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L’autogestione come resistenza alla crisi

L’autogestione come resistenza alla crisi

Secondo le morali religiose, borghesi e stataliste (rosse, nere, bianche o di qualsiasi altro colore politico), il lavoro è indice di ordine, nobiltà, crescita e rispetto per se stess* e per gli altr*. Questi mascheramenti morali servono a coprire i meccanismi ripetitivi, conformisti e di disindividualizzazione del lavoro capitalistico. Non solo: si costringono gli individui ad accettare la divisione del lavoro. Come spiega Kropotkin:

La divisione del lavoro è l’uomo classificato, bollato, contrassegnato per tutta la sua vita, a far dei nodi in una manifattura o come sorvegliante in qualche industria, o come conduttore di una carriola nel tal sito della miniera ma senza avere alcun’idea di insieme di macchina, d’industria, di miniera, e perdendo per ciò stesso il gusto del lavoro e la capacità d’invenzione che, ai principii dell’industria moderna, avevano creato i meccanismi di cui a noi piace tanto vantarci con orgoglio.

Per rendere più accettabile – a volte anche appetibile – questa divisione si è fatto ricorso a tutta una serie di aspetti psicologici utilizzati nei posti di lavoro: l’uso di un sottofondo musicale, l’utilizzo di colori vivi e rilassanti, l’uso di profumi, la possibilità di portare i propri animali al lavoro, fino al dialogo alla pari – quasi familistico oseremmo dire! – con il padrone/i.

Grazie a questi aspetti, il sistema capitalistico plasma l’individuo, facendo dello sfruttamento un bisogno fondamentale e trasformando le attività creatrici, i rapporti sociali con gli/le altr* e l’avere una propria identità in semplici passatempi e fughe dalla routine lavorativa. Il lavoro così concepito diventa “attraente” e non più una pena; diventa piacevole ed erotico e non più costrittivo e castrante.

La lotta per smantellare il lavoro capitalistico ed approdare verso un lavoro autogestionario e volontario è una delle più grandi sfide del movimento anarchico. È bene precisare come le classi dominanti abbiano ampiamente manipolato l’autogestione per fini elettorali e/o economici. Dal Maggio del 1968 fino ai giorni nostri, partiti e sindacati hanno cavalcato l’onda dell’autogestione come “sistemazione” del sistema capitalistico (considerato ora alienante, ora settorializzato e precarizzato). Ma l’autogestione non è stata chiamata in causa solo per gli “spot” elettorali e sindacalisti: essa ha avuto un ruolo nei meccanismi di regolazione interna anche in alcuni Stati, come la Jugoslavia titina od il Venezuela chavista.

I regimi citati (uno a base comunista, l’altro democratico) sono degli esempi che ci fanno comprendere come l’autogestione sia stata ad uso e consumo delle classi dominanti, concedendo agli individui un’apparente e fallace indipendenza e libertà sociale.Non è forse questa “autogestione statale” una ripetizione degli schemi sociali, psicologici, culturali ed economici del lavoro capitalistico tout court?

Il lavoro autogestionario e volontario, per come è inteso in campo anarchico, non è un mezzo di ripristino borghese e burocratico dell’economia vigente, né una bandiera elettorale; esso ha lo scopo di distruggere i paradigmi su cui si basano oggigiorno i rapporti tra gli individui – ovvero su divisioni di classe, razza e genere – e spingere a rapporti mutuali e al lavoro creativo.

Se grazie al lavoro autogestionario e volontario si mette a nudo il lavoro capitalistico per quello che è in realtà (disumano e alienante), non dobbiamo dimenticare come l’applicazione di esso in un contesto come quello odierno sia subordinata al mercato concorrenziale capitalistico.

A questo punto sorgono due domande: come si sviluppano (o continuano, qualora siano già avviate) delle relazioni solidali ed eque all’interno delle aziende autogestite che devono competere con il mercato capitalistico? Può esserci un altro mercato o scambio non basato sulla concorrenza ma sulla condivisione e reciprocità?

I tentativi di risposta a queste due domande sono arrivate dai/dalle disoccupat* e dai lavoratori e dalle lavoratrici argentin* attraverso le Asambleas Barriales e il recupero delle fabbriche abbandonate dalla borghesia. Per capire appieno ciò, dobbiamo fare una piccola digressione storica dei governi Alfonsin e Menem.

L’Argentina: dall’alfonsismo alla resistenza

Sono passati due anni dalla nomina di Alfonsin, due anni dalla instaurazione della “democrazia”. Molta gente vedeva nella “democrazia” la soluzione di tutti i problemi. Si credeva che i salari sarebbero aumentati, che sarebbe stato smantellato l’apparato repressivo, che si sarebbe goduto delle libertà pubbliche. Oggi vediamo che i salari dei lavoratori non solo non sono aumentati, ma sono diminuiti, anche la disoccupazione continua a crescere. Il governo radicale ama farci vedere che la drastica diminuzione dell’inflazione che si è prodotta con il piano “australe” ha avuto un grande esito. Questo è falso poichè i prezzi dei prodotti e le tasse sono continuati a salire, mentre i salari sono stati bloccati sin dal mese di giugno del 1985.”

Così iniziava l’articolo “Argentina: democrazia e repressione. L’inganno della transizione democratica. L’epurazione che non c’è stata. L’ambiguità del governo Alfonsin” apparso su Umanità Nova il 27 Aprile-1 Maggio 1986. Lo spaccato tracciato all’epoca dimostrava come il primo governo democratico in Argentina, dopo sette anni di “Proceso de Reorganización Nacional”,[1] intendesse stabilizzare l’economia tramite la diminuzione dell’inflazione ed il ripianamento dei debiti accumulatisi fin dall’inizio degli anni ’80. Fu così che Alfonsin e la giunta “democratica” argentina inaugurarono un piano di stabilizzazione monetaria (chiamato “Plan Austral”), diminuendo i salari ed aumentando il prezzo dei servizi.

Complice la stagnazione economica nel paese sudamericano, la risposta a queste misure economiche nei mercati internazionali venne accolto in modo negativo, facendo schizzare l’inflazione a cifre astronomiche.[2]

Se le proteste fino a quel momento storico (1983-1988) erano circoscritte, tra maggio e giugno 1989 aumentarono le proteste e vi furono numerosi casi di saccheggi dei supermercati. Alfonsin, per impedire una destabilizzazione del regime democratico,[3] instaurò lo Stato di Emergenza contro i rivoltosi ed indisse nuove elezioni presidenziali.

Con la vittoria di Carlos Saùl Menem alle elezioni presidenziali del 1989, vennero introdotte una serie di riforme neoliberiste come la Ley n. 23.696 o “Ley de Reforma del Estado”[4] e la Ley n. 23.697 o “Ley de emergencia economica”[5] che, nel giro di pochi anni, portarono alla privatizzazione di gas, petrolio, elettricità, acqua e dei servizi pubblici e sociali.

Le privatizzazioni messe in campo da Menem hanno portato al “controllo totale della società da parte dei grandi monopoli economici che hanno realizzato, dal suo avvento, la più grande concentrazione e centralizzazione capitalistica della storica economica argentina.”[6] La retorica menemista, infarcita di personalismo e decisionismo, aveva ottenuto come risultato quello di rinegoziare il debito con il Fondo Monetario Internazionale e trasformare l’Argentina in una enorme “Società per Azioni” con il beneplacito delle dirigenze sindacali (prima fra tutte la Confederación General del Trabajo de la República Argentina (CGT)).[7]

Tuttavia le proteste e le rivolte contro i licenziamenti e la povertà si moltiplicarono: dal Santiagueñazo del 1993 alle manifestazioni del 1996-1997. A partire da queste situazioni sorsero i movimenti dei piqueteros e dei cortador de rutas che, in pochi anni, riuscirono ad organizzare disocuppat* ed operai* contro la repressione economica e poliziesca.

La crescita economica, dei prestiti del FMI e della spesa pubblica, portarono l’Argentina di Menem ad una sorta di “miracolo economico.” La crisi del Sud-Est asiatico del 1997 coinvolse però le economie mondiali, specie quelle sudamericane. Le giunte di Menem prima e di De La Rua dopo mantennero il cambio fisso tra peso e dollaro nonostante l’alto debito pubblico e la diminuzione del PIL. I prestiti del FMI e la dollarizzazione[8] spinsero la giunta di De La Rua ad aumentare esponenzialmente le tasse e a tagliare i salari – specie dei dipendenti pubblici. Una situazione del genere fece schizzare la disoccupazione e l’inflazione alle stelle, mentre la borghesia trasferì i propri capitali all’estero.

Il punto di non ritorno si ebbe a Dicembre del 2001: con il limite di prelievo bancario e congelamento dei conti correnti, iniziarono le proteste. La risposta della giunta De La Rua fu la repressione con uccisioni, arresti e torture all’interno dei commissariati.[9] D’altro canto, i/le disoccupat* e i lavoratori e le lavoratrici argentin*, durante questo periodo, cominciarono a riunirsi formando le prime Asambleas Barriales. Grazie ad esse, si cominciò a parlare di gestione sociale, politica ed economica fuori dagli schemi neoliberisti. Come riportato nell’articolo “Che se ne vadano tutti!”Argentina: autogestione di fabbriche e quartieri”:[10]

Mense popolari, teatri, dibattiti, mercati dei disoccupati, e molte altre sono le attività di questi spazi, parenti stretti dei nostri centri sociali autogestiti. Molti sono già in pericolo di sgombero. Anche qua non si contano ormai più le minacce ricevute dagli/lle assembleisti/e. E l’autogestione è una splendida realtà anche in un’altra lotta importantissima che si sta portando avanti da un anno: le fabbriche ed imprese occupate ed autogestite dai lavoratori.

Todo bajo control obrero” è il motto della Brukman, della Zanon, della Grissinopolis, della Chilaver, della clinica Junin, del supermercato el Tigre e di ormai moltissime altre imprese recuperate dai lavoratori. Fabbriche svendute, in procinto di chiudere, svuotate dei macchinari, abbandonate da padroni che si danno alla macchia per non affrontare i creditori e i diritti degli/lle operai/e, che vengono occupate da lavoratori e lavoratrici che coerenti col desiderio di costruire qualcosa di radicalmente nuovo, oltre che salvare i loro posti di lavoro, coscientemente hanno deciso di non ricreare lo stesso sistema verticale che li opprimeva: niente capi né direttori, ora é amministrazione operaia autogestita. E anche qui la repressione si fa sentire: innumerevoli tentativi di sgombero, a cui si è finora resistito con l’appoggio attivo dei disoccupati (che stanno cominciando ad essere integrati nelle fabbriche, appena possibile) e delle assemblee popolari […] È stato costituito un fondo di solidarietà nazionale con lo scopo di aiutare gli operai che già hanno occupato e quelli che intendono farlo”.

L’avvio delle autogestioni dei quartieri e delle fabbriche, ha portato ad un nuovo discorso sulle relazioni sociali, politiche ed economiche all’interno delle vite degli/delle argentin* che, per decenni, erano stat* vessat* dai regimi dittatoriali e democratici.

Sofia Bolten

BIBLIOGRAFIA

Kropotkin Petr, “La conquista del pane”, Bologna, Libreria internazionale d’avanguardia, 1948, XII+173 p.

Kropotkin Petr, “La morale anarchica”, Milano, Casa Editrice Sociale, 1921, 60 p.

Berneri Camillo, “Il lavoro attraente”, Ginevra, Biblioteca di cultura libertaria, 1938, 40 p.

Fromm Erich, “L’arte di amare”, Milano, Oscar Mondadori, 2002, 166 p.

Fromm Erich, “Fuga dalla libertà”, Milano, Edizioni di Comunità, 1972, 255 p.

Gruppo di ricerche sull’autogestione, “Autogestione. Teorie, Interpretazioni, Realizzazioni”, Catania, 1974, 29 p.

Noir et Rouge, “Lo Stato, la rivoluzione, l’autogestione”, Catania, Edizioni La Fiaccola, 1974, 190 p.

Sachs Jeffrey D., “Developing country debt and economic performance. Country studies-Argentina, Bolivia, Brazil, Mexico”, Volume 2, Chicago, The University of Chicago Press, 1990, X+565 p.

Andrés Ruggeri, “Reflexiones sobre la autogestión en las empresas recuperadas argentinas”, pubblicato su “Estudios. Revista de Pensamiento Libertario”, nº 1, 2011, pagg. 60-79

NOTE

[1] Il “Proceso de Reorganización Nacional” (abbreviato come PRN) venne utilizzata da Jorge Rafael Videla durante il suo primo messaggio da presidente e dittatore militare della Repubblica Argentina il 26 Marzo 1976. L’instaurazione della dittatura militare di Videla e dei suoi futuri successori (Viola e Galtieri) pose l’Argentina in una morsa fortemente repressiva e violenta a livello sociale ed economico. Fonte: “Mensaje presidenciales. Proceso de reorganizacion nacional. 24 de Marzo de 1976”, Buenos Aires, 15 Febbraio 1977, pagg. 7-15

[2] Vedasi la tabella al link: https://tradingeconomics.com/argentina/inflation-cpi

[3] Il timore di Alfonsin e della sua giunta era dovuto alle sollevazioni militari come quelle dei carapintadas tra il 1987 e il 1988. Le motivazioni di queste sollevazioni erano da ricercare nei vari processi sui crimini contro l’umanità avvenuti durante la dittatura militare. I risultati ottenuti dai carapintadas fu la creazione della “Ley de obediencia debida” n. 23.521 con la quale si sollevavano le responsabilità delle forze armate durante il periodo della dittatura militare. Link: http://servicios.infoleg.gob.ar/infolegInternet/anexos/20000-24999/21746/norma.htm

[4] Con questa legge si avviava alla privatizzazione di un gran numero di società statali e alla fusione e dissoluzione di vari enti pubblici. Link: http://servicios.infoleg.gob.ar/infolegInternet/anexos/0-4999/98/norma.htm

[5] Con questa legge venivano definite le nuove forme di trasferimento di risorse verso la sfera economica; ciò comportava la liberalizzazione di alcuni mercati, la rimozione delle barriere tariffarie e para-tariffarie, il consolidamento di molteplici strutture oligopolistiche, ecc. Link: http://servicios.infoleg.gob.ar/infolegInternet/anexos/0-4999/15/texact.htm

[6]Tra cesarismo, corruzione e cretinismo parlamentare democratico”, Umanità Nova del 5 Dicembre 1993.

[7]Argentina: lotte operaie contro demagogia borghese”, in Il comunista. Organo del partito comunista internazionale del Maggio-Giugno 1990

[8] Con il termine dollarizzazione ci si riferisce all’utilizzo di una valuta straniera al posto della moneta nazionale.

[9] “Una rivolta di popolo. Cronaca delle giornate di dicembre in Argentina”, in Umanità Nov del 3 febbraio 2002

[10] Umanità Nova del 10 novembre 2002

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