La ricerca di terre disponibili è diventata, a partire dal ventunesimo secolo, uno delle necessità imprescindibile del ciclo economico mondiale. Il possesso delle risorse naturali è sempre state uno dei motori della competizione globale, ma negli ultimi due decenni si presenta con caratteristiche del tutto nuove rispetto al “tradizionale colonialismo”. Tale fenomeno viene etichettato con il termine Land Grabbing o più semplicemente “accaparramento di terra”. Gli elementi di novità sono riconducibili sostanzialmente a due aspetti la crisi finanziaria e la crisi energetica, fattori in stretta connessione l’uno con l’altro. Prima di analizzare singolarmente le due cause del fenomeno occorre darne una dimensione e tratteggiare quali sono gli attori del processo. Secondo la World Bank solo tra il 2008 ed il 2009 sarebbero stati affittati o ceduti circa 56 milioni di ettari di terra coltivabile, quasi il doppio del territorio italiano (30,1 milioni di ettari). La stima di Land Matrix ( il più accreditato osservatorio indipendente che raccoglie e monitora da tempo gli investimenti nell’agro business) indica già nel 2012 ben 227 milioni di ettari oggetto di transazione. Gli “investitori” principali si individuano nei seguenti paesi Usa (per 10,1 milioni di ettari), Malesia (per 4,1) Singapore (3,2), Cina (3,1), Brasile (2,4), Emirati Arabi (2,3), Regno Unito (2,1), India ( 2,1), Olanda (1,8), Arabia saudita (1,6). Questi numeri ci suggeriscono una osservazione importante che fa del Land Grabbing un fenomeno del tutto nuovo rispetto al tradizionale colonialismo dei secoli precedenti. Si è spostato l’asse Nord (ricco) Sud (povero) ora il percorso è in orizzontale. I paesi “ in vendita” (Target Countries) sono in gran parte africani Repubblica Democratica Del Congo (per 7,1 milioni di ettari di superficie venduta) Sud Sudan (2,6mln), Mozambico (2,5mln), Congo (2,3mln), Russia (2,2mln), Liberia (1,8mln). Le compagnie private rappresentano la categoria di acquirenti più attive. Gli investimenti sono regolamentati attraverso contratti di leasing, la cui durata può variare da 30 a 99 anni, di cessione od uso della terra. Nella generalità i territori sono allocati da un governo centrale ad una multinazionale estera. Analizziamo le due principali cause del land Grabbing prendendo ora in considerazione la crisi finanziaria. In un quadro di deterioramento dei classici asset finanziari (investimenti azionari od obbligazionari), le cosiddette commodity ( beni materiali), soprattutto quelle agricole, rappresentano da circa un ventennio una sponda più sicura rispetto all’investimento in titoli. Nel 2007 i beni alimentari in termini di remunerazione hanno superato altri beni, come il petrolio e il metallo. Due fattori sono stati decisivi Il prezzo della terra estremamente basso e i prezzi alimentari in forte rialzo determinato da un nuovo ed inatteso fenomeno la finanziarizzazzione della terra. La borsa di Chicago, la principale piazza mondiale nelle transazioni agricole, ha conseguito un implemento dei contratti del 65%.. Le risorse per l’acquisto della terra provengono in gran parte dai fondi di investimenti ( le casseforti di liquidità a livello globale delle quali i fondi pensioni rappresentano una parte significativa) attraverso lo strumento tipico della speculazione finanziaria i derivati o futures. La spinta alla finanziarizzazione della terra è certificata dal fatto che solo il 2% dei contratti dei futures nell’acquisto di terra sono legati al reale trasferimento di beni fisici. Nel periodo 2002-2008 il valore dei derivati nel campo alimentare si è incrementato di circa 20 volte raggiungendo quota 13.000 miliardi di dollari. La partita esclusivamente finanziaria ha fatto sì che sono mutati i soggetti del mercato alimentare. infatti il mercato delle commody futures è stato controllato sin dall’inizio da tre grandi banche, la Goldman Sachs, la Morgan Stanley, la JP Morgan. In conclusione si è creata una borsa fittizia dei beni alimentari il cui prezzo non è più determinato dalla fisica disponibilità dei beni e dalla richiesta dei consumatori ma solo dai profitti duella speculazione. Per rimarcare l’aspetto speculativo totalmente avulso delle logiche di investimento produttivo, facciamo notare, secondo uno studio della banca Mondiale, che su 56 milioni di ettari oggetto del land grabbing l’80% è rimasto inutilizzato. Il quadro non sarebbe completo se non si prendesse in considerazione la crisi energetica che ha inevitabilmente spinto per la ricerca di energia alternativa rispetto ai tradizionali combustibili fossili. Ricordiamo che l’Unione Europea ha posto come obiettivo energetico che entro il 2020 i carburanti devono derivare da risorse rinnovabili per una quota di ameno il 10%. La risposta è arrivata dal settore agricolo attraverso i biocarburanti, elemento del tutto nuovo rispetto al passato che ha contribuito in maniera decisiva alla corsa all’“accaparramento della terra”. Infatti solo il 7% delle terre interessate dal Land Grabbing sono destinati a culture alimentari, mentre il 62% del totale è destinato ai biocombustibili, il 31% ad uso flessibile multiuso. L’Africa SubSahariana è la regione dove si registrano i maggiori investimenti nel campo bioenergetico. La banca Mondiale ha stimato che il 33% dei progetti presi in considerazione per la zona SubSahariana riguardavano investimenti agricoli per la produzione di biocarburanti. Il Centre for International research ha rilevato che in tale regione sono stati realizzati 109 progetti di biofuel da parte di investitori nordamericani ed europei per un totale di 18,1 milioni di ettari (oltre la metà del suolo dell’Italia). Nel 2012 la quota complessiva destinata alla produzione di biocarburanti si attestava sui 78.000 KM quadrati , in pratica l’intera estensione di Belgio ed Olanda. Si è calcolato che tale superficie se fosse stata coltivata a grano o mais avrebbe permesso il sostentamento di circa 127milioni di persone. Si stima che, salvo correzioni di rotta nella politica di produzione dei biocarburanti, nel 2030 quasi 600.000Km quadrati di terra potrebbero essere destinati alla produzione di biocarburanti , un area pari alla Francia. A detta dell’International Energy Agency (IEA) gli ettari destinati a bio carburanti sono circa 30 milioni. Le stime sul consumo di biocarburante per il 2040 attestano in 100 milioni ( tre volte l’Italia) gli ettari di terra necessari per soddisfare le necessità di biocarburanti. Ciò si tradurrà in un incremento del 333% della terra oggi impiegato per questo specifico scopo. Detta in altra modo senza l’utilizzo di biocarburanti, tra il 2000 ed il 20020 si avrebbe a disposizione per l’alimentazione umana 90 milioni di ettari. Un ruolo sempre più importante soprattutto nel continente africano sta assumendo la coltivazione della Jatropha Curcas sono circa 5,5 i milioni di ettari coltivati soprattutto nell’East Africa Etiopia, Mozambico, Tanzania. La prova evidente di quanto gli eco carburanti abbiano un peso economico rilevante è dato dalle dimensione delle lobby dell’industria europea di riferimento. Oxfam, la confederazione internazionale delle organizzazioni non profit, stima che nel 2015 gli attori coinvolti nell’intera filiera, dai coltivatori della materia prima ai produttori, hanno speso circa 44,1 milioni di Euro ed ingaggiato quasi seicento persone per svolgere attività di lobbing presso l’Unione Europea, ponendo la lobby dei biocarburanti sullo stesso livello della lobby del tabacco. A partire dal 2009 il Parlamento Europeo ed i governi nazionali, grazie anche alle pressioni delle dell’industria degli eco combustibili hanno concordato l’introduzione di un obiettivo vincolante; entro il 2020, del 10% dei trasporti si avvarranno del
bio fuel. I ritorni economici sono stati immediati e conseguenti considerato che la produzione e consumo di bio energia si è incrementa dai 1,5milioni di tonnellata del 2005 ai 12 milioni di tonnellate del 2018 con l’obbiettivo di circa 14 milioni di tonnellate per il 2020. In Tanzania tra il 2005 ed il 2008 circa quattro milioni di ettari ( circa la stessa superficie dell’Olanda) sono stati destinati a progetti commerciali relativi agli eco combustibili. La società BioShape Holding BV, con sede in Olanda, ha acquisito tramite una succursale tanzana 34mila ettari di terra nel distretto meridionale di Kilwa per la produzione di biodisel tramite la produzione della jatropha. La terra apparteneva a quattro villaggi Mavuji, Migeregere, Nainokwe e Liwiti. Gli abitanti diedero il loro assenso ma fu a loro taciuti le dimensioni dell’accordo in particolare il confine e l’estensione totale della terra ceduta e soprattutto il fatto che il controllo della terra sarebbe stato a loro sottratto per essere trasferito al governo centrale il quale lo avrebbe poi successivamente assegnato alla società. In tal modo fu tolto alle comunità il diritto consuetudinario perpetuo all’uso della terra senza il loro preventivo consenso e senza un risarcimento adeguato. In tale contesto si registra anche un fenomeno del tutto nuovo nell’utilizzo della terra ovvero il flex-crops ed il multiple uses. Tale tecniche permettono un uso ambivalente delle coltivazioni sia per produzione di cibo che per altri scopi specie bio carburanti. Ad esempio la coltivazione della canna da zucchero permette al produttore di destinare il prodotto sia al consumo alimentare che al mercato energetico in relazione alla fluttuazione dei prezzi dei due settori. In sintesi si ha un uso del prodotto che ancora una volta risponde a criteri “finanziari” e non ad altri scopi. La produzione di “energia verde” contribuisce all’inquinamento atmosferico. I biocarburanti da materia prima alimentare emettono in media oltre il 50% di gas serra in più rispetto ai combustibili fossili. Il biodisel da olio da palma emette il triplo di CO2 rispetto ai diesel da materia fossile. Il biodisel ricavato dai semi di colza ed il bioetanolo ottenuto dall’orzo emettono una quantità di CO2 pari a circa il 20% in più della benzina, così come il biofuel da semi di girasole e l’etanolo estratto dal grano sono all’incirca altrettanto inquinanti del combustibile fossile. Uno dei fattori che hanno contribuito al consolidarsi del land Grabbing è quello del marcato dei crediti in carbonio. Nel quadro dell’accordo di Kyoto i paesi industrializzati si sono impegnati a contenere le immissioni gas ad effetto serra. In tale contesto i paesi ricevono crediti di emissione se a loro volta si impegnano nei progetti volti alla riduzione delle emissioni nei paesi in via di sviluppo. Tale meccanismo ha indotto le imprese internazionali ad acquisire il controllo di foreste o terreni disboscati per la riforestazione. Il tutto è regolato da un programma Nazioni Unite denominato REDD (reducing Emission From deforestation and forest Degradation) . Di fatto si tratta uno schema di compensazione dei mercati del carbonio e come tale produce crediti in carbonio. Le quote sono rappresentate da progetti e programmi che hanno l’obiettivo di conservare aree al altro stock di carbonio. Ciò permette di creare crediti di carbonio che possono essere utilizzati da paesi ed imprese per raggiungere i loro obiettivo di risparmio per le emissioni o possono essere utilizzati nella commercializzazione nei mercati finanziari del carbonio. In altre parole inquino qui perché sono stato ecologicamente corretto altrove. Possiamo affermare che il Land Grabbing costituisce un fenomeno di accentramento della produzione terriera e degli spazi agricoli nelle mani di poche imprese mosse sopratutto da interessi finanziari che nulla hanno a spartire con l’alimentazione del pianeta. Tali pratiche stanno contribuendo, come vedremo nel prossimo articolo nel quale ci soffermeremo sulle conseguenze sociali e di genere del Land Grabbing, ad annullare quelle pratiche comunitarie agricole che hanno permesso quanto meno la sussistenza di centinai di milioni di contadini e la salvaguardia di un ecosistema del tutto sostenibile per le esigenze dei locali. Emigrazione, inquinamento, concentrazione della terra e delle ricchezze nelle mani di un numero di soggetti sempre più ristretto ed un modello di consumo sempre più illogico sono le inevitabile conseguenze.
Daniele Ratti