Scorrendo pigramente la home di Facebook sono incappata nell’anteprima di un articolo che titolava l’approvazione della castrazione chimica in Pakistan per reati di stupro.
Numerosissimi i commenti, di vario genere, che diramavano il discorso su strade anche molto diverse; dal confronto tra le società islamica e cristiana a quello tra società democratiche, non democratiche e anche pseudo o sedicenti democratiche.
Il confronto tra la condizione dei diritti delle donne nelle diverse società, società categorizzate per punti cardinali, prodotto interno lordo procapite, relazione statistica e interpersonale tra credenti e laici, testi sacri di riferimento, pigmentazione dell’epidermide, e così via.
Il tutto passando anche attraverso esternazioni che tradivano malcelati conflitti interiori ad albergare in quelli che avrebbero voluto pur plaudire, non fosse che a priori, al Pakistan che è a sud/est e musulmano non si plaude. Pertanto, di contrappunto al favore di talune donne si ribatteva con reprimende poco prolisse e molto banali, come la facile e quindi anche inflazionata “allora vacci a vivere va!”. Frase con cui evidentemente si pensa di vincere facile non soltanto il gioco dell’ottenere ragione su una donna che contraddice sentenze ignoranti sui precetti dell’Islam -anche se non era esattamente questo il caso-, ma anche quello di derubricare ogni sorta di attestazione femminile di consenso a qualsivoglia operato di realtà musulmane -ed era in parte questo il caso-, e soprattutto -ed era proprio questo il caso- vincere facile il gioco del dividere il mondo in amici e nemici e fatto questo, non avallare mai qualunque cosa faccia il nemico, soprattutto se avresti voluto farla tu stesso -o un amico- ma il nemico l’ha fatta prima. Tanto per confermare la semplicioneria dell’approccio a qualsivoglia argomento metta in relazione aspetti socioculturali e geopolitici.
Alcuni commenti più sottili in risposta a chi con qualità variabile dell’eloquio non solo plaudeva, ma rilanciava figurando e auspicando eunuchi, lobotomizzati, elettroshoccati, o perfino, individui più o meno fantasiosamente ammazzati, dibattevano sulla sostanziale natura della violenza sulle donne, sul suo essere questione non sessuale ma di potere, uno strumento di controllo, prevaricazione e possesso.
Ovviamente i commenti di questo tipo erano di donne, e sicuramente di donne non digiune dei postulati del femminismo. Commenti più o meno brevi che pervenivano all’affermazione non nuova -e con cui indubbiamente mi trovo d’accordo- che dunque quella medica, fisica o chimica, non potrà mai essere la soluzione o la cura, perché il problema, o la malattia, non è biologica ma intellettuale.
Una faccenda culturale.
Poi d’improvviso un commento primigenio, un intervento che non rispondeva ad altri e non li ricalcava, ma che principiava l’avvento di un approccio nuovo. Diceva così: “potete sbizzarrirvi con le pene che vi pare, le vittime restano vittime”!
Un’arguta sententia!
Certamente una posizione in accordo con la posizione femminista di cui sopra, a cui però non faceva il benché minimo riferimento, guadagnando in sole dodici parole il merito di condensare il senso di pile e pile di studi, di libri, e di lotte.
La soluzione culturale è l’unica possibile perché è l’unica in grado di agire per scongiurare che si dia la vittima, così che un giorno, magari, non se ne abbiano più, perché quando ormai la vittima si è data, abbiamo già perso!
Oggi “si perde” ancora troppo spesso e su molti fronti. Di vittime sono piene le case, le piazze, le chiese, gli uffici, le fabbriche, i campi, le scuole, le feste, le spiagge.
E si perde la vita!
Allora, senz’altro dobbiamo discutere anche delle sorti dei colpevoli, ma è un altro discorso. Un discorso che per altro mi interessa molto e faccio spesso, con i colpevoli pure.
Un discorso urgente e che quasi sempre dagli “innocenti” è fatto davvero male!
Abbiamo quindi due discorsi; connettiamoli perché certamente è in qualche modo spontaneo, ma non confondiamoli!
La pena inflitta al colpevole nulla rende alla vittima, non cancella gli effetti di ciò che comporta il subire, e men che meno restituisce la vita. La pena che si infligge al colpevole corre su un altro binario, un tracciato che molto spesso, peraltro, non so quanto davvero percorra il solco della giustizia. A meno che una società “giusta” non sia semplicisticamente quella in cui chi a fatto soffrire, a sua volta soffra. Una società che quindi, in fin dei conti, data la sofferenza di uno o tanti, ne sappia produrre una o molte di più, una società capace insomma di costituirsi come moltiplicatore e amplificatore della sofferenza.
E non che voglia dichiarare di muovere verso la prospettiva della cosiddetta “impunità”, come non voglio negare che possa dare una certa “soddisfazione” sapere che chi ha sbagliato “paga”. Non voglio neanche aprire il discorso potenzialmente infinito sulla “finalità” della pena, e men che meno l’amaro discorso su come viene normalmente operata la millantata “rieducazione”.
Ho soltanto voluto rilanciare quelle poche e sagge parole, fare in modo che potessero essere lette da altri e altri ancora, da tutti quelli che, indisponibili a dedicare il tempo di lunghe letture e riflessioni a quella che credono essere apologia dei “cattivi”, potranno invece, grazie alla limpidezza inequivocabile della brevitas, accogliere importanti ragioni.
Nota della redazione: in questo periodo di pausa del giornale continueremo a pubblicare interventi e articoli che giungono in redazione e che ci paiono utili per il dibattito.