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Il comunismo anarchico

Il comunismo anarchico

Ogni società che vorrà rompere con la proprietà privata sarà costretta, secondo noi, ad organizzarsi in comunismo anarchico. L’anarchia conduce al comunismo eg il comunismo all’anarchia, non essendo l’uno e l’altro che l’espressione della tendenza predominante delle società moderne, la ricerca dell’uguaglianza.

Vi fu un’epoca in cui una famiglia di contadini poteva considerare come prodotto del suo proprio lavoro il grano ch’essa faceva maturare e gli abiti di lana tessuti nella capanna. Ma anche allora questo modo di concepire non era affatto corretto. Poiché vi erano già strade e ponti costruiti in comune, delle paludi prosciugate con un lavoro collettivo, nonché dei pascoli comunali cinti da siepi che tutti contribuivano a mantenere. Un miglioramento apportato al mestiere della tessitura o nel modo di tingere i tessuti era utile a tutti; in quell’epoca, una famiglia di contadini non poteva vivere che a condizioni di trovare appoggio, in mille occasioni, nel villaggio, nel comune.

Oggi però, in questa società industriale dove tutto si intreccia e si sorregge reciprocamente, dove ogni ramo della produzione si serve di tutti gli altri, la pretesa di voler attribuire un’origine individualista ai prodotti non regge in alcun modo. Se le industrie tessili e metallurgiche hanno raggiunto nei paesi civili una meravigliosa perfezione, esse lo devono allo sviluppo simultaneo di mille altre industrie, grandi e piccole, all’estensione delle reti ferroviarie, della navigazione transatlantica, all’abilità di milioni di lavoratori, ad un certo grado di cultura generale di tutta la classe operaia, a dei lavori, infine, eseguiti da un capo all’altro del mondo. (…) Come stimare la parte che spetta a ciascuno delle ricchezze che noi tutti contribuiamo ad accumulare?

(…) Una nuova forma di possesso richiede anche una nuova forma di retribuzione. Una nuova forma di produzione non potrebbe conservare l’antica forma di consumo, come non potrebbe adattarsi alle antiche forme d’organizzazione politica. Il salariato ha avuto origine dall’appropriazione personale del suolo e degli strumenti di produzione da parte di qualcuno. Ciò era la condizione necessaria per lo sviluppo della produzione capitalista e morirà con essa (…). Il possesso comune degli strumenti di lavoro apporterà necessariamente il godimento comune dei frutti del lavoro comune. (…)

Lo sviluppo dell’individualismo durante i tre ultimi secoli si spiega sopratutto per gli sforzi dell’uomo che voleva premunirsi contro i poteri del capitale e dello Stato. Egli credette per un istante, e coloro che formulavano per lui il suo pensiero lo predicarono, ch’egli poteva emanciparsi interamente dallo Stato e dalla società. “Mediante il danaro, egli diceva, io posso comprare tutto ciò di cui avrò bisogno”. Ma l’individuo sbagliò strada, e la storia moderna lo riconduce a riconoscere che, senza il concorso di tutti, non può nulla, quand’anche avesse le sue casseforti ricolme d’oro.

Infatti, a lato di questa corrente individualista, noi vediamo in tutta la storia moderna la tendenza a ritenere da una parte ciò che rimane del parziale comunismo dell’antichità, e dall’altra a ristabilire il principio comunista in mille e mille manifestazioni della vita.

Tutto questo è scomparso. Ma (…) nello stesso tempo nuove organizzazioni basate sullo stesso principio “a ciascuno secondo i proprio bisogni” sorgono sotto mille aspetti diversi: infatti, senza una certa dose di comunismo, anche le società attuali non potrebbero vivere. Malgrado l’impronta strettamente egoista data agli spiriti dalla produzione mercantile, la tendenza comunistica si rivela ad ogni momento e penetra nelle nostre relazioni sotto tutte le forme.(…)

Per quanto ancora debole, esiste già fin d’ora la tendenza di collocare i bisogni dell’individuo al disopra della valutazione dei servigi ch’egli ha reso o che renderà un giorno alla società. Si giunge a considerare la società come un tutto, di cui ogni parte è così intimamente collegata colle altre, che il servigio reso a un individuo, è un servigio reso a tutti.

Quando vi recate in una biblioteca pubblica (…) il bibliotecario non vi domanda quali servigi voi avete resi alla società per darvi il volume od i cinquanta volumi che voi gli richiedete: vi aiuta anzi all’occorrenza se per caso non vi sapete raccapezzare nel catalogo. Mediante un diritto d’ingresso uniforme e, molto spesso, si preferisce una contribuzione in lavoro, la società scientifica apre i suoi musei, i suoi giardini, la sua biblioteca, i suoi laboratori, le sue feste annue a ciascuno dei suoi membri, sia egli un Darwin od un semplice dilettante.

A Pietroburgo, se state studiando un’invenzione, potete recarvi in un laboratorio apposito dove vi si accorda un posto, un banco da falegname, un tornio da meccanico, tutti gli attrezzi necessario, tutti gli strumenti di precisione, purché voi sappiate adoperarli, e vi si lascia lavorare finché vi piacerà. Eccovi gli attrezzi, interessate degli amici alla vostra idea, associatevi ad altri compagni di diversi mestieri se voi non preferite lavorare da solo, inventate la macchina per volare o non inventate nulla – è affar vostro. Un’idea vi trascina, ciò basta.

Ugualmente, i marinai di un battello di salvataggio non domandano i loro titoli ai marinai d’un bastimento che cola a fondo; ma lanciano a mare l’imbarcazione, rischiano la vita fra le ondate furibonde e talvolta muoiono per salvare degli uomini che non conoscono nemmeno. (…) Ecco la tendenza, eminentemente comunistica, che dappertutto si mostra, sotto tutti gli aspetti possibili, nel seno stesso delle nostre società che predicano l’individualismo.

Domani una delle nostre grandi città, così egoiste in tempi ordinari, viene colpita da una calamità qualunque (…) questa stessa città deciderà che i primi bisogni da soddisfare saranno quelli dei fanciulli e dei vecchi. Senza informarsi dei servigi che essi hanno reso o renderanno alla società, occorre, prima di tutto, nutrirli; allo stesso modo prender cura dei volontari, indipendentemente dalla bravura o dall’intelligenza di cui ognuno d’essi avrà dato prova e fra migliaia di donne e di uomini avverrà una gara generosa di abnegazione per curare i feriti.

La tendenza dunque esiste. Essa si accentua quando i bisogni più impellenti di ciascuno sono soddisfatti ed a misura che la forza produttrice dell’umanità si accresce; essa si accentua ancor più ogni volta che una grande idea sorge a prendere il posto delle meschine preoccupazioni della nostra vita quotidiana.

Come dubitar dunque che, il giorno in cui gli strumenti di produzione venissero consegnati a tutti e si compisse l’opera in comune ed il lavoro, riacquistando così nella società il suo posto d’onore, producesse ben più di quel che necessiti a tutti, come dubitare che allora questa tendenza già così potente, non allarghi la sua sfera d’azione sino a diventare il principio stesso della vita sociale?

Secondo questi indizi e riflettendo inoltre sul lato pratico dell’espropriazione, di cui parleremo nei seguenti capitoli, noi siamo d’ellopinione che il nostro primo dovere, quando la rivoluzione avrà spezzato la forza che mantiene il sistema attuale, sarà di realizzare immediatamente il comunismo.

Il nostro comunismo non è però quello dei falansteriani, nè quello dei teorici autoritari tedeschi. È il comunismo anarchico, il comunismo senza governo, quello degli uomini liberi. È la sintesi dei due scopi ai quali mira l’umanità attraverso i tempi: la libertà economica e la libertà politica. (…)

Anche nel prendere “l’anarchia” come ideale di organizzazione politica non facciamo che formulare un’altra decisa tendenza dell’umanità. Ogni volta che il progredire dello sviluppo delle società europee l’ha permesso, esse scuotevano il giogo dell’autorità e abbozzavano un sistema basato sui principi della libertà individuale e noi osserviamo nella storia che i periodi, durante i quali i governi furono scossi in seguito a rivolte parziali o generali, sono state epoche di progresso immediato sul terreno economico ed intellettuale. (…)

Se noi osserviamo lo sviluppo presente delle nazioni civili, vi scorgiamo, senza rischio d’ingannarci, un movimento sempre più accentuato per limitare la sfera di azione del governo e lasciar sempre maggior libertà all’individuo. L’odierna evoluzione è intralciata, è vero, dal pasticcio di istituzioni e di pregiudizi ereditati dal passato; come tutte le evoluzioni, essa non attende che la rivoluzione per rovesciare le macerie che le ostacolano il cammino, per prendere un libero slancio nella società rigenerata.

Dopo aver per lungo tempo tentato vanamente di risolvere questo problema insolubile, quello di darsi un governo “il quale possa costringer l’individuo all’obbedienza, senza nondimeno cessar d’obbedire egli stesso alla società”, l’umanità si sforza di liberarsi da ogni specie di governo e soddisfare i suoi bisogni di organizzazione per mezzo del libero accordo fra individui e gruppi che mirano allo stesso fine. L’indipendenza di ogni minima unità territoriale diventa un bisogno urgente; il comune accordo sostituisce la legge e regola, al disopra delle frontiere, gli interessi particolari in vista di uno scopo generale.

Tutto ciò che fu una volta considerato come funzione del governo, gli viene oggi contestato: tutto va meglio e più facilmente senza il suo intervento. Studiando i progressi fatti in questo senso, siamo indotti a concludere che l’umanità tende a ridurre a zero i governi, cioè ad abolire lo Stato, questa personificazione dell’ingiustizia, dell’oppressione, del monopolio. (…)

Certo, l’idea di una società senza Stato susciterà, per lo meno, altrettante obbiezioni quante l’economia politica di una società senza capitale privato. Tutti, più o meno, crescemmo alimentati da pregiudizi sulle funzioni provvidenziali dello Stato. Tutta la nostra educazione, dall’insegnamento delle tradizioni romane sino al codice bizantino, che si studia sotto il nome di diritto romano, e le stesse scienze diverse professate nelle Università, ci abituano a credere al governo e alle virtù dello Stato-Provvidenza.

Interi sistemi di filosofia sono stati elaborati e insegnati per mantenere questo pregiudizio. Tutte le teoriche della legge si esprimono nel medesimo senso e tutta la politica è basata su questo principio; ogni politicante, qualunque sia il suo partito e la sua posizione, non fa che ripetere al popolo “Dammi il potere, perché io voglio, io posso liberarti dalle miserie che ti opprimono”.

Dalla culla alla tomba, tutte le nostre azioni sono dirette da questo principio. Aprite un qualunque libro di sociologia, di giurisprudenza e troverete sempre che il governo, la sua organizzazione, i suoi atti vi occupano un posto così grande che noi ci abituiamo a credere che non vi sia null’altro all’infuori del governo e degli uomini di Stato.

La stessa lezione è ripetuta su tutti i toni dalla stampa. Colonne intere dei giornali son dedicate alle discussioni parlamentari, agli intrighi dei politicanti; è molto se la vita quotidiana e immensa d’una nazione vi fa capolino tra qualche linea che tratta di un argomento economico, a proposito d’una legge o, nella cronaca, a causa della polizia. Quando voi leggete questi giornali, non pensate affatto al numero incalcolabile di esseri – tutta l’umanità, per così dire – che crescono e muoiono, che conoscono tutti i dolori, che lavorano e consumano, pensano e creano, di là di quei pochi personaggi imbarazzanti che sono stati tanto gonfiati sino a far loro nascondere, colla loro ombra ingrandita dalla nostra ignoranza, l’intera umanità.

Eppure, non appena si passa dalla carta stampata alla vita stessa, non appena si getta un colpo d’occhio sulla società, si rimane colpiti della parte infinitamente minuscola che il governo vi rappresenta. Balzac aveva già notato quanti milioni di contadini passano la vita intera senza nulla conoscere dello Stato, salvo le pesanti imposte che sono obbligati a tributargli. Ogni giorno avvengono milioni di transazioni senza che il governo debba intervenire e le più importanti fra esse – quelle del commercio e della Borsa – sono regolate in tal maniera che il governo non potrebbe nemmeno essere invocato, qualora l’una delle parti contraenti avesse l’intenzione di non mantenere il suo impegno. Parlate a un uomo pratico del commercio e vi dirà che gli scambi operati ogni giorno fra commercianti sarebbero assolutamente impossibili se non fossero basati sulla mutua fiducia. L’abitudine di non mancare alla parola data, il desiderio di non perdere il proprio credito, bastano largamente per mantenere questa onestà relativa – l’onestà commerciale. Persino colui che non prova il minimo rimorso di avvelenare la sua clientela con materiale nocivo, nascosto da etichette pompose, si fa scrupolo di mantenere i proprio impegni. Ora, se questa moralità relativa ha potuto svilupparsi persino nelle condizioni attuali, quando l’arricchimento è il solo movente ed il solo obbiettivo degli uomini, come possiamo dubitare che essa non progredisca rapidamente quando l’appropriazione dei frutti del lavoro altrui avrà cessato di essere la base stessa della società?

Un’altra sorprendente nota caratteristica, la quale distingue specialmente la nostra generazione, parla ancor meglio in favore delle nostre idee. Intendiamo dire dell’accrescimento continuo nel campo delle azioni dovute all’iniziativa privata e lo sviluppo prodigioso delle libere associazioni di ogni specie. (…). Ci limiteremo qui a notare come questi fatti siano numerosi e così abituali da formare l’essenza della seconda metà di questo secolo, anche quando gli scrittori di socialismo e di politica li ignoravano, preferendo intrattenersi sempre sulle funzioni del governo. Queste numerosissime organizzazioni libere sono un prodotto così naturale, così rapidamente si sviluppano, con tanta facilità si aggruppano, sono un risultato così necessario dell’aumento continuo dei bisogni dell’uomo civilizzato: infine, esse sostituiscono così vantaggiosamente l’intromissione governativa che noi dobbiamo riconoscere in loro un fattore sempre più importante nella vita sociale.

Se esse non si estendono ancora nell’insieme delle manifestazioni della vita è perché si scontrano con ostacoli insormontabili, quali la miseria del lavoratore, la divisione in classi della società attuale, l’appropriazione privata del capitale, lo Stato. Sopprimete questi ostacoli e voi le vedrete ricoprire tutto l’immenso dominio delle attività degli uomini riuniti in società.

La storia degli ultimi cinquant’anni ha fornito la prova vivente dell’impotenza del governo rappresentativo ad adempiere alle funzioni delle quali lo si è voluto sovraccaricare. Si citerà un giorno il secolo decimonono come la data della liquidazione del parlamentarismo.

Quest’impotenza diventa così evidente agli occhi di tutti e le colpe del parlamentarismo ed i vizi fondamentali del principio rappresentativo sono così palpabili che quei pochi pensatori i quali ne han fatto la critica, quali T. S. Mill e Leverdays, per esempio, non hanno dovuto che riprodurre il malcontento popolare. Infatti, come non concepire l’assurdità di nominare alcuni individui e dir loro: “Legiferate su titti gli aspetti della nostra vita, anche quando ognuno di voi le ignora?”. Si comincia a capire che governo della maggioranza significa abbandono di tutti gli affari del paese nelle mani di coloro che formano le maggioranze, cioè dei “rospi di palude”, sia alla Camera che nei comizi: in una parola a coloro che non hanno alcuna opinione. L’umanità cerca, e trova già nuove uscite.

L’unione postale internazionale, l’unione delle strade ferrate, le società di dotti ci danno l’esempio di soluzioni trovate per mezzo del libero accordo, senza bisogno di ricorrere a leggi.

Oggi, quando dei gruppi sparsi ai quattro angoli del mondo vogliono organizzarsi per uno scopo qualunque, non nominano più un parlamento internazionale di deputati “buoni a far tutto, adatti a tutti i bisogni” ai quali si dice: “Votateci delle leggi e noi obbediremo”. Quando è impossibile intendersi direttamente o per corrispondenza, si mandano delegati che conoscono la questione specifica da trattare e si dice loro: “Cercate di accordarvi sulla tale questione e poi ritornate, non con una legge in tasca ma con una proposta di accordo che noi accetteremo o non accetteremo”.

Così appunto agiscono le grandi compagnie industriali, le società scientifiche, le associazioni di ogni specie che coprono già l’Europa e gli Stati Uniti e così dovrà agire una società che si sia emancipata. Per effettuare l’espropriazione, le sarà assolutamente impossibile di organizzarsi sul principio della rappresentanza parlamentare. Una società fondata sul servaggio poteva adattarsi con una monarchia assoluta: una società basata sul salariato e lo sfruttamento delle masse per opera dei possessori del capitale si adatta sul parlamentarismo: ma una società libera la quale rientra in possesso della comune eredità dovrà cercare, nella libera associazione e nella libera federazione dei gruppi, un’organizzazione nuova coerente con la nuova fase economica della storia.

Ad ogni fase economica corrisponde la sua fase politica e sarà impossibile abbattere la proprietà privata senza trovare contemporaneamente una nuova forma di vita politica.

Pëtr Alekseevič Kropotkin

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