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Ci dissero ma cosa potremo fare …

Ci dissero ma cosa potremo fare …

Ci dissero ma cosa potremo fare
con gente dalla mente tanto confusa
e
che non avrà letto probabilmente
neppure il terzo libro del Capitale.

Dal canto “Siam del popolo gli arditi”

Prendo le mosse da un evento specifico che ritengo interessante sia per le sue caratteristiche sia perchè può essere di spunto ad alcune considerazioni di carattere più generale. Sabato 30 maggio, in 15 capoluoghi di regione, vi sono state partecipate manifestazioni delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo colpiti, dal punto di vista economico, in misura violentissima dagli effetti della pandemia e privi di adeguate tutele che chiedevano adeguate risorse a sostegno del reddito.

In particolare a Torino la piazza era affollata e, soprattutto, assai vivace e comunicativa, cosa per altro abbastanza prevedibile se si considera il tipo di lavoratori presenti. É scontato, quando ci si trova in situazioni di questo tipo, che le persone in piazza avessero orientamenti culturali e politici assolutamente disomogenei, che fossero accomunate solo da uno specifico obiettivo e che, rivendicandolo, si proponessero come movimento “trasversale”, termine che non mi piace nella misura in cui potrebbe alludere ad una certa qual spregiudicatezza nella ricerca di inerlocutori ma che esprime la natura del movimento per quello che è e non sulla base dei miei desideri.

Mentre ero in piazza mi è avvenuto di riflettere sul fatto che, di fronte ad un accadimento del genere, dal punto di vista di chi ritiene di avere una visione generale della vita e del mondo sono possibili – ovviamente semplifico molto – due approcci.

Un primo approccio porta alla valutazione che si tratta di un movimento parziale, limitato, privo di progetto politico e, presumibilmente, effimero. Per mia esperienza i critici critici di questo genere possono essere o portatori di una visione novecentesca che attribuisce ad una avanguardia politica la coscienza generale degli interessi di classe ed alla massa dei lavoratori, al massimo, una coscienza trade-unionista[1] o, per dirlo in italiano, sindacale in senso dispregiativo o, ed è tipico dell’intellettualità progressista e di sinistra oggi predominante, una mancanza di prospettiva generale, di coscienza ecologica, di attenzione alle questioni di genere e, più genericamente, di cultura. Gli uni e gli altri hanno in comune un forte e rivendicato autoapprezzamento, di regola senza molti fondamenti, accompagnato al contempo da una scarsa disponibilità ad investire passione, tempo ed energia nella lotta di classe nel suo effettivo manifestarsi.

Il secondo approccio porta, invece, all’apprezzamento dei processi di autorganizzazione sociale, della spontaneità[2] e la curiosità e volontà di comprensione rispetto a quanto sta avvenendo. In questa diversa prospettiva le lavoratrici ed i lavoratori non sono percepiti come una mera massa, come una quantità – il lavoro contro il capitale – ma come soggetti attivi che, con la loro azione – dove l’azione non prescinde mai dal pensiero – costruiscono relazioni modificano se stessi, producono organizzazione, creano nuove leadership. La stessa teoria critica che anima le minoranze che si vogliono rivoluzionarie non è, in questa visione pensata come un sapere gerarchicamente posto nei confronti dell’agire della classe ma. invece, come una relazione viva fra storia delle passate esperienze della classe, delle lotte, delle vittorie e delle sconfitte, dei molti progetti che hanno attraversato il movimento dei lavoratori ed il manifestarsi di situazioni nuove e di nuovi movimenti prodotti dalle contraddizioni che caratterizzano l’attuale ordine del mondo.

Proviamo ora a riproporre la stessa riflessione volgendola, nello specfico, a come immaginiamo la natura e lo sviluppo del sindacalismo di base.

Diamo per scontato che molti dei militanti che animano questa esperienza, soprattutto quelli della “prima generazione” che le hanno dato vita, hanno una formazione nelle molte correnti di azioni e di pensiero presenti nel movimento operaio e che portano inevitabilmente e giustamente nell’azione sindacale l’esigenza di una rottura radicale con l’esistente. Questa caratteristica può essere una ricchezza o un limite: dipende da come interagisce con le lotte e con l’organizzazione e dalle contingenze delle situazioni concrete.

In particolare il problema che si pone è la relazione fra lotte specifiche aziendali, categoriali, territoriali, su temi puntuali ed una prospettiva generale e, immediatamente, con la tensione all’unità della nostra classe al di là delle contingenze. Ora, è un fatto che l’unità della classe, tranne che nei manuali di marxismo su carta da pacchi, non è un “a priori”, non è data né potrebbe esserlo – compatibilmente con l’ordinato funzionamento del modo di produzione capitalistico e dell’ordinamento statale – ma è, contemporaneamente, un obiettivo e un percorso.

Tutto l’ordinario funzionamento dell’attuale sistema sociale produce, per certi versi spontaneamente e per altri per metodica iniziativa delle classi dominanti atomizzazione, segmentazione, strutturazione corporativa del proletariato. Inoltre le organizzazioni istituzionali del movimento dei lavoratori, sia partitiche sia sindacali, si sono sviluppate – dove questo processo è esso stesso condizione del loro sviluppo – assumendo questi caratteri della classe come intrascendibili. Basta a questo proposito riflettere sul fatto che la principale attività dei sindacati istituzionali è la “tutela” individuale dei loro associati, la difesa di rivendicazioni assolutamente compatibili col sistema dominante e che il loro principale obiettivo, assolutamente coerente a questa logica, è l’accesso a risorse funzionali allo sviluppo del proprio apparato.

Da questo quadro consegue il fatto che le mobilitazioni realmente esistenti dei lavoratori e delle lavoratrici raggiungono un livello adeguato di radicalità solo nei punti di crisi della macchina sociale dominante e, di contemporaneamente, dello stesso controllo sui lavoratori e le lavoratrici da parte delle organizzazioni istituzionali che pretedono di dirigerli e rappresentarli.

Se assumiamo quindi che questo dato di realtà non è il prodotto di una maledizione biblica ma è il contesto che abbiamo scelto di affrontare, ne consegue che le stesse forme di azione e di organizzazione funzionali allo sviluppo di un sindacato radicale ed antiburocratico non possono che prendere le mosse dallo stato dell’arte, non per adagiarvisi ma per operare nei fatti e non nelle dichiarazioni d’intenti al suo superamento. Dobbiamo, quindi, operare secondo due linee di azione:

La prima è un modello organizzativo tale da valorizzare appieno l’autonomia e l’autorganizzazione dei lavoratori, quindi un modello federale fortemente decentrato che metta al centro i collettivi delle lavoratrici e dei lavoratori e la promozione del conflitto e che sappia coordinare, e non è operazione semplice, le singole lotte;

la seconda liena d’azione è la capacità di tradurre questo percorso in una proposta politica generale, in una narrazione, in una cultura che faccia perno, contemporaneamente, sull’autonomia di classe e su una relazione efficace con i luoghi dell’elaborazione tecnica e scientifica che ci permettano una visione realistica del quadro produttivo e sociale e dei suoi punti di crisi.

Va a questo punto evitato un equivoco generato dal peso morto della cultura del movimento operaio istituzionale: un modello del genere non prevede meno organizzazione ma più organizzazione. Infatti un’organizzazione adeguata principalmente alle battaglie campali e frontali è molto più semplice di un’organizzazione in grado di affrontare efficacemente la guerra di guerriglia alla quale serve molto di più, per un verso, coordinamento e, per l’altro, una fitta rete di militanti capaci di elaborazione ed iniziativa. Non ci servono Yes man o Yes woman ma soggetti capaci di proposta e sperimentazione.

Va da sè che il “prezzo” da pagare nell’adottare una scelta di questo tipo è un elevato grado di pluralismo e di libertà, la capacità di fare sintesi non piegando le esperienze e le soggettività ad un progetto già dato ma facendone una condizione necessaria per l’elaborazione di una teoria critica adeguata ai tempi. È a questo livello – e solo a questo livello – che tensione utopica e rigore scientifico si rafforzano a vicenda e sono strumenti utili all’azione.[3]

NOTE

[1] “(….) converte la teoria della lotta di classe in una scienza puramente economica, pretende di stabilire leggi analoghe a quelle della fisica classica, deduce una sovrastruttura all’interno della quale ingloba, assieme ai fenomeni propriamente ideologici, il comportamento delle classi (….) il proletariato e la borghesia non sono che (…) personificazioni del lavoro salariato e del capitale. La loro lotta non è altro che il riflesso di un conflitto oggettivo tra l’impeto delle forze produttive e i rapporti di produzione in momenti storici dati. Poiché questo conflitto è il prodotto stesso dello sviluppo delle forze produttive, la storia viene a ridursi essenzialmente a questo sviluppo, trasformata implicitamente in un episodio particolare dell’evoluzione della natura. Se si toglie un ruolo alle classi, lo si sottrae anche agli uomini. Questa teoria s’interessa in un certo senso allo sviluppo del proletariato, ma ne considera solo il lato oggettivo: la sua estensione, densità e concentrazione; al massimo pone il proletariato in relazione con le grandi manifestazioni del movimento operaio. Il proletariato è trattato come una massa inconsapevole e indifferenziata, di cui si sorveglia l’evoluzione naturale. Gli episodi della lotta permanente del proletariato contro lo sfruttamento, le azioni rivoluzionarie e le molteplici espressioni ideologiche che li accompagnano non sono considerati componenti della storia reale della classe, ma elementi di supporto alla sua funzione economica (…)” (LEFORT, Claude, “L’esperienza proletaria” in Socialisme ou Barbarie, 1952).

[2] (…) ciò che il pseudo ‘teorico’ odia di più: che gli operai invece di aspettare, con una passività entusiasta, che egli venga a ‘organizzarli’, s’organizzano da soli in consigli operai. E come li organizza lui se gliene si dà l’occasione? Come lo hanno fatto durante i secoli le classi dominanti nelle fabbriche e negli eserciti. E non solo se e quando lui prende il potere, ma ancora prima: in un grande sindacato, per esempio, o in un ‘partito bolscevico’, nei quali le relazioni interne, con le loro strutture, il loro contenuto e la loro forma, riproducono semplicemente quelle della società capitalistica: gerarchia, divisione tra uno strato di dirigenti e una massa di esecutori, velo di pseudo ‘sapere’ gettato sul potere di una burocrazia che si coopta e si perpetua, ecc. – sia, la forma appropriata alla riproduzione e alla riproduzione dell’alienazione politica (e, di conseguenza, dell’alienazione globale). Se l’opposto della ‘spontaneità’, vale a dire dell’auto-attività e dell’auto-organizzazione, è l’etero-organizzazione – dei politici, dei ‘teorici’, dei ‘rivoluzionari professionisti’, ecc. – allora l’opposto della spontaneità è evidentemente la contro-rivoluzione, o la conservazione dell’ordine esistente. (CASTORIADIS, Cornelius, “La sorgente ungherese”, in Collegamenti, 6/7, 1979).

[3] Un’ipotesi quale quella formulata potrebbe apparire come una negazione del ruolo di una visione generale, di quella che, di norma, viene individuata come azione politica necessariamente diversa da quella sindacale. Questa, legittima, preoccupazione nasce però dalla non considerazione del fatto che le stesse culture politiche che attraversano la classe, in particolare nelle fasi di mobilitazione, sono un elemento del processo di unificazione e di organizzazione della classe stessa se non la consideriamo come una massa passiva ed incosciente. L’azione propriamente politica generale ha tutto da guadagnare da un rapporto vivo con le lotte ed i processi di autorganizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori i ed i movimenti sociali sui temi della libertà, della difesa dell’ambiente, della critica dell’attuale ordine del mondo. Ciò, va da sé, se si pone nella prospettiva del superamento delle gerarchie prodotte dall’attuale società e non come una sostituzione parziale o totale delle élites dominanti.

Cosimo Scarinzi

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