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Una metafora dei disastri del capitalismo moderno – 1

Una metafora dei disastri del capitalismo moderno – 1

Questa prima parte di un corposo articolo sul Libano vuole essere un’introduzione, seppur abbozzata, a quella che è la situazione in un paese che, per posizione geografica, risulta protagonista delle sorti di un’area strategica, quella mediorientale, quantomeno dalle prime decadi del ’900. Partendo da un ottimo articolo apparso su libcom.org il 21 agosto scorso, “The Lebanon Disaster: A Metaphor for Modern Capitalism”,[1] si è cercato di articolare un ragionamento che non si limitasse a descrivere la storia recente di Beirut e la narrazione di un disastro ma che inserisse l’accaduto all’interno del contesto nazionale e internazionale. Abbandonando quindi la narrazione di Beirut in quanto “vittima di un incidente” a favore del Libano nella totalità e le sue relazioni internazionali come metafora del processo di accumulazione e riproduzione capitalista.

Libano: fra corruzione interna e speculazione internazionale?

A Beirut c’è “uno stato di emergenza”. Non certo per affrontare la devastante esplosione nel suo porto che ha lasciato 200 fra morti e dispersi, oltre 6.000 feriti e 300.000 senzatetto. Lo “stato di emergenza” serve a protezione dell’élite politica e finanziaria, ossia la governance economica, dalla rabbia della popolazione già in ginocchio ben prima dell’esplosione del 4 agosto. L’alta borghesia libanese, sostanzialmente retta da finanza e commercio estero, unita alle alte dirigenze dei settori strategici e burocratici (forze militari, energia e cariche politiche) sono il nucleo decisionale, che da Beirut gestisce il paese, nella quale vi è concentrato un terzo della popolazione nazionale.

Ancora prima del Covid-19 e dell’esplosione a Beirut, oltre due milioni di libanesi erano senza lavoro e metà viveva al di sotto della soglia di povertà. La lira ha perso l’80% del suo valore sul mercato nero dallo scorso ottobre,[1] periodo nel quale sono scoppiate le proteste contro la corruzione ed il clientelismo del sistema governativo. I prezzi dei beni essenziali sono triplicati dall’inizio dell’anno fino a giugno.[2] Da allora con un’inflazione mensile del 56% le cose sono andate sempre peggio: i meno abbienti a stento possono permettersi il pane, mentre la piccola borghesia ed i settori professionali stanno progressivamente perdendo il lavoro e la casa. Poiché il Libano importa la maggior parte del suo fabbisogno alimentare (e una quota pari a sei settimane del suo approvvigionamento di grano era immagazzinato nei silos del porto ora distrutto) i prezzi del cibo raggiungeranno verosimilmente livelli assolutamente proibitivi, innescando spirali delinquenziali da mercato nero, già di fatto esistente.

Forse l’unica vera sorpresa è che le proteste dello scorso ottobre non siano riuscite a scoppiare prima. Il Libano è terzo nella classifica mondiale per quanto riguarda il rapporto debito/PIL, ma per avere un’idea della rapacità della sua classe dirigente basta considerare che essa si posiziona al quarto posto nella lista dei più ricchi del pianeta per patrimonio pro capite. L’1% più ricco della popolazione assorbe il 25% del PIL del paese[3] e la lista dei primi ministri si sovrappone quasi perfettamente alla lista degli uomini più ricchi del paese. Il sistema bancario non è ovviamente immune dai rancori popolari, essendo la cinghia di distribuzione delle speculazioni ed attrattore di investimenti internazionali, nonché, viste alcune tendenze del commercio libanese, un’enorme circuito di “pulitura di valuta sporca”.

Ciò viene in qualche modo acclarato anche dalla vulgata, secondo la quale Libano e banche erano considerati sinonimi. Ciò fu particolarmente aderente al vero durante il boom del dopoguerra, negli anni ’50, dove i tassi di interesse generosi e le regolamentazioni bancarie molto permissive le rendevano attraenti per chiunque detenesse un crescente quantitativo di petrodollari arabi, così anche per quanto riguardava le rimesse di denaro proveniente dalla ricca diaspora libanese in Occidente. Una volta pubblicizzato come la “Svizzera del Medio Oriente”, il sistema bancario è stato visto come uno dei pochi settori di successo in uno stato tormentato tanto dalla guerra civile che dall’interferenza imperialista esterna; un asset strategico che ha favorito interessi trasversali e buoni uffici proprio con la Svizzera, quella vera, delle grasse vacche alpine e della cioccolata. Difatti oltre 1.500 cittadini svizzeri vivono in Libano (dati 2018), la maggior parte dei quali ha la doppia cittadinanza. Esiste anche un trattato bilaterale con la Svizzera di mutuo sostegno commerciale, umanitario e programmi per l’istruzione. Quello che più sembra pesare però sono i concordati economici per il commercio: la Svizzera importa pietre preziose e gioielli dal Libano, circostanza assai strana visto che il Libano non è famoso per le sue miniere di preziosi. Se non fosse che sono i libanesi che controllano buona parte del traffico dei diamanti in Africa, che già negli anni Ottanta, destinava una parte dei proventi dell’estrazione illegale al sostegno delle milizie che si combattevano nel Paese.[4]

Un sistema bancario “allegro” non può che avere al suo apice un’istituzione altrettanto dinamica e “spensierata”: la banca centrale libanese, la Banque du Liban (BDL). Amministrata fin dal 1997 dallo stesso governatore, Riad Salame, è persino uscita relativamente indenne dallo scoppio della bolla speculativa globale del 2007-8. A quanto pare il governatore si è guadagnato la reputazione di mago finanziario per aver consigliato agli investitori di acquistare titoli nella “sua banca” invece che nel sistema finanziario mondiale, a suo dire troppo “losco”. La BDL ha ancorato, non ufficialmente, la lira col dollaro statunitense (1997) offrendo tassi di interesse incredibilmente alti (14%) diventando essa stessa una delle più importanti garanzie di stabilità per gli investitori internazionali.

I flussi finanziari dall’estero diretti alle banche libanesi sono solitamente utilizzati per la costruzione e l’acquisto di proprietà immobiliari che, insieme ai servizi, costituiscono di gran lunga il settore economico più importante del Paese: è ben nota la speculazione immobiliare proprio a Beirut. I prezzi degli immobili sono aumentati costantemente dalla fine della guerra civile, congelandosi solo temporaneamente durante le congiunture negative. Insieme alla valuta, gli aumenti dei prezzi sono il secondo pilastro della stabilità economica, garantendo entrate maggiori per le banche nazionali e, di conseguenza, aumentando i tassi di interesse per attirare investitori e mantenere a galla il sistema. I membri della diaspora libanese, più di 10 milioni in tutto il mondo (ossia quasi una volta e mezza la popolazione nazionale), sono stati la fonte più importante e stabile di afflussi finanziari. Gli investitori del Golfo erano quasi altrettanto importanti fino a quando le crescenti tensioni tra i paesi del GCC e l’Iran post-primavera araba, si sono riflesse negativamente sull’economia libanese, provocando un drastico calo degli investimenti nel Golfo.

Diviene così abbastanza chiaro il meccanismo che collega il potere politico a quello finanziario e come questi siano riusciti per oltre trent’anni a compensare le speculazioni interne, vitali per mantenere il controllo e il regime con le sue spaventose clientele, con la valuta proveniente dagli investimenti esteri. Dalla fine della guerra(1992), il numero di personale assunto stabilmente nel pubblico impiego (forze armate, istruzione, amministrazione, aziende statali, parastatali e affini) è passato da circa 75.000 alla cifra di 300.000, che su una popolazione di circa sei milioni vuol dire una capacità di coercizione e/o influenza politica diretta sul 5% della popolazione. Senza contare che la distribuzione geografica della spesa pubblica per il welfare sia, di fatto, articolata secondo criteri confessionali, conformemente all’appartenenza politica dei ministri di riferimento.[5]

L’unica cosa che la BDL non ha fatto è stata concedere prestiti agli imprenditori libanesi per creare industrie redditizie, sicché il Libano importa l’80% del fabbisogno interno. Il che implica anche un forte indebitamento, vista la bilancia import export tanto negativa, dal momento che senza reale produzione interna le entrate fiscali non compensano le uscite; per cui ad un deficit di bilancio ne subentrava un altro. La Banca ha coperto questi crescenti disavanzi pubblici stampando moneta e confidando sul flusso costante di investimenti. La lira non è pero ufficialmente legata al dollaro, quindi il tasso ufficiale della valuta locale rispetto al dollaro era assai diverso a quello usato per gli investimenti finanziari: ciò ha contribuito alla formazione del mercato nero del dollaro.

L’“ingegneria finanziaria” di Salame, come lui la chiamava, dipendeva disperatamente dai nuovi depositi per pagare gli interessi sui suoi precedenti debiti e promesse; praticamente uno schema Ponzi applicato all’economia politica di un’intera nazione. All’inizio del 2019, il debito ha assunto proporzioni tali che le entrate non hanno coperto il pagamento degli interessi ed il banco è saltato. Per cercare di tamponare un’emorragia mortale la BDL ha emesso un ordinanza che richiedeva a tutti gli uffici di trasferimento di denaro, come Western Union e Money Gram, di pagare solo in valuta libanese e non in dollari, seppure i trasferimenti erano espressamente denominati in dollari. Poi si è cercato di frenare la richiesta di dollari contanti restringendo i prelievi ai bancomat fino alla totale impossibilità di prelevare dollari.

La rivolta di ottobre è iniziata quando il governo ha tentato di tassare le chiamate Whatsapp ma dietro tutto questo c’era la consapevolezza da parte della popolazione di essere stata truffata per troppo tempo.[6] Il 9 marzo, per la prima volta nella sua storia, il governo libanese è andato in default per il rimborso del debito estero. Ma la BDL non rappresenta l’unico fallimento istituzionale dello Stato libanese. La politica delle speculazioni ha permesso a tutti i diversi gruppi religiosi di mettere le mani su interi settori statali: il settore elettrico, ad esempio, è gestito dal Free Patriotic Movement, ovvero il partito politico del presidente Michel Aoun (suo genero è stato nominato ministro dell’Energia appena ne hanno assunto il controllo). Il sistema di distribuzione elettrico è quindi divenuto in poco tempo un vero pandemonio o un altro bancomat se vogliamo: senza nessun investimento nel settore e con frequenti interruzioni di corrente.

J.R.

NOTE

  1. https://libcom.org/blog/lebanon-disaster-metaphor-modern-capitalism-21082020

  2. Lina Mounzer : The Economist https://www.economist.com/1843/2020/08/11/lebanon-a-country-in-free-fall

  3. Chloe Cornish – “La minaccia della fame si aggiunge al peso dell’aumento dei costi alimentari in Libano” : Financial Times 10 August 2020

  4. Lorenzo D’Angelo, in “Minerali Insanguinati” http://www.rivistamissioniconsolata.it/2015/07/01/minerali-insanguinati/

  5. https://www.forbes.com/sites/tatianakoffman/2020/07/09/lebanons-currency…

  6. Cfr.: https://www.leftcom.org/en/articles/2019-10-30/global-protests-the-relentless-capitalist-crisis-demands-the-overthrow-of-the

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