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Israele: nazionalisti all’attacco

Israele: nazionalisti all’attacco

È dal 13 aprile che a Gerusalemme Est si stanno protraendo scontri tra manifestanti palestinesi e le truppe d’occupazione israeliane ma solo ora questi fatti hanno trovato visibilità, grazie ai razzi sparati da Gaza che hanno dato fiato alle solite trombe disinformanti e manipolatorie dei media mainstream. È bene ricordare che Gerusalemme Est, capitale designata del futuro (?) stato di Palestina, è occupata militarmente fin dal giugno 1967 e i suoi abitanti arabi non hanno passaporto, sono considerati residenti temporanei nelle loro case, non vengono concessi loro permessi di costruzione di nuovi edifici, sono sottoposti quotidianamente alle “delizie” dell’occupazione militare. I media mainstream però, in riferimento a quanto sta accadendo a Sheik Jarrah – il quartiere di Gerusalemme Est al centro degli avvenimenti e luogo dove ogni venerdì attivisti palestinesi e israeliani manifestano insieme contro l’occupazione – parlano di “case contese” come se ci fosse un conflitto di tipo giuridico/condominiale sull’utilizzo degli appartamenti. In realtà le case in questione risultano, dai documenti e dalla realtà dei fatti, di proprietà delle famiglie palestinesi che stanno per essere evacuate. Sono case costruite tra il 1952 e il 1956 dall’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente) e destinate ai profughi giunti da tutte le parti del paese dopo essere stati cacciati da città e villaggi dalle truppe israeliane all’indomani del 14 maggio 1948, data di fondazione dello Stato d’Israele.

Inevitabile che la rivolta di Sheik Jarrah – iniziata per rispondere all’irruzione di centinaia e centinaia di ebrei ortodossi che, al grido “morte agli arabi”, hanno aggredito gli astanti – si sia estesa all’intera popolazione palestinese e che abbia trovato anche nella Spianata delle moschee momenti di tensione e scontro. Le irruzioni militari nei luoghi considerati sacri dalla popolazione araba di rito islamico come la moschea di Al-Aqsa, all’indomani della fine del Ramadan e della festa dell’Eid al-Fitr, rappresentano una provocazione che ricorda quella di Ariel Sharon nel 2000 quando con un migliaio di armati occupò la stessa spianata dando di fatto il via alla seconda intifada e alla conseguente durissima repressione, funzionale alla sua ascesa politica e conseguentemente al rafforzamento del controllo e dell’espansione territoriale israeliana nei Territori palestinesi occupati (TPO). Il premier Netanyahu si trova oggi in pesante difficoltà, le ultime elezioni – la terza in un anno – non gli hanno fornito i numeri necessari per governare e il ricorso alla forza potrebbe rappresentare un escamotage per acquistare credito in un elettorato fortemente orientato sui temi cari al sionismo identitario e reazionario.

La situazione internazionale gli è sostanzialmente favorevole anche se Trump non è più alla Casa Bianca; gli accordi con gli emirati del Golfo e il Bahrein nell’ottobre dell’anno scorso, quelli precedenti con Giordania ed Egitto, la benevolenza dell’Arabia Saudita, la lacerazione del Libano e la riduzione a lumicino della Siria, fanno sì che il quadro sia tale da permettere un’accelerazione su quelli che sono i piani storici del sionismo: uno Stato di Israele solo per gli ebrei, con i palestinesi ridotti, al più, al livello di proletari forniti semplicemente di un permesso temporaneo di soggiorno e con Gerusalemme unificata come capitale.

Anche la situazione del mondo politico palestinese gioca a favore di Netanyahu: le elezioni per il rinnovo del parlamento di Ramallah sono state rinviate non solo perché Israele non vuole che si tengano a Gerusalemme Est ma anche perché Abbas teme di perderle. Fatah e Hamas continuano a contrapporsi ma ognuno ha le sue contraddizioni: Fatah è diviso in tre blocchi contrapposti ognuno in difesa dei propri interessi; Hamas continua nei suoi proclami antisionisti ma sottobanco fa accordi con Israele per sopravvivere. In buona sostanza non c’è una leadership che abbia credibilità, attraversata così com’è da compromessi, pratiche corruttive, relazioni pericolose con i governanti israeliani mentre ci sarebbe un esponente che ha grande seguito nella popolazione e che lo Stato israeliano continua a tenere, per questo motivo, in carcere – Marwan Barghouti, un leader della seconda intifada. Poi ci sono le colonie che continuano ad espandersi nei TPO, c’è una situazione sociale in continuo peggioramento che la pandemia/sindemia ha aggravato, per non dire di un disinteresse diffuso della comunità internazionale su quanto avviene da quelle parti. Questo nonostante le risoluzioni delle Nazioni Unite, gli appelli dell’Ufficio ONU per gli affari umanitari (Ocha), le denunce delle organizzazioni israeliane di difesa dei diritti umani da B’Tselem a Ir Amin, ad HaMoked che denunciano il sistema di apartheid instaurato dal loro stato.

Intanto aumentano a dismisura i morti e i feriti per le rappresaglie dell’aviazione israeliana a Gaza. Netanyahu minaccia anche l’intervento di terra, Hamas risponde affermando che i razzi da Gaza sono partiti in seguito all’incursione aerea su Gaza City e che la risposta palestinese sarà durissima. Come potrà esserlo è un mistero: Israele, oltre che essere uno dei paesi militarmente più sviluppati al mondo, è all’avanguardia nella progettazione e nella produzione dei sistemi di intercettazione dei razzi, di quelli di vigilanza e controllo, per non parlare dei droni. Chi pagherà il conto lo sappiamo già: le popolazioni di quei territori vittime designate delle politiche di potenza e di identità religiosa ed etnica.

Un conto che pagano già da tempo e che è diventato sempre più salato, come dicevamo, con l’attuale situazione pandemica che già prima non era affatto da meno: i palestinesi vivono in media 10 anni in meno rispetto agli israeliani, compresa la popolazione di coloni presente nello stesso territorio, oltre a registrare una mortalità materna e infantile da quattro a cinque volte superiore a quella degli israeliani. A Gaza vivono un milione e ottocentomila persone su un territorio di 141 miglia quadrate – uno dei posti con la più alta densità abitativa al mondo – controllato per terra, mare e aria dai militari israeliani. In questa situazione ci sono solo 20 dispositivi di ventilazione, c’è scarsità di acqua potabile e la dieta alimentare per molti lascia molto a desiderare.

Ricordiamo, a questo proposito, che in base alla Legge fondamentale “Terre di Israele” – che prevede che l’uso delle terre debba servire gli interessi nazionali – il governo ha il controllo non solo sul 93% del territorio demaniale entro i confini internazionalmente riconosciuti ma ha esteso la stessa legge sui TPO. Ciò vuol dire che grandi aree della Cisgiordania sono diventate “Terre di Stato”, amministrate dalle leggi israeliane e chiuse all’uso dei palestinesi. Rientra in questa legge la restrizione sui permessi di costruzione e l’uso del suolo: la questione delle cosiddette “case contese” si inserisce in questo contesto, che vale la pena di approfondire.

Come si sa, i TPO sono stati suddivisi in quattro aree in base agli accordi di Oslo tra lo Stato d’Israele e l’OLP (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina) rappresentato dal presidente Arafat. L’area A comprende le città palestinesi e alcune zone rurali a nord, tra Jenin e Nablus, a sud, vicino a Hebron, e a centro-sud, nei pressi di Salfit; è un’area sotto controllo e amministrazione dell’ANP e rappresenta il 17% dei TPO con il 55% dei palestinesi residenti in Cisgiordania. Quando si dice controllo e amministrazione dell’ANP non vuol dire suo governo esclusivo, in quanto permane lo stato di occupazione militare israeliana; il che vuol dire che se l’esercito israeliano vuole arrestare qualcuno in questa zona avvisa la polizia palestinese che, quando non collabora, si ritira nelle sue caserme lasciando mano libera agli israeliani. Una seconda area, la B, comprende altre aree rurali al centro della Cisgiordania sotto il controllo di Israele e l’amministrazione dell’ANP: rappresenta il 24% dei TPO con il 41% della popolazione araba. Queste due aree, la A e la B sono a loro volta divise in 227 sotto aree (199 delle quali con una superficie inferiore a due chilometri quadrati) separate le une dalle altre da territori compresi nell’area C. Questa area comprende gli insediamenti coloniali israeliani legali e illegali (complessivamente sono 640.000 i coloni residenti), le loro strade d’accesso, le zone cuscinetto (quelle vicino alle strade, agli insediamenti, le aree definite strategiche, di interesse militare, ecc.), quasi tutta la valle del Giordano (che è la parte più ricca di acqua e di risorse agricole della Cisgiordania) e il deserto del Negev; è un’area che comprende il 59% dei TPO con il 4% dei palestinesi, inframezzata da check point e da 700 chilometri di muri e barriere alte fino a 12 metri che spezzano comunità e territori, favorendo colonizzazioni e annessioni.

Oltre a queste 4 aree c’è poi la condizione di Gerusalemme Est e la situazione dei profughi. Un insieme di regimi giuridici diversi vengono infatti utilizzati per subordinare, frammentare, annichilire ogni tentativo di ricostruzione della comunità palestinese. Bisogna infatti tenere presente che, se si parla di numeri, i cittadini d’Israele di tradizione e/o religione e/o cultura ebraica sono sei milioni e mezzo, quelli arabi con cittadinanza israeliana un milione e settecentomila, i palestinesi residenti a Gerusalemme Est trecentomila, quelli nei TPO due milioni e settecentomila e un milione e ottocentomila a Gaza. Facendo le somme si vede che la quantità di ebrei e di arabi distribuita tra Israele e TPO sostanzialmente si equivale. Ciò spiega il continuo tentativo del governo di Tel Aviv di ostacolare in tutti i modi possibili la ricongiunzione politica e sociale dei palestinesi.

Quattro sono i regimi giuridici nei quali questi ultimi sono tenuti. Il primo comprende leggi che riducono la capacità degli arabi residenti in Israele di avere pari diritti: hanno infatti la cittadinanza ma non la nazionalità, questo fa sì che si riduca il loro peso politico (oggi il fronte che raggruppa i vari partiti arabi, oltreché ebrei antisionisti, è diventato il terzo raggruppamento nel parlamento). Il secondo restringe e condiziona il diritto di residenza per gli abitanti arabi di Gerusalemme Est. Il terzo è comprensivo delle leggi militari che trattano i palestinesi dei TPO come popolazione straniera, priva di diritti politici, di libertà di stampa e di espressione. Il quarto impedisce ai profughi palestinesi di tornare nelle loro case. Tutto questo sistema è poi rafforzato dalle ultime decisioni in merito alla nazionalità che fa sì che Israele sia lo stato degli ebrei e che solo gli ebrei costituiscano la nazione. Mettere in discussione il regime esistente diventa allora un attacco alla nazione ed è quindi illegale.

L’economia israeliana è dunque una economia d’occupazione che si basa sul suo stato di mobilitazione perenne nei confronti del nemico e sulle pratiche di controllo e di sfruttamento nei confronti di palestinesi, ovunque essi si trovino, a Gerusalemme, a Gaza, nei TPO. Intanto crescono le difficoltà per continuare a sostenere la narrazione della “legittimità” israeliana a occupare i territori per difendersi dall’estremismo palestinese, ridotto ormai a piccoli gruppi privi di un significativo sostegno internazionale, tanto da sostenere una campagna internazionale tesa a parificare strumentalmente l’antisionismo all’antisemitismo, con lo scopo di tacitare tutti i critici delle politica israeliana.

Da parte nostra non c’è alcun dubbio in materia: schierati sul fronte antirazzista e antifascista, siamo sempre stati contro ogni forma di discriminazione etnica e religiosa. Realtà come “Anarchici Contro il Muro”, “B’Tselem”, “Parent’s Circle”, “Other Israel”, costituite e sostenute da israeliani e arabi, impegnati nel superamento delle barriere e nella realizzazione di una realtà sociale e politica basata sul riconoscimento dei diritti di tutti e di un sistema costruito su una giustizia eguale per tutti, sono un riferimento indifferibile, così come realtà come i “refusnik” (gli obiettori al servizio militare), “Breaking the Silence” (ex militari contro l’occupazione), la statunitense “Jewish Voice for Peace”, la rete “Ebrei Contro l’Occupazione”. Antisemite sono sempre state le organizzazioni della destra fascista che oggi sostengono strumentalmente le politiche di Binyamin Netanyahu in funzione antiislamica, ma che nei loro territori incrementano le forme di razzismo presenti nei confronti di immigrati e rom e che inevitabilmente si rivolgono anche contro gli ebrei.

Nell’inverno del 2020, poco prima che si diffondesse il Covid-19, alcun* di noi hanno voluto sincerarsi di persona della situazione in Cisgiordania, nei TPO, con un viaggio organizzato da Assopace Palestina che ci ha permesso di entrare in contatto con la realtà sociale di quei territori, con esponenti della resistenza non violenta all’occupazione, con organismi di donne, con appartenenti alle cooperative di produzione e consumo e a quelle agricole della valle del Giordano, con militanti israeliani degli organismi in difesa dei diritti umani e con politici palestinesi; non sono nemmeno mancati incontri con obiettori di coscienza israeliani al servizio militare e funzionari ONU dell’Ocha. Un panorama ampio di un territorio vissuto in un viaggio intenso e ricco di informazioni e suggestioni (e tante emozioni) che consiglio vivamente di affrontare a chi vuole approfondire quale sia la reale condizione di vita di quelle popolazioni alle prese con divieti, controlli, barriere, umiliazioni quotidiane, scontri con le truppe d’occupazione e i coloni che li vogliono espellere dalle loro case e dai loro terreni.[1]

Massimo Varengo

NOTE

[1] Nel numero 11 del 5 aprile 2020 di Umanità Nova con l’articolo “Tra occupazione e Covid-19” avevo cercato di darne conto: alcune riflessioni sono state riprese in questo articolo e ad esso mi richiamo per completare le riflessioni di cui sopra.

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