessati di Tripoli. Gli avversari da battere, il bersaglio dell’operazione militare di cui parlò il duo Gentiloni-Pinotti nel febbraio 2014, erano gli islamisti di Tripoli, mentre i “buoni” erano i nazionalisti di Tobruk: non dimentichiamolo. Erano i mesi in cui si parlava di invasione di immigrati provenienti dalla Libia. Erano i mesi in cui Fabrice Leggeri, responsabile di Frontex, agenzia europea anti-immigrazione, rilasciava una intervista all’ANSA in cui dichiara che: “Nel 2015 dobbiamo essere preparati ad affrontare una situazione più difficile dello scorso anno (…). A seconda delle fonti - spiega - ci viene segnalato che ci sono tra i 500mila ed un milione di migranti pronti a partire dalla Libia”. Questo era il clima di quei giorni.
Poi succede “qualcosa”, il governo italiano fa rapidamente “marcia indietro” e l’Italia si fa paladina di una conciliazione nazionale, quelli di Tripoli non sono più descritti come i cattivi e la crisi si è trascinata fino alla situazione attuale.
Ma cos’è che ha fatto cambiare idea a Renzi? Semplice: è intervenuta l’ENI che in Libia continua a fare ottimi affari.
Innanzitutto è necessario dire che nonostante la guerra NATO del 2011, che aveva di mira Gheddafi ma anche gli interessi italiani, l’ENI rimane il primo operatore internazionale nel settore petrolio e gas libico. Secondo Il Sole-24ore del 22 febbraio 2014 i pozzi ENI nel 2009 – con Gheddafi saldamente al potere, dunque – avevano una potenzialità di 522mila barili/olio/equivalenti (BOE) / giorno. Ricordiamoci questa cifra.
Prendendo in considerazione il periodo immediatamente successivo alle dichiarazioni interventiste del duo Pinotti e Gentiloni, c’è da segnalare che l’ENI fa numerosi interventi sulla questione libica:
17 febbraio 2014: nonostante i disordini e le mediatizzate avanzate dello stato islamico l’ENI precisa “nessun impatto sulla produzione” (Il Sole-24 ore del 18/2) e “ENI non impianti danneggiati e produzione vicina ai 300mila boe/giorno” (Reuters 18/2). Da segnalare che sono proprio di quei giorni le dichiarazioni interventiste di Gentiloni e Pinotti.
16 marzo 2014: “ENI torna a crescere in Libia: nuove scoperte nell’offshore di Bahr Essalam sud” (Milano Finanza 17/3).
7 aprile 2014: il Wall Street Journal dedica un lungo articolo sulla presenza dell’ENI in Libia, in cui si legge, fra l’altro, che: “le operazioni dell’ENI sono rimaste in qualche modo escluse dai combattimenti tra le forze armate legate ai due governi grazie ad accordi locali sulla sicurezza”. Secondo il giornale economico americano l’ENI avrebbe concluso accordi con la coalizione Alba della Libia – quella che governa a Tripoli – ma anche con gruppi delle milizie di Zeitan – che fanno parte del governo di Tobruk .
15 maggio 2014: la compagnia nazionale libica NOC – quella che finanzia sia il governo di Tobruk che quello di Tripoli – “da impulso ai progetti congiunti con il cane a sei zampe” (Milano finanza 15/5).
28 maggio 2014: “De Scalzi, in Libia siamo all’80% delle nostre potenzialità” (Firstonline). L’AD di ENI si dice molto soddisfatto delle ultime scoperte di gas nel mar libico…
Ce n’è abbastanza per poter dire che mentre i “Gianni e Pinotto” della politica estera italiana blateravano di interventi militari, dall’ENI arrivava un monito chiaro: “non fate cazzate!” – e Renzi si è fermato.
Basta avere sott’occhio una cartina della Libia per capire il motivo della contrarietà dell’ENI all’intervento militare contro il governo di Tripoli: i maggiori interessi l’ENI li ha proprio sul territorio formalmente controllato da Tripoli. Mellitha, Sabratha e Wafa sono tutti centri situati ad ovest di Tripoli.
Certo, in Italia ci sono anche interessi diversi da quelli dell’ENI. Per esempio quelli dell’industria militare, di cui è notoriamente portatrice il ministro Pinotti, deputato genovese e molto vicino alla Finmeccanica, che nell’ottobre 2014 ispirò la decisione del Consiglio superiore di difesa di considerare ormai “ineludibile” un intervento militare italiano in Libia. Evidentemente però a prevalere sono stati gli interessi ENI.
Si ripete lo scontro del 2011?
Per mesi ci è stato detto che la Libia non era un interesse strategico degli Stati Uniti e che Obama vedeva invece di buon occhio un intervento europeo a guida italiana: poi, improvvisamente, il quadro è cambiato.
Il 22 gennaio il capo degli Stati maggiori riuniti degli Stati Uniti, il generale Joseph Dunford, in visita a Parigi, sottolinea la necessità di “un’azione militare decisiva per fermare la diffusione dello Stato islamico in Libia.” . Dunford precisa di essere convinto che sia il presidente Barack Obama che il segretario alla Difesa, Ashton Carter, hanno già alcune idee circa “la strada da seguire” per affrontare l’espansione del gruppo militante in Libia. Nei giorni successivi anche Obama “avrebbe” considerato la Libia un obiettivo della lotta all’ISIS.
Cosa ha fatto cambiare idea agli Stati Uniti? Forse l’evolvere delle trattative per il nuovo governo di unità nazionale.
Il 16 dicembre in Marocco viene firmato un accordo sotto l’egida del nuovo rappresentante ONU, il tedesco Kobler che aveva da poco sostituito lo sputtanatissimo spagnolo Leon. In realtà si tratta di una forzatura. A firmare l’accordo non sono i due parlamenti (Tripoli e Tobruk) ma una maggioranza di parlamentari delle due assemblee assieme ad alcuni rappresentanti di comunità locali. Il risultato è che le trattative per il nuovo governo vanno per le lunghe. Il 28 dicembre il ministro della difesa di Tobruk ammette che militari americani addestrano uomini dell’esercito di Tobruk. Il 19 gennaio si concludono le laboriose trattative per un nuovo governo. L’esecutivo è composto da 32 ministri (!) ma è rimasto fuori uno dei protagonisti delle vicende degli ultimi mesi, il generale Haftar, capo dell’esercito di Tobruk, definito da sempre come un “uomo degli americani”, notoriamente acerrimo nemico degli islamisti di Tripoli ma anche delle milizie laiche di Misurata. Haftar è dichiaratamente contrario ad ogni processo di pace con gli islamisti, che definisce “terroristi”. Il 26 gennaio il parlamento di Tobruk boccia il nuovo governo e chiede che venga ridiscussa la sua compagine. In pratica chiede che venga cassata la decisione di escludere Haftar dal comando del nuovo esercito libico.
Di fronte a questo stallo, americani, inglesi e francesi potrebbero forzare la mano agli italiani imponendo un intervento in Libia in funzione anti ISIS, almeno ufficialmente. Da qui i timori italiani che si ripeta quanto accaduto nel 2011: una forzatura franco-inglese, sostenuta dagli americani tramite la NATO, per colpire il regime di Gheddafi ma soprattutto gli interessi dell’ENI.
Da sottolineare che il 22 dicembre a Roma l’AD di ENI Descalzi ha ricevuto con gran frastuono mediatico il presidente della NOC, la compagnia energetica libica. Durante l’incontro, scrive Il sole-24 ore del 23 dicembre, Descalzi ha ribadito che “Noi non stiamo riducendo la produzione di gas in Libia ma stiamo producendo sempre di più”. Come dire: a noi la situazione libica va bene anche così!
L’ISIS avanza in Libia: ma è proprio vero?
Come si è detto, la motivazione dell’intervento in Libia, questa volta, non è la difesa della popolazione ma la lotta al terrorismo islamico. Da mesi i giornali continuano a ripetere che l’ISIS “avanza” in Libia. Da parte sua la propaganda dello stato islamico non manca di sottolineare la presenza del califfato in Libia.
Secondo un rapporto ONU – che però confessa candidamente di rifarsi a notizie fornite da alcuni stati membri (!) – l’ISIS conterebbe su circa 3.500 uomini concentrati a Sirte e nelle periferie di Derna e Bengasi. Il governo di Tripoli parla invece di 1500 uomini.
Quello che i media occidentali dimenticano di dire è che l’ISIS in Libia ha subito nell’inverno 2015 una grave sconfitta: le milizie locali riuscirono a cacciarlo da Derna dove non è riuscito più a rientrare. Diversa è invece la vicenda di Sirte. Questa città, vecchia roccaforte di Gheddafi, è definita la “Dresda libica” per le distruzioni che ha dovuto subire durante la guerra civile del 2011. Sirte è stata in pratica esclusa da ogni progetto di ricostruzione del paese e dopo la morte di Gheddafi era presidiata da milizie provenienti da Misurata, milizie percepite dalla popolazione come truppe di occupazione. Nessuna milizia locale aveva raggiunto un grado di credibilità tale da potersi porre come alternativa al passato regime: le milizie del califfato hanno quindi occupato un vuoto, ma non stanno avanzando di un metro.
La loro tattica è quella di azioni suicide (come quello contro la caserma di Zliten del 7 gennaio, almeno 65 morti) o di attacchi a terminali petroliferi per danneggiare le fonti finanziarie delle autorità libiche, ben sapendo di non essere in grado di impadronirsene.
Contro la guerra, ora e sempre
È un dato di fatto che un intervento militare in Libia non ha alcun sostegno fra la popolazione libica: la lotta all’ISIS è una scusa meschina come una scusa era la protezione dei civili nel 2011. Se si volesse veramente colpire l’ISIS si dovrebbero colpire i suoi finanziatori e sostenitori: dalle petromonarchie del Golfo alla Turchia, cosa che tutti i difensori della democrazia occidentale contro la barbarie dei “tagliagole” si guardano bene dal fare. D’altra parte si dovrebbe colpire anche il paese che più di tutti ha voluto e foraggiato l’estremismo islamico di cui l’ISIS è solo l’ultima faccia, gli Stati Uniti d’America!
Quindi non facciamoci abbindolare: contro la guerra, in Libia come altrove, ora e sempre.
Antonio Ruberti