Come ogni proposta che sembri mettere in discussione la ricetta “Dio, patria e famiglia”, il ddl Zan è stato oggetto di un iter lunghissimo, principalmente a causa dell’ostruzionismo delle destre e delle pressioni esercitate dal mondo ecclesiastico: viene presentato il 2 maggio 2018, approvato alla Camera dei deputati il 4 novembre 2020 e bocciato al Senato il 27 ottobre 2021. Quando una certa fetta della politica ci racconta che esistono delle priorità rispetto alle rivendicazioni affettive e sessuali, ricordiamoci di queste tempistiche. Se le priorità del “popolo italiano” sono altre, allora chiediamoci perché i nostri cari delegati spendono anima e corpo per affossare ogni disegno di legge che offre il minimo sindacale alle persone LGBTQIA, investendo tempo ed energie che potrebbero usare per occuparsi di quelli che, a loro dire, sono i problemi di serie A.
Il percorso di cui è stato vittima il ddl Zan, difatti, ricorda ciò che accadde anni fa con il ddl Cirinnà. Il testo originario del disegno di legge, presentato il 19 dicembre 2013, prevedeva la regolamentazione delle unioni civili per coppie non eterosessuali e la possibilità di adottare il figlio del partner. Dopo 3 anni di osteggiamenti, l’11 maggio 2016, il disegno di legge venne approvato ma del testo originario rimase ben poco: venne dato il sì all’unione civile fra persone omosessuali ma furono eliminate la stepchild adoption e numerosi riferimenti al matrimonio, come l’obbligo di fedeltà. È doveroso sottolineare che, rimuovendo l’obbligo di fedeltà, i catto-fascisti non hanno certo voluto fare un favore alle coppie non eterosessuali. Si trattò di una mossa subdola con la quale i nostri preti ararono il terreno in vista di un futuro ancora indefinito: se mai un giorno dovesse comparire un disegno di legge che offre alle coppie non etero-normate italiane la possibilità di costruire una famiglia diversa da quella tradizionale, la destra cristiana potrà usare l’assenza dell’obbligo di fedeltà come cavillo utile a sostenere che la coppia non eterosessuale non è retta dai vincoli necessari per costituire una “vera famiglia” come quella fondata sull’amore eterosessuale.
Tornando ai fatti più recenti, in questi ultimi due anni abbiamo visto l’associazionismo LGBTQIA ‒ tendenzialmente quello liberale e marxista eterodosso ma non solo ‒ mobilitarsi con una certa tenacia in difesa dello Zan, o meglio, per moltopiùdiZan (questo era lo slogan ricorrente). D’altra parte, abbiamo visto anche la crescita di quella fetta di movimento che, per distinguersi dall’associazionismo gay mainstream, si definisce provocatoriamente LGBTQIACAB. Vi sono state piazze in cui, da Milano a Torino a Firenze, attivisti e attiviste queer si sono mobilitate contro l’etero-cis-patriarcato, senza però menzionare la legge firmata PD. Senza pretendere di rappresentare queste realtà politiche e le loro istanze, vorrei provare a intuire alcune delle criticità che hanno portato i gruppi queer più radicali a non inserirsi nell’onda del moltopiùdiZan.
Il ddl Zan esprimeva “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità.” Per perseguire questi fini, lo Zan avrebbe innanzitutto esteso l’applicazione della legge Mancino, che punisce con la carcerazione i crimini d’odio fondati sul razzismo etnico, nazionale o religioso. Il Partito Democratico avrebbe quindi voluto integrare la legge del 1993 estendendo la reclusione a coloro che discriminano sulla base del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e della disabilità.
Ora, io trovo che pensare di rispondere alla violenza omolesbobitransfobica affidandosi alla repressione punitiva di matrice statale presenti principalmente due criticità. Premetto che non condivido affatto l’idea di chi ha visto questo disegno di legge come un tentativo di reprimere la libertà di parola in nome del politicamente corretto. Libertà è una parola importante che non si può ridurre alla possibilità di urlare “ricchione”, “negro”, eccetera alle persone. Persino alcuni pseudo-compagni libertari eterosessuali (uso il maschile plurale non a caso) si sono sentiti minacciati dallo Zan, credendo che da un giorno all’altro lo Stato avrebbe potuto internare le persone per educarle al “nuovo pensiero egemonico della sinistra LGBT”.
Per rispondere agli allarmi deliranti di questi compagni vorrei ricordare che viviamo in una società dove l’unica famiglia possibile è quella eterosessuale, dove la tv di Stato censura le scene omoerotiche nei film trasmessi in prima serata, dove due persone omosessuali non sono ancora libere di camminare mano nella mano per strada senza subire aggressioni. Dunque, di quale “nuovo pensiero egemonico” stiamo parlando? L’unico pensiero egemonico è quello eterosessuale che regge lo Stato-Nazione. Se siamo anarchici militanti e vogliamo decostruire una proposta di legge fasulla, facciamolo, ma usando le giuste argomentazioni, non discorsi degni del Congresso delle famiglie di Verona.
Se la sinistra parlamentare vuole combattere la violenza etero-cis-patriarcale con la giustizia penale, bisogna innanzitutto ricordare che la prigione è una istituzione totale che riproduce e amplifica lo stesso machismo che, nella vita di tutti i giorni, opprime le persone non eterosessuali e non cisgender. Il carcere è uno spazio chiuso all’interno del quale vige una forte disparità di potere tra la popolazione carceraria e le guardie che la sorvegliano e disciplinano. In quello spazio chiuso e alienante, i detenuti imparano presto ad assimilare le logiche autoritarie che regolano la relazione verticale fra guardie e reclusi e a riprodurle orizzontalmente sui propri compagni. Lo sviluppo di una cultura penitenziaria basata sulla forza e sulla genuflessione verso chi ha più potere danneggia in particolar modo le persone LGBTQIA detenute, le quali sono spesso le prime vittime di questa violenza machista.
Nelle carceri maschili, il macho tende a sessualizzare, nonché ad oggettificare, i compagni di prigione che ritiene più femminili e, quindi, a suo parere più deboli. Questi schemi mentali sessisti e omofobici si ripercuotono sia sui detenuti omosessuali sia sui detenuti eterosessuali non conformi agli standard del maschio etero-cis normato, i quali diventano facili vittime di violenza sessuale da parte del singolo o del branco.
Per sottrarre i detenuti LGBTQIA alle aggressioni ricorrenti, alcune carceri ospitano delle sezioni destinate nello specifico a detenuti descritti come più vulnerabili. Tralasciando il fatto che non credo possano esistere spazi sicuri e civili all’interno di una istituzione totale, è doveroso ricordare che in tali sezioni speciali le condizioni di vita sono ancora più deprimenti. Difatti, essendo destinate ad un numero meno significativo di persone, queste aree ospitano meno servizi e minori opportunità creative e ricreative utili alla persona reclusa per non sfociare nella depressione, nella dissociazione e in altre forme di sofferenza psichica patologica.
Di là delle sezioni protette, se il carcere è, sulla base di quanto abbiamo visto, una istituzione machista, sessista ed etero-cis-patriarcale, trovo davvero irrazionale pensare che un detenuto colpevole di omolesbobitransfobia possa uscire dalla prigione come una persona aperta al prossimo e a riconoscere dignità a chi non è etero-cis normato.
Un altro aspetto critico della protezione statale riguarda la vulnerabilizzazione delle minoranze oppresse. In quanto persone anormali – nel senso di non conformi alla Norma ‒ dobbiamo riconoscere la nostra indubbia vulnerabilità, cioè la nostra maggiore esposizione alla violenza, sia istituzionale sia orizzontale. Questo bisogna ammetterlo. Tuttavia, tralasciando l’assurdità del chiedere protezione alle stesse autorità e istituzioni che per secoli ci hanno invisibilizzato, torturato e ucciso, temo che farci cullare dalle braccia di padre Stato possa esporci ad una rischiosa vulnerabilizzazione. (intesa come vulnerabilità indotta).
Come ricorda Judith Butler in L’Alleanza dei Corpi, imperniare le rivendicazioni sul concetto di vulnerabilità può essere pericoloso dal punto di vista politico, in quanto apre ad una possibile politica paternalistica volta a naturalizzare le relazioni di disuguaglianza. Voglio dire che la vulnerabilità è un concetto strategico che può essere usato per attaccare una comunità (come fa il macho nelle carceri) oppure per proteggerla (come pensava di fare lo Zan).
Mi piacerebbe pensare ad una comunità LGBTQIA che riconosce la propria vulnerabilità (sistemica e, quindi, non naturale) per aprirsi a relazioni politiche interpersonali che si traducano in reti di tutela reciproca e di solidarietà mutualistica dal basso, senza chiedere protezione allo Stato. Sicuramente possiamo imparare molto dalle compagne anarchiche e femministe rivoluzionarie che, nei contesti più difficili dell’America latina, stanno tentando di costruire qualcosa di simile a ciò che io immagino.
Mobilitarsi in massa per supplicare la protezione dello Stato significa offrire pane per i denti di chi continua a descriverci come soggettività fragili e indifese per essenza. Il Senato stesso, in occasione del dibattito istituzionale sul ddl Zan, è stato il luogo in cui si è potuto dire di tutto sull’esistenza delle persone LGBTQIA: si va da chi ha associato l’omosessualità alla pedofilia, a chi ha sostenuto che se la transizione di genere fosse normale, allora Dio ci avrebbe permesso di cambiare sesso naturalmente, cioè senza fare ricorso alle tecnologie medico-chirurgiche (affermazioni talmente deliranti per le quali non vale la pena rispondere).
Uno dei motivi per cui il ddl Zan è stato ostaggio delle destre fasciste e clericali fu la proposta di istituire una Giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia. Questa iniziativa, espressa dall’articolo 7 del disegno, avrebbe svolto una funzione formativa, in quanto, durante la giornata scolastica del 17 maggio, si sarebbero potute promuovere delle attività pedagogiche volte a educare le giovani generazioni all’inclusività e al rispetto dell’altro (propositi certamente più razionali dell’internamento dei violenti in istituzioni autoritarie e machiste).
Effettivamente, sono ormai parecchi i Paesi in cui i programmi scolastici prevedono momenti dedicati al contrasto dei pregiudizi, delle discriminazioni e delle violenze motivate dall’identità di genere o dall’orientamento sessuale. Tuttavia, la proposta di una pedagogia più inclusiva ha sollevato in primo luogo lo sdegno e la collera del Vaticano, il quale si è mobilitato subito per ricordare allo Stato italiano i suoi doveri. Pur di fermare la legge, la Chiesa è arrivata a sostenere che lo Zan avrebbe minacciato la libertà di pensiero dei cattolici e, quindi, violato il Concordato. La destra parlamentare non se lo è fatta ripetere due volte e ha sfruttato il piagnisteo ecclesiastico per gettare ulteriore fango sull’iniziativa legislativa e sulla comunità tutta.
È doveroso ricordare che quando si parla di omolesbobitransfobia non bisogna pensare necessariamente ad una semplice violenza fisica o verbale. L’omolesbobitransfobico di oggi è quello che ci invita a fare “le nostre cose” a casa nostra, purché la nostra libertà affettiva e sessuale non si mostri agli occhi del pubblico, e in particolar modo dei più giovani. Quando il macho aggredisce una coppia omosessuale che si espone in pubblico, non sta colpendo due singole persone ma sta attaccando una intera comunità che deve rimanere invisibile affinché non vengano minate le basi culturali etero-cis-patriarcali dello Stato. Di conseguenza, lottare per una istruzione inclusiva e aperta alla messa in discussione della Norma affettiva e sessuale non significa soltanto rendere più vivibile l’esistenza di una minoranza della popolazione, ma attentare alle basi di un intero sistema fatto di oppressx e di oppressori.
Spero che quanto sottolineato risulti sufficiente a chi legge e comprende che la lotta queer e transfemminista non è né un capriccio di pochx, né una battaglia isolata dalle altre. La distruzione dell’etero-cis-patriarcato implica la messa in atto di una resistenza pluridirezionale, capace di rinnovare lotte che hanno visto in prima linea i movimenti sociali extraparlamentari (anticlericalismo, abolizionismo carcerario, istruzione…).
In una situazione storica nella quale lo Stato, i partiti e i partitini, genuflessi alla Chiesa e al Capitale, non sono in grado di riconoscere alla comunità LGBTQIA i diritti più basilari, il movimento anarchico – in primo luogo la sua componente organizzata – potrebbe arrivare là dove non arriva l’autorità. Le persone oppresse e l’anarchismo organizzato, insieme, possono costruire reti di alleanze e spazi che siano sicuri per chi li attraversa e pericolosi per chi si sente libero di toccare i corpi delle donne e delle persone LGBTQIA. L’occasione giusta per agire la abbiamo qui e ora.
Cristian Ruggieri