La violenza estrema è la punta dell’iceberg. Le coltellate, il fuoco, la stretta feroce che serra la gola, i pugni, i colpi di pistola troncano la vita, annientano il nemico. Annientare è far diventare nulla chi prima era qualcun*. C’è chi lo fa con freddezza, chi con rabbia, chi persino con paura, ma il fine resta lo stesso: imporre se stessi sino alle estreme conseguenze.
Questo è il senso di ogni omicidio.
In guerra si dice che il nemico è stato annientato, ridotto a nulla. Quando sotto i colpi cade una donna, il senso muta. L’uccisione delle donne viene narrata sotto una lente deformata, per nascondere la natura patriarcale della maggioranza dei delitti consumati da uomini contro le donne. Specie se questi uomini sono padri, fratelli, mariti, fidanzati, ex partner la narrazione prevalente cerca attenuanti, colpevolizza le vittime, indicate come responsabili nello scatenarsi della violenza.
La riflessione femminista ha coniato il termine femminicidio per descrivere l’uccisione di una donna in quanto donna. L’uccisione di una donna in quanto donna ha un significato intrinsecamente politico. Per paradosso, il femminicidio è un atto politico, proprio perché ne viene nascosta, dissimulata, negata la politicità.
Questo neologismo ormai divenuto di uso comune dovrebbe rendere immediato il senso di un crimine che colpisce le donne, per disciplinarle, piegarle, spaventarle, per tenerle sotto controllo, per (ri)affermare, attraverso la violenza, l’ordine patriarcale.
In pace come in guerra sui corpi delle donne si giocano continue battaglie di civiltà. Sia che le si voglia “tutelare”, sia che le si voglia “asservire” la logica di fondo è la stessa. Resta al “tuo” posto. Torna al “tuo” posto. Penso io a te, penso io a proteggerti, a punirti, a disciplinarti.
La palude è un mondo sospeso, in bilico tra acqua, cielo, terra. Solo le fronde agitate dallo stormire degli uccelli e qualche quieto sciabordare d’acqua spezzano il silenzio, senza tuttavia muovere il tempo. La palude è stata una delle cifre del femminile. Quello borghese, europeo, decoroso. Le donne delle classi povere erano incastrate nel tempo immobile, ma decisamente meno romantico, delle servitù familiari e non, tipiche della sfera domestica.
I femminismi hanno attraversato, scuotendoli alle radici, i tempi fermi, ripetuti, ossessivi del femminile. Una vera rivoluzione, tanto potente che si è provato a mitigarne la portata, imprigionandola nella sfera del costume, delle relazioni interpersonali, della famiglia. Il femminile ha frantumato lo specchio in cui si rifletteva un ruolo sociale considerato immutabile, perché determinato da una sorta di destino biologico investito da sacralità, senza dimensione culturale. Chi lo rifiutasse era (è) contro natura, contro Dio, contro le regole di un gioco fissato per sempre.
Il femminile è quanto di più simile alla natura sia stato prodotto dalla cultura. La differenza segnata dalla biologia viene assunta come dato immutabile, programmato per sempre. Il percorso della libertà femminile spezza le catene simboliche e materiali dell’ordine patriarcale. La libertà sessuale, riproduttiva, di rimodellamento del proprio stesso corpo rimescola le carte e spezza la gerarchia tra i sessi. Le donne libere generano se stesse, si rimettono al mondo, costruiscono un mondo nuovo.
A ogni latitudine del pianeta è strage quotidiana di donne, uccise perché donne. Le migliaia di messicane povere, torturate a morte e abbandonate nel deserto, come cose inutili, con la complicità della polizia e della magistratura, sono solo la punta di un iceberg in buona parte sommerso. Sommerso anche alle nostre latitudini, perché la stessa parola “femminicidio” è stata masticata al punto da indebolirne la potenza.
Femminicidio diviene il delitto domestico, privato, familiare. I numeri della violenza patriarcale contro le donne disegnano invece un vero bollettino di guerra. È guerra contro la libertà femminile, è guerra contro le donne libere. Una guerra che i media nascondono e minimizzano, contribuendo a moltiplicarla, offrendo attenuanti a chi uccide, picchia e stupra.
Queste donne sono ammazzate due volte. Uccise dall’uomo che ha tolto loro la vita, uccise da chi nega loro la dignità, raccontando la violenza con la lente dell’amore, dell’eccesso, della passione e della follia. L’amore romantico, la passione coprono e mutano di segno alla violenza. Le donne sono uccise, ferite, stuprate per eccesso d’amore, per frenesia passionale. Un alibi preconfezionato, che ritroviamo negli articoli sui giornali, nelle interviste a parenti e vicini, nelle arringhe di avvocati e pubblici ministeri.
I media sono responsabili del perpetuarsi di un immaginario che giustifica e alimenta la violenza contro le donne e tutt* coloro che non si adeguano alla norma eterosessuale. I media colpevolizzano chi subisce violenza, scandagliandone le vite, i comportamenti, le scelte di libertà, per giustificare la violenza maschile, per annullare la libertà delle donne, colpevoli di non essere prudenti, di non accettare come “normale” il rischio della violenza che le colpisce in quanto donne.
Lo stereotipo di “quelle che se la cercano”, che si tratti di sex worker o di donne che non vestono abiti simili a gabbie di stoffa, è una costante del racconto dei media. Per non dire delle donne “esasperanti”, tanto esasperanti che si capisce che qualcuno le uccida.
La violenza di genere è confinata nelle pagine della cronaca nera, per negarne la valenza politica, trasformando pestaggi, stupri, omicidi, molestie in episodi di delinquenza comune. I media, di fronte al dispiegarsi violento della reazione patriarcale tentano di privatizzare, familizzare, domesticare lo scontro. Le donne sono vittime indifese, gli uomini sono violenti perché folli. La follia sottrae alla responsabilità, nasconde l’intenzione disciplinante e punitiva, diventa l’eccezione che spezza la normalità, una normalità fatta di famiglie sul modello delle pubblicità dei biscotti e della pasta.
Eppure. La casa, il “privato”, è il luogo dove si consumano la maggior parte delle violenze e delle uccisioni. Le donne libere vengono picchiate, stuprate e ammazzate per affermare il potere maschile, per riprendere con la forza il controllo sui loro corpi e sulle loro menti. Gli assassini e gli stupratori sono uomini a loro vicini, vicinissimi. Quelle che non si piegano vengono annientate, ridotte a nulla.
Accettare la natura politica del femmicidio come tassello della guerra patriarcale alle donne, metterebbe in discussione un ordine sociale, in cui la famiglia come nucleo etico è il fondamento. Se la violenza domestica è raccontata sotto il segno della malattia, la violenza operata da sconosciuti si inscrive nella metafora della giungla, del branco, della bestialità. Specie se i violenti sono estranei, immigrati, lontani, “diversi”, il perno della narrazione mediatica muta e il nemico delle donne è posto costitutivamente fuori dal consesso sociale. Qui la violenza maschile esce dallo stereotipo del folle, per assumere quello della bestia. La società è sana: chi uccide le donne o è un pazzo o è un animale feroce. Non umano, fuori dall’umano. L’ordine è salvo. Il lutto è privato.
La violenza sulle donne diventa strumento per rinforzare il razzismo verso i migranti: lo straniero è descritto con caratteri ferini, per poter invocare la chiusura delle frontiere ed espulsioni di massa.
La violenza patriarcale attraversa i generi, le frontiere, le culture. La libertà che le donne si sono conquistate ha incrinato e, a volte, spezzato le relazioni gerarchiche tra i sessi. Il moltiplicarsi su scala mondiale dei femminicidi dimostra che la strada della libertà e dell’autonomia femminile è ancora molto lunga e in salita.
La narrazione della violenza proposta da tanti media rende questa salita più ripida. A ciascun* di noi il compito di scrivere una storia diversa, che non è storia di vittime ma storia di una lotta per la libertà che fa paura perché abbatte uno degli assi portanti del dominio e della gerarchia.
Maria Matteo