L’Italia fa la guerra insieme ai golpisti

Il 24 gennaio c’è stato un colpo di stato militare in Burkina Faso: si tratta del terzo colpo di stato militare in solo sette mesi nell’Africa occidentale. In Mali il 24 maggio 2021 una fazione dell’esercito ha deposto il governo militare instaurato solo pochi mesi prima, il 20 agosto 2020, con un altro colpo di stato; in Guinea il 5 settembre 2021 una sollevazione militare ha posto fine al potere del presidente Condé che stava avviando il suo terzo mandato consecutivo alla guida del paese.

Sono eventi molto gravi che non possono essere ignorati e devono essere, anzi, tenuti bene in conto nel considerare la situazione che ci troviamo di fronte in questo periodo di rilancio della lotta antimilitarista. Il nostro impegno infatti è almeno in larga parte concentrato sull’opposizione alle missioni italiane in quella regione. Innanzitutto alla partecipazione dell’Italia alla Task Force Takuba nel Sahel con l’invio di uomini e mezzi in un contesto di guerra vera proprio tra Mali, Burkina Faso e Niger: basti pensare che il 23 gennaio scorso la base operativa avanzata di Gao in Mali, dove si trovano anche alcuni militari italiani, è stata attaccata con colpi di mortaio ed un soldato francese è morto nel bombardamento. Inoltre, ci opponiamo alla missione bilaterale in Niger MISIN, che ha stabilito la prima base militare esclusivamente italiana nella regione e, infine, siamo contrari alla missione aeronavale nel Golfo di Guinea. Sono queste le tre principali missioni – ve ne sono altre di portata minore e ruolo diverso – con cui lo Stato italiano rilancia la propria proiezione militare all’estero, inasprendo il carattere imperialista, aggressivo e predatorio della propria politica estera.

Questi colpi di stato avvengono dunque in una regione in cui c’è una significativa presenza militare dell’Italia ed in paesi con cui lo Stato italiano sta proprio in questi anni costruendo nuovi rapporti. Basti pensare ai trattati stipulati dal 2017 con vari paesi dell’area come Niger, Ciad e Burkina Faso o all’apertura tra 2018 e 2020 di nuove ambasciate proprio in Niger, Burkina Faso e Guinea.

Sappiamo bene che lo scontro per l’influenza nella regione è di portata globale: il Sahel è uno dei luoghi dove le potenze combattono quello che chiamano il nuovo “scramble for Africa”. La Russia, la Cina, le monarchie del Golfo hanno ormai consolidato il loro intervento imperialista nell’area, con la Francia, gli stati europei e l’UE stessa, che cercano di rinnovare le forme del loro tradizionale dominio coloniale per non perdere le posizioni. Non è quindi facile capire se questa sequenza di colpi di stato sia opera di una o più potenze o se sia la risposta delle élites militari locali al contesto di guerra continua. Certamente però l’impegno militare dell’Italia nella regione non è stato messo minimamente in discussione dal governo italiano – almeno non pubblicamente – in seguito a questi gravi rivolgimenti politici; anzi il governo è intenzionato a incrementare il numero di militari assegnati alle missioni nel Sahel. Una prospettiva che non fa che gettare l’Italia nel vicolo cieco della guerra. Dopotutto ormai dal 2020 in Mali governano gli ufficiali golpisti ed è con questa dittatura militare che lo stato italiano – nel silenzio – collabora nella “lotta al terrorismo” e nella “gestione dei flussi migratori”. Premesse che potrebbero condurre ad orrori ben peggiori di quelli che si verificano in Libia. Dopo il colpo di stato in Burkina Faso, condannato solo dall’ECOWAS e dall’Unione Africana, tutto lascia pensare che la guerra dell’Italia nel Sahel continuerà, nel silenzio, al fianco di una nuova dittatura militare.

Il Movimento Patriottico per la Salvaguardia e la Restaurazione ha deciso di assumersi le proprie responsabilità” ha dichiarato in televisione il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba annunciando la deposizione di Kaboré, il presidente del Burkina Faso in carica dal 2015. La costituzione è stata sospesa, il governo e il parlamento sono stati sciolti e le frontiere sono state chiuse. La nuova giunta militare – affermano gli ufficiali – sarà solo un governo transitorio per garantire “sicurezza”, “unità nazionale” e una efficace “lotta al terrorismo jihadista”.

Le stesse parole si trovano nelle dichiarazioni pubbliche dei golpisti in Mali e in Guinea ma la corrispondenza non è solo dovuta al fatto che le formule con cui si presenta il potere eccezionale siano più o meno ovunque le stesse. È chiaro che c’è un legame tra questi colpi di stato, che sono parte dei processi in corso nel più ampio contesto della regione.

Il colpo di stato a Ouagadougou ha suscitato una certa attenzione a livello internazionale imponendo a media, osservatori e analisti di dare una lettura a questa sequenza di sollevazioni militari. Molti hanno sottolineato come nei tre paesi le giunte militari siano guidate da giovani ufficiali. Altri evidenziano il carattere “populista” di questi governi, con particolare riferimento a come in Guinea ed in Burkina Faso gli ufficiali affermino di avere il mandato del popolo per deporre politici corrotti e generali irresoluti. Alcuni pongono attenzione a come queste iniziative dei militari abbiano saputo approfittare del malcontento sociale causato dalla crescente disoccupazione e povertà, dall’insofferenza nei confronti dei vertici politici e militari, dovuto non solo alla corruzione ma anche al protrarsi della guerra. Altri guardano alla partita che stanno giocando le potenze per il controllo delle risorse, dalla bauxite al litio, dalle terre rare all’uranio.

Tutte queste letture possono aiutare a comprendere quello che sta succedendo ma nessuna pone al centro la questione delle missioni militari, della presenza di eserciti e mercenari da tutto il mondo in quei paesi. È chiaro che l’inserirsi di potenze estere nella guerra tra i governi centrali di questi Stati e le truppe principalmente islamiste ma non solo che ne minacciano il potere, non ha fatto che estendere e rendere più violento questo conflitto anziché risolverlo.

La guerra diviene un elemento strutturale, le necessità militari sono in costante aumento e le relazioni con l’estero, la cooperazione e gli aiuti internazionali si muovono in misura sempre maggiore sui canali della difesa e della sicurezza: in questo modo gli eserciti vedono crescere il proprio potere ed assumono un ruolo sempre maggiore nella società mentre i governi civili vedono restringere la propria legittimità fino ad essere deposti. La strategia della Francia, condotta principalmente attraverso l’operazione Barkhane, è fallita ed era destinata a fallire perché l’inasprimento del conflitto che essa ha determinato ha armato nuove forze, ha dato opportunità a nuove potenze di scendere in campo, ha dato all’esercito un potere immenso. Adesso non potrà che inasprirsi ulteriormente la situazione in questi paesi dal momento che sono gli eserciti al potere a trattare direttamente gli accordi militari, le forniture di armamenti, le forme di cooperazione nel settore della difesa.

Con falsa ingenuità alcuni esponenti del think tank italiano si chiedono come mai l’Italia e soprattutto l’UE non intervengano per condannare queste forme di “accesso illegittimo al potere”, preferiscano la tutela dell’ormai assoluto “interesse nazionale” a creare le prospettive di “buon governo” che sarebbero alla base della politica in Africa dell’UE. Proprio nel Sahel però si sta mettendo in atto il primo vero intervento di “difesa comune” dell’Europa: in quei paesi si trova spiegato di fatto l’esercito europeo che sulla carta deve ancora vedere davvero la luce. L’Unione Europea che è accorsa in aiuto della Francia, ormai impantanata in questa guerra, ha quindi una responsabilità centrale in questo conflitto e quindi anche nei rivolgimenti autoritari in atto.

Probabilmente la soluzione delle giunte militari è l’unica possibilità per chi vuole continuare la guerra nel Sahel. La situazione sociale disastrosa, l’ostilità verso gli eserciti stranieri e soprattutto verso le truppe francesi, l’avversione nei confronti dei governi e dei presidenti ormai compromessi dalla collaborazione con la Francia e dalla corruzione potevano rischiare di rallentare il conflitto e i grandi affari da cui tutte le potenze, indipendentemente dagli schieramenti che sostengono, alla fine traggono profitto. La guerra è garantita. Non si fermerà da sola, sta a noi fermarla iniziando a pretendere il ritiro delle missioni militari italiane in Africa e nel Sahel.

Dario Antonelli

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