«C’era una volta la scala mobile…». La nostra storia potrebbe iniziare così ma non è una storia a lieto fine (almeno per ora). Il meccanismo di indicizzazione dei salari all’aumento del costo della vita (noto come “indennità di contingenza” o “scala mobile”) viene introdotto in Italia fin dal 1945 e poi via via modificato fino alla “unificazione del punto di contingenza” nel 1975. Negli anni Settanta costituisce un meccanismo fondamentale per mantenere il valore reale dei salari di fronte all’inflazione.
I detrattori della scala mobile hanno sempre sostenuto che il meccanismo contribuiva ad aumentare l’inflazione in una folle rincorsa prezzi-salari che rendeva illusori gli aumenti salariali. Omettono però di ricordare che l’Italia attuava all’epoca regolarmente delle “svalutazioni competitive” per favorire le esportazioni dei prodotti nazionali: la lira veniva svalutata, aumentavano così le esportazioni mentre importare dall’estero diventava meno conveniente e questo meccanismo produceva inflazione a manetta. Se poi lo sommiamo al vertiginoso aumento del prezzo del petrolio (inflazione importata) in atto dal 1973, scopriamo i veri responsabili dell’inflazione a due cifre che caratterizza gli anni Settanta.
Un altro argomento utilizzato contro il “punto unico di contingenza” è che questo favoriva l’appiattimento dei salari “mortificando i livelli più elevati tra gli operai, i tecnici e gli impiegati”:[1] peccato che, dal 1992 ad oggi, i salari si siano comunque appiattiti per tutti (verso il basso, ovviamente) e non siano più riusciti a tenere il passo con l’aumento del costo della vita.
La svolta dell’EUR (1978)
La politica della “concertazione” è inaugurata dalla cosiddetta “svolta dell’EUR” (12-13 febbraio 1978) quando CGIL, CISL e UIL fanno “la scelta concorde della moderazione salariale e della flessibilità nell’organizzazione del lavoro, che doveva essere scambiata con una ripresa dello sviluppo e degli investimenti”.[2] Il segretario della CGIL Luciano Lama dichiarerà in proposito in una intervista a La Repubblica che “il sindacato propone ai lavoratori una politica di sacrifici. Sacrifici non marginali, ma sostanziali.”[3] I risultati si vedranno ben presto, con la devastante sconfitta operaia alla FIAT nel 1980-81.
Nel frattempo (1979) l’Italia aderisce al Sistema Monetario Europeo (SME) un meccanismo di cambi fissi tra le diverse valute europee che prelude al successivo Euro. L’adesione allo SME comporta la fine delle “svalutazioni competitive” che sostenevano le esportazioni e induce il padronato a condurre una strenua battaglia per ridurre il costo del lavoro.
Il Protocollo Scotti (1983)
Il 22 gennaio 1983 governo, sindacati e Confindustria sottoscrivono il “Protocollo globale d’intesa sul costo del lavoro (il cosiddetto “Protocollo Scotti”) che, al fine di ridurre l’inflazione, si propone di contenere “l’espansione dei redditi (…) nei limiti della conservazione del loro valore reale”. A questo fine i sindacati si impegnano alla moderazione nei rinnovi contrattuali e accettano una decurtazione del punto di contingenza. In cambio, il governo si impegna a rivedere le aliquote IRPEF per i lavoratori dipendenti, incrementare gli assegni famigliari, contenere l’aumento delle tariffe e dei prezzi amministrati, fiscalizzare gli oneri sociali a carico delle imprese.
Vengono poste le premesse per la completa deregulation successiva del mercato del lavoro attraverso l’introduzione di “procedure più flessibili nell’avviamento al lavoro”, l’“ampliamento delle possibilità di ricorso a forme di occupazione a tempo parziale e altresì di assunzioni a termine” nel caso di “intensificazioni temporanee o stagionali dell’attività lavorativa”.[4]
L’abbandono dei meccanismi della scala mobile è teorizzato all’epoca da economisti vicini al dirigente CISL Pierre Carniti come Ezio Tarantelli: “La scala mobile – scrive Leonello Tronti – era per Tarantelli un meccanismo rigido e, sotto il profilo politico, caratterizzato da un automatismo che non aiutava affatto i lavoratori a guadagnare ‘l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese’, come indicato dall’articolo 3 della Costituzione italiana. Egli intravedeva invece, nella necessità inderogabile di abbattere l’inflazione, una straordinaria opportunità di dare applicazione concreta al grande consenso sociale conquistato dal movimento sindacale nei decenni precedenti: un consenso divenuto ormai a tutti gli effetti potere di opinione e politico, come evidenziato dall’istituzione della Federazione unitaria CGIL-CISL-UIL. Il sindacato italiano aveva raggiunto una maturità tale da consentirgli l’accesso alla ‘stanza dei bottoni’, prendendo parte attiva alla programmazione dell’inflazione e, con essa, della politica dei redditi, attraverso il coordinamento delle dinamiche salariali con gli obiettivi e i comportamenti di risanamento degli altri attori della politica economica. Questi potevano essere negoziati e condivisi secondo un modello ‘neocorporatista’, di ‘partecipazione dall’alto’, che combinava e interpretava in modo inedito e creativo gli articoli 46 e 3 della Costituzione.”[5]
Un progetto ambizioso che però non tiene conto dell’esistenza della “lotta di classe” e del rischio di “svendere” un meccanismo certo di recupero salariale (la scala mobile) in cambio di vaghe promesse (come poi puntualmente avverrà). A dire il vero, una contropartita “neocorporatista”, di “partecipazione dall’alto” ci sarà, in termini però di privilegi alle burocrazie sindacali e a tutto danno degli interessi dei lavoratori.
Il decreto di San Valentino (1984)
Già l’anno successivo il meccanismo si incaglia. A febbraio 1984 sindacati, governo e Confindustria giungono a un nuovo accordo che prevede la predeterminazione della scala mobile, la rinuncia a quattro scatti nel 1985 relativi all’inflazione precedente in cambio di una serie di interventi fiscali, normativi e tariffari.
Il PCI però, già scottato dalla precedente esperienza della “solidarietà nazionale” in cui si era ridotto a fare da portatore d’acqua ai governi democristiani senza riuscire minimamente ad avvicinarsi alla “stanza dei bottoni”, pone il veto: la CGIL quindi non sottoscrive l’accordo a differenza di CISL e UIL. A questo punto il governo Craxi interviene d’imperio con il cosiddetto Decreto di San Valentino (14 febbraio 1984) che trasforma l’accordo in legge.
Il provvedimento viene confermato da un referendum popolare nel 1985, dopo il quale “la classe imprenditoriale si poté sentire più tranquilla e più disposta a investire di quanto non fosse mai stata dal lontano 1963”: in effetti si apre per l’Italia un nuovo periodo di sviluppo economico, l’inflazione scende attestandosi al 4,6% nel 1987, anche grazie alla riduzione dell’inflazione importata, propiziata dalla discesa del dollaro e del prezzo del petrolio.[6]
La fine della scala mobile (1986-1992)
L’appetito, come si suol dire, vien mangiando e nel 1986 la scala mobile viene ulteriormente manomessa attraverso la semestralizzazione. Nel 1990, poi, la Confindustria si sente ormai abbastanza forte per disdettare l’accordo sulla contingenza. Con l’accordo del 31 Luglio 1992 CGIL, CISL, UIL accettano la definitiva eliminazione della scala mobile (il segretario CGIL Bruno Trentin sottoscrive l’accordo… e il giorno dopo si dimette dicendo di aver firmato solo per “salvare l’unità sindacale”).
Quali le conseguenze? Restituiamo la parola a Leonello Tronti: “È dal primo gennaio 1991, quando entrò in vigore la seconda e definitiva disdetta della scala mobile da parte di Confindustria (presidente Sergio Pininfarina), che il potere d’acquisto delle retribuzioni dei lavoratori italiani è entrato in un tunnel di stagnazione di cui ancora oggi, ventotto anni dopo, non si intravede la fine. Quando nel luglio 1993 venne varato l’impianto di contrattazione delle retribuzioni a due livelli tuttora in vigore, la scala mobile fu definitivamente sostituita dal contratto nazionale di categoria (primo livello), che prevedeva una politica salariale d’anticipo basata sull’aggancio dei minimi contrattuali per qualifica a obiettivi di inflazione condivisi tra governo e parti sociali (dal 2009 su livelli di inflazione previsti, prima dall’Isae e ora dall’Istat). La possibilità che il potere d’acquisto dei salari crescesse veniva affidata alla contrattazione decentrata (secondo livello), che non è mai stata disponibile a più del 20-25% dei lavoratori delle imprese.”[7]
Qui però stiamo parlando dei lavoratori garantiti almeno dall’esistenza di un contratto nazionale. Nel frattempo però sono cresciuti esponenzialmente il lavoro nero, le figure contrattuali atipiche, le false partite IVA, la gig economy (riders, ecc.) lasciando fuori da ogni tutela buona parte del mondo del lavoro.
Svendite e “neocorporatismo”
Se il bilancio di questa storia è del tutto negativo per i lavoratori, le burocrazie sindacali hanno al contrario ricavato ricche prebende dalla scelta della “concertazione” (suggellata dall’accordo del 3 Luglio 1993) attraverso la creazione dei centri di assistenza fiscale (CAF) (1991 e 1992), dei fondi interprofessionali e degli enti bilaterali (via via sviluppatisi dal 1993), dei fondi pensione integrativi di categoria (nati a partire dal 1993 – ricordiamo che ai malcapitati lavoratori che vi aderiscono non è più consentito uscirne!) e non dimentichiamo le recenti norme sul welfare aziendale, i patronati, le aspettative sindacali pagate dal padronato… Una storia infame. Ma conoscere il passato è indispensabile per modificare il futuro. E questo dipende solo dai lavoratori.
Mauro De Agostini
NOTE
[1] CAZZOLA, Giuliano, “Ascesa e caduta della scala mobile, dal ‘punto unico’ all’accordo del 1992”, in Il Diario del lavoro, https://www.ildiariodellavoro.it/adon.pl?act=doc&doc=62461#.X9HPGrN7m1g
[2] TRONTI, Leonello, “Il decreto di San Valentino e la stagione della concertazione”, Nota Isril n. 39-2020, p. 3, http://www.bollettinoadapt.it/il-decreto-di-san-valentino-e-la-stagione-della-concertazione/
[3] “Intervista a Luciano Lama”, a cura di SCALFARI, Eugenio, la Repubblica 24 gennaio 1978.
[5] TRONTI, Leonello, “Il decreto di San Valentino”, cit., p. 2.
[6] GINSBORG, Paul, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, p. 547-548.
[7] TRONTI, Leonello, “Il trentennio inglorioso dei salari”, 2 marzo 2019, http://www.eguaglianzaeliberta.it/web/content/il-trentennio-inglorioso-dei-salari