Le truppe del Belpaese fanno la guerra in Niger, Libia, Golfo di Guinea, stretto di Ormuz, Iraq, nel Mediterraneo ed in tanti altri luoghi del pianeta.Nel silenzio e nell’indifferenza dei più il parlamento ha approvato il rifinanziamento delle varie avventure neo-coloniali delle forze armate italiane. Il focus è sull’Africa, dove sono concentrate 17 delle 40 missioni tricolori, due in più dello scorso anno.Le missioni all’estero costano un miliardo e 200 milioni di euro, 9.449 i militari impiegati: un secco aumento rispetto alle cifre già da record dello scorso anno.
Si delineano in modo sempre più netto i contorni di una nuova geopolitica italiana. La competizione internazionale è racchiusa in un triangolo con il vertice nel Mediterraneo e la base tra il Sahel ed il Golfo Persico. Il concetto di “Mediterraneo allargato” prende concretamente forma.
Il ministro della guerra Guerini e altri “addetti ai lavori” stanno mandando in soffitta la retorica delle missioni umanitarie e parlano esplicitamente di “difesa degli interessi italiani”. L’imperialismo italiano smette di nascondersi e rivendica il proprio ruolo di competitor in un mondo multipolare ad alleanze variabili.
La decisione di costruire una base militare italiana in Niger è indice della volontà di rendere stabile la presenza tricolore nell’area, facendone un avamposto per gli interessi dell’ENI in Africa.
Le missioni all’estero assumono il ruolo di guerre neocoloniali per il controllo delle risorse. Le bandiere tricolori sventolano accanto a quelle gialle con il cane a sei zampe dell’ENI. Una lunga scia di sangue, petrolio e gas.
La diplomazia in armi del governo per difendere gli enormi profitti dell’ENI va dalla Libia al Sahel al Golfo di Guinea.
Queste aree hanno un’importanza strategica per gli interessi dell’ENI. La missione navale nel Golfo di Guinea si estende alle acque internazionali tra Nigeria, Ghana e Costa d’Avorio. In quest’area si trovano due dei maggiori produttori africani di petrolio, ossia Nigeria e Angola, paesi nei quali ENI è presente, come in Ghana e Costa d’Avorio. L’obiettivo è la protezione delle piattaforme offshore e degli impianti di estrazione.
L’ENI rappresenta oggi la punta di diamante del colonialismo italiano in Africa.
Sotto all’ampio cappello della “sicurezza” e della “lotta al terrorismo” si articola una narrazione che mescola interessi economici con la retorica della missione di protezione delle popolazioni locali. Popolazioni che sono quotidianamente sfruttate, depredate ed oppresse da governi complici delle multinazionali europee, asiatiche e statunitensi.
Le migrazioni verso i paesi ricchi sono frutto della ferocia predatoria delle politiche neocoloniali.
Tra gli obiettivi delle missioni militari italiane c’è il rinforzamento del fronte di guerra contro la gente in viaggio, per ricacciare i migranti nelle galere libiche, dove torture, stupri e omicidi sono un normale orrore.
Questo fronte si estende sin nel nostro paese, dove i militari sono stati promossi al ruolo di agenti di polizia giudiziaria e sono nei CPR, dove vengono rinchiusi i corpi in eccedenza da espellere, nei cantieri militarizzati e per le strade delle nostre periferie, dove la guerra ai poveri si attua con l’occupazione e il controllo etnicamente mirato del territorio.
Per salvarsi la faccia, contestualmente al rifinanziamento delle missioni militari, era stato proposto un ordine del giorno che prevedeva la revisione in chiave “umanitaria” degli accordi sottoscritti nel 2017 con la Libia.
É finita nel nulla. La mozione per lo stop alla guardia costiera libica è stata respinta a stragrande maggioranza dalla Camera dei deputati.
Alla fine, per non scontentare nessuno, il testo approvato prevede che nel 2022 vengano verificate “le condizioni per superare” la cooperazione con la Guardia costiera libica, trasferendola alla missione Ue Irini. Un nulla sul quale la destra e la sinistra di governo (e di opposizione) gridano vittoria.
D’altra parte nella sua recente visita in Italia il presidente libico ha ricevuto garanzie di ampio sostegno da parte del governo italiano. Draghi da mesi sta facendo pressione sull’UE perché, oltre alla Turchia, paghi anche la Libia per bloccare i migranti nelle prigioni-lager della Tripolitania.
Nel nostro paese ci sono porti e aeroporti militari, poligoni di tiro, aree di esercitazione, spazi dove vengono testati ordigni, cacciabombardieri, droni, navi e sottomarini. Luoghi di morte anche per chi ci abita vicino, perché carburanti, proiettili all’uranio impoverito, dispositivi per la guerra chimica inquinano in modo irreversibile terra e mare.
Le prove generali dei conflitti di questi anni vengono fatte nelle basi militari sparse per l’Italia.
Le armi italiane, in prima fila il colosso pubblico Leonardo, sono presenti su tutti i teatri di guerra. Le guerre che paiono lontane sono invece vicinissime: le armi che uccidono civili in ogni dove, sono prodotte non lontano dai giardini dove giocano i nostri bambini.
Dal 30 novembre al 2 dicembre si terrà a Torino “Aerospace & defence meeting”, mostra mercato internazionale dell’industria aerospaziale di guerra.
La convention, giunta alla sua ottava edizione, sarà ospitata all’Oval Lingotto, centro congressi facente parte delle strutture nate sulle ceneri del complesso industriale dell’ex Fiat.
La mostra-mercato è riservata agli addetti ai lavori: fabbriche del settore, governi e organizzazioni internazionali, esponenti delle forze armate degli Stati e compagnie di contractor. Alla scorsa edizione parteciparono 600 aziende, 1300 tra acquirenti e venditori ed i rappresentanti di 30 governi. Il vero fulcro della convention sono gli incontri bilaterali per stringere accordi di cooperazione e vendita: nel 2019 ce ne furono oltre 7.500.
Tra gli sponsor ospiti del meeting spiccano la Regione Piemonte e la Camera di Commercio subalpina.
Settima nel mondo e quarta in Europa, con un giro d’affari di oltre 16.4 miliardi di euro ed 47.274 addetti con alti livelli di specializzazione, l’industria areospaziale rappresenta uno dei maggiori settori manifatturieri in Italia nell’ambito dei sistemi integrati ad alta tecnologia.
L’industria aerospaziale di guerra è un’eccellenza piemontese, con un giro d’affari annuale di 3,9 miliardi di euro e 14.800 addetti.
La gran parte delle aziende italiane dell’aerospazio si trova in Piemonte. La regione offre l’intera gamma delle competenze e delle qualifiche, nonché un sistema produttivo in cui si connettono i settori produttivi con quelli dei servizi, in un’intensa cooperazione con le università e altri settori della formazione.
In Piemonte, ci sono ben cinque attori internazionali di primo piano: Leonardo, Avio Aero, Collins Aerospace, Thales Alenia Space, ALTEC.
Intorno alle industrie maggiori c’è un ampio indotto di piccole e medie imprese, che a loro volta partecipano alla biennale dell’aerospazio che si svolge a Torino cui prendono parte la gran parte delle imprese mondiali di primo piano.
Nelle foto dei meeting passati si vedono alveari di uffici, dove persone eleganti vendono e comprano i giocattoli, che distruggono intere città, massacrano civili, avvelenano terre e fiumi. Giocattoli di guerra. Guerre combattute con armi costruite a due passi dalle nostre case.
L’industria bellica è un business che non va mai in crisi. L’Italia fa affari con chiunque.
A Torino sorgerà la città dell’aerospazio, un nuovo polo tecnologico dedicato all’industria di guerra.
Il ministero dello sviluppo economico, il MISE, considera il Piemonte un’area di crisi industriale complessa ed ha deciso di investire i fondi del PRRI – Progetti di Riconversione e Riqualificazione Industriale per continuare a finanziare l’esangue settore dell’automotive e la fiorente industria aerospaziale di guerra, destinandovi 140 milioni di euro. Il progetto coinvolge Regione Piemonte, Comune, Politecnico, Università, Camera di Commercio e Unione Industriale di Torino, Api, Cim 4.0, il Distretto aerospaziale piemontese e Tne.
Inutile dire che chi vive in Piemonte probabilmente ha altre necessità, come casa, reddito, salute, istruzione.
Provate ad immaginare quanto migliori sarebbero le nostre vite se i miliardi impiegati per ricacciare uomini, donne e bambini nei lager libici, per garantire gli interessi dell’ENI in Africa, per investire in armamenti e per i militari nelle strade, fossero usati per scuola, sanità, trasporti.
Provate ad immaginare di farla finita, sin da ora, con stato, padroni, militari, polizia.
Ci raccontano la favola che una società complessa è ingovernabile dal basso mentre ci annegano nel caos della gestione centralizzata e burocratica delle scuole, degli ospedali, dei trasporti.
Puntare sulla costruzione di assemblee territoriali, spazi, scuole, trasporti, ambulatori autogestiti non è un’utopia ma l’unico orizzonte possibile per farla finita con lo stato e il capitalismo.
Bloccare le missioni all’estero, boicottare l’ENI, cacciare i militari dalle strade, bloccare la produzione e il trasporti di armi, contrastare la mostra mercato dell’industria aerospaziale di guerra sono concreti orizzonti di lotta.
Assemblea antimilitarista torinese
Federazione Anarchica Torinese