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Fascismo e lotta antifascista

Fascismo e lotta antifascista

«Il fascismo che muore di morte naturale è la malattia che cessa col morire del malato. È la restituzione di un Italia dissanguata e morente. In una Italia ipotecata dal capitalismo nord-americano, con un Europa infeudata alla banca e alla grande industria, la rivoluzione è colma di problemi immani, di difficoltà oltremodo complesse e gravi. Il tempo che passa, dunque, avvicina alla caduta del fascismo, per quella legge storica che rende mortali i regimi tutti, anche i più solidi, ma allontana e diminuisce le possibilità di sviluppo della rivoluzione»

BERNERI, Camillo, “Scuotiamoci dal tedio di un attesa imbelle, indegna di noi. Appello agli anarchici.”, in Il Martello (New York), anno XIV, n. 19 dell’8/6/1929.

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Il fascismo non morì di morte naturale come temeva, nel 1929, “l’anarchico più espulso d’Europa”. Il fascismo fu sconfitto dalla convergenza militare tra le formazioni partigiane e le forze armate degli USA: tuttavia il trapasso di regime non fu poi molto lontano da quello temuto da Berneri.

Fin dall’8 settembre 1943, comunisti e socialisti guidarono il movimento operaio al compromesso, non solo con tutte quelle forze conservatrici che avevano accompagnato il fascismo nella sua ascesa ma anche con i fascisti convertiti dell’ultim’ora. Tra questi ultimi spiccava la figura del Generale Badoglio che divenne capo dei primi due governi “antifascisti”.

Badoglio, capo delle forze armate durante il ventennio, nel 1930, da governatore unico della Tripolitiania, deportò 100mila persone e le rinchiuse in 13 campi di concentramento della regione centrale della Libia, dopo una marcia forzata di oltre mille chilometri nel deserto. Lo stesso Badoglio nel 1935 fu comandante del corpo di spedizione nella spedizione coloniale in Etiopia e poiché “anche in quel frangente d’onor si ricoprì”, nel maggio 1936, conquistata Addis Abeba, proclamato l’Impero Fascista, veniva nominato viceré direttamente dal Duce.

Di questo vero e proprio criminale di guerra Palmiro Togliatti fu, nel ’44, vice-presidente del consiglio dei ministri. Il “mitico” capo del PCI fu poi anche Ministro di Grazia e Giustizia (Governo Parri e primo Governo De Gasperi) e da questa posizione partorì la famosa Amnistia ai Fascisti, con Decreto Presidenziale del 22 giugno del 1946. Grazie a questa amnistia vi fu una certa continuità con il passato, coi fascisti ben saldi nella polizia, nell’esercito e nella burocrazia, mentre grazie alla complessiva politica di disarmo politico-militare del movimento operaio, si ebbe quella “Italia ipotecata dal capitalismo nord-americano, con un Europa infeudata alla banca e alla grande industria”.

L’articolo di Camillo Berneri che qui proponiamo è uno scritto rappresentativo dell’approccio berneriano al fascismo ed alla lotta antifascista, in cui si intreccia l’analisi del processo storico che aveva portato all’affermazione del regime fascista con la polemica contingente all’interno degli esuli antifascisti in Francia.

Berneri vede all’orizzonte la possibilità di un trapasso dal regime fascista, segnato da una sostanziale continuità sociale e politica, frutto del connubio tra settori del grande capitale con l’antifascismo socialdemocratico, con quello borghese-moderato e con il fascismo dissidente. A questa prospettiva conservatrice egli contrappone una rivoluzione antifascista che liquidi i gruppi borghesi dominanti, gli alti comandi militari e di polizia e tutti quei ceti reazionari che erano stati alla base dell’ascesa mussoliniana.

Tipiche sono le sue formulazioni volte ad un realismo programmatico dell’anarchismo: l’affermazione di “un nuovo ordine autonomista-federalista”, di “un economia passibile di realizzazioni comuniste” (gradualismo economico), “riformando profondamente l’ossatura ed il funzionamento dell’amministrazione” (attenzione al problema amministrativo).

Del Berneri dell’esilio sono stati molto ben documentati sia la sua aspra polemica contro lo stalinismo ed il PCI, sia il suo ruolo di rimo piano nell’alleanza che gli anarchici strinsero di fatto con Giustizia e Libertà nel ’35-’36. Si tratta senza ombra di dubbio di aspetti centrali del personaggio berneriano di quegli anni, che però hanno finito per mettere in ombra altri non secondari.

Si corre talvolta il rischio, anche sulla base del suo noto rapporto intellettuale con Salvemini, che la linea politica tenuta da Berneri nel campo antifascista ne esca radicalmente deformata e che il Nostro venga dipinto come uno che lavorava per ricollocare l’anarchismo italiano nell’ambito di una sinistra interclassista. Assolutamente errato.

In realtà, nel corso degli anni ’30 la polemica berneriana contro l’antifascismo socialdemocratico, moderato o democratico-borghese è stata ancor più forte della sua polemica contro lo stalinismo ed il Partito Comunista. Allo stesso modo, il fatto che Berneri si sia profuso ampiamente in un’analisi culturale e morale del fascismo, con suggestivi affreschi sulla natura più intima del totalitarismo mussoliniano, non deve far dimenticare che l’analisi berneriana del fascismo fu essenzialmente un’analisi di classe.

L’articolo qui riproposto è solo uno dei tanti scritti che testimonia ciò che abbiamo appena detto. Tuttavia, dal punto di vista storico, la cosa più significativa di questo articolo è forse quel suo riferire le suggestive “voci”, circolanti allora “nei così detti ambienti politici”, in cui “si parla di rimpasti ministeriali e si fa il nome del generale Badoglio”: già 13 anni prima dell’8 settembre, Berneri aveva già individuato l’uomo che poteva guidare un trapasso gattopardesco dal fascismo alla democrazia!

Camillo Berneri. Un Aborto Possibile

La situazione della dittatura fascista in Italia non è buona. Tutto un complesso di fatti lo dimostra, salienti, tra questi, il risorgere di conflitti e l’infittire di casi di emigrazione clandestina. La stessa stampa fascista fa eco, pur mettendo la sordina alle proteste e pur velando di ufficioso ottimismo la diagnosi, a questo vasto e vivo malcontento che mormora ovunque e qua e là irrompe in rivolta, sporadica e breve, ma significativa di per sé stessa, e, ancor più, in rapporto al rigore delle leggi e della repressione poliziesca. E corrono voci nei così detti ambienti politici, sull’esattezza delle quali è più che lecito dubitare, ma che hanno un indubbio valore sintomatico. Secondo tali voci, la Corona (cioè il Re e la sua entourage) vorrebbe uscire dalla tutela nella quale l’ha posta e mantenuta fino ad oggi la abdicazione al formalismo costituzionalista. Si parla di rimpasti ministeriali e si fa il nome del generale Badoglio. Negli ambienti fascisti poi, in quelli romani in particolar modo, si parla di dissidentismo fascista, e il Tevere e l’Impero d’Italia parlano addirittura di nemici mascherati che si sarebbero introdotti negli stati maggiori del fascismo. Mi pare evidente il fatto che una parte della borghesia, o perché malcontenta per i gravami fiscali, per le linee, quanto mai contorte e spezzate, della politica economica del governo, o perché timorosa di uno sbocco rivoluzionario, o per tutte queste ragioni insieme, tenda, da qualche tempo in qua, ad una soluzione che, assicurando mediante un “governo forte” il cosi detto ordine pubblico, illudendo e parzialmente soddisfacendo i bisogni più elementari di libertà politica e giustizia legalitaria, permetta il trapasso dall’assolutismo dittatoriale fascista al governo liberale-conservatore.

Non bisogna dimenticare che il movimento fascista non è stato che uno strumento nelle mani della borghesia e non della borghesia in blocco, ma di quella agraria e industriale, che più aveva sofferto degli attacchi proletari del dopo-guerra e più aveva a temere di una ripresa rivoluzionaria dopo le prime incertezze e gli inevitabili errori tattici di un rivoluzionarismo non ancora preparato a lotte continuate ed ardue.

Il fascismo fu dunque, come Luigi Fabbri lo chiamò, felicemente, una contro-rivoluzione preventiva. La stampa così detta liberale, Corriere della Sera in testa, fiancheggiò il fascismo, considerandolo un male necessario, male che il liberalismo conservatore sperava vincere, quando quello avesse esaurito la propria funzione di repressione ausiliaria delle forze di polizia dello Stato, impotente da solo a tutelare gli interessi capitalistici.

L’atteggiamento di Giolitti fu la sintesi di questa politica. In fondo uno era il conservatorismo e se dualismo, se opposizione ci fu, lo si dovette più ad una valutazione storica, che a sostanziale divergenza ideologica, più ad una questione di temperamento, che ad una profonda differenza di carattere.

La Massoneria fiancheggiatrice del fascismo, la simpatia della borghesia per il Partito Popolare, la complicità dei liberali con la giustizia e la polizia autrici di nefandezze d’incredibile arbitrarietà, la cooperazione degli alti comandi militari con lo squadrismo, spiegano come la marcia su Roma fu non l’ascesa di un partito forte, non la scalata di una milizia audace, ma, al contrario, l’epilogo di un complesso di compromessi tra tutte le forze conservatrici. È soltanto nel 1924, cioè dopo che le speranze di una sistemazione normalizzatrice del governo e del partito fascista furono deluse dalla fragorosità sintomatica di un tipico e drammatico delitto di Stato, che avviene la separazione del conservatorismo legalitario dall’assolutismo arbitrario della dittatura fascista. Ma quel conservatorismo pensa alla Corona come all’unica forza che possa servire di base ad un ritorno al regime che, per capirci, chiameremo giolittiano. E vediamo, all’estero, nel campo dell’emigrazione antifascista, prender radici e sviluppo il mito del re liberatore. E vediamo Ricciotti Garibaldi[1] tramare, consenzienti i Machiavelli dell’antifascismo serio, concreto, ufficiale, con il fascismo dissidente. E vediamo aiutanti del boia impancarsi a moralisti con le mani ancora umide di sangue antifascista. E vediamo, perfino, gente che spera in Federzoni.[2] Ma più sintomatico fra questi fenomeni è la posizione demiurgica di F. S. Nitti,[3] immanente nell’attività degli emigrati socialdemocratici, fusi e confusi con liberali, popolari, repubblicani di destra.

Spiegare il fenomeno con l’influenza, con l’autorità della notevole personalità dell’uomo non è sufficiente. Ne è sufficiente, perché vero soltanto per alcuni, spiegarlo con il bisogno per parlamentare abitudine di servilismo, di strofinarsi ai panni dell’Eccellenza. L’uomo di quel momento fu Carlo Bazzi.[4] Le ragioni di questa valorizzazione di questo Cagliostro erano varie, ma una preponderava: è una grande canaglia e conosce bene l’ambiente fascista, i suoi retroscena, le sue insufficienze, personali e costituzionali. Ma era una giustificazione secondaria. La vera forza dell’uomo era quella di rappresentare la possibilità di convergenza, di collaborazione fra il dissidentismo fascista, potenziato da interessi particolaristici di particolari ceti plutocratici ed il conservatorismo liberale fiducioso nella sufficienza statale della repressione legalitaria della rivoluzione e non convinto della gravità della guerra classista, esauritasi, a suo vedere, nel culminante episodio dell’occupazione delle fabbriche o nei soliti scioperi generali. Gli elementi socialdemocratici che avevano sabotate la rivoluzione prima e, poi, la controffensiva contro lo squadrismo, menando vanto di aver salvato l’Italia dalla rovina del “bolscevismo”, si lasciarono cullare dalle speranze in tutte le opposizioni conservatrici; da quella regia a quella papale, da quella del fascismo dissidente a quella del sindacalismo fascista.

L’attentato di De Rosa[5] segnò la fine, per i commenti ai quali dette luogo, dell’equivoco mito del re liberatore, come il Concordato, dichiarato impossibile dagl’illuminati del fascismo ufficiale, aveva messo fine alle speranze in una levata di scudi vaticanesca. Il fascismo dissidente, il malcontento di alcuni ceti plutocratici, la possibilità di un colpo di Stato militare rimangono ancora, per l’antifascismo social-democratico, delle speranze. L’agnosticismo di quasi tutti i maggiori esponenti della Concentrazione[6] in merito al programma sociale della rivoluzione italiana, si chiude tentando giustificarsi nel realismo proprio del positivismo politico-economico. Quasi tutti dicono: dipende dal momento della crisi. Potrebbe parere questa posizione un immediato riflesso del determinismo economicista, un residuo marxista. Ma non lo è che in parte. Quest’agnosticismo racchiude un compromesso: quello di una repubblica essenzialmente restauratrice. Il pericolo consiste nel fatto che in Italia è il pane delle più elementari libertà del quale il popolo è affamato e qualunque rottura della cappa di piombo che gli pesa addosso sarebbe salutata come una grande liberazione. Il pericolo consiste nel fatto che in Italia vi sono delle masse stanche di sofferenze, bisognose di riposo, aspiranti ad un po’ di benessere. Esplosa la vendetta popolare, occorre che delle minoranze attive, duramente decise e sufficientemente preparate, incanalino e sospingano, con la parola e con l’esempio, le masse in rivolta verso la distruzione dello Stato e della plutocrazia, sì che vengano gettate le basi politiche di un nuovo ordine autonomista-federalista e le basi sociali di un economia passibile di realizzazioni comuniste.

La rivoluzione sarà quello che potrà essere: banale considerazione codesta, poiché le forze operanti al lume di un Idea hanno nelle rivoluzioni un ruolo considerevole, e tanto più quelle forze potenzieranno la propria influenza, quanto più avranno chiara visione di fini e di mezzi.

Il fenomeno fascista deve farci persuasi che è necessario non illuderci eccessivamente sulla forza di combattività rivoluzionaria delle masse e dei partiti e dei movimenti di avanguardia, che rimarrà immanente il pericolo di un ricorso reazionario, ma il fenomeno fascista è là a dimostrare che soltanto colpendo a morte la plutocrazia, soltanto riformando profondamente l’ossatura ed il funzionamento dell’amministrazione, soltanto creando delle oasi fortificate di produzioni comuniste è possibile compiere una rivoluzione che garantisca realmente e durevolmente libertà e giustizia. Una restaurazione dell’equivoco liberalismo unitario, una democrazia risolventesi in riformismo legalitario, una repubblica di lavoratori quale è intravista dagli esponenti della Concentrazione è una semplice facciata di cartone dipinto, destinata alle fiamme di una controrivoluzione borghese o di una rivoluzione bolscevica, destinata anch’essa a fallire.

(in L’Adunata dei Refrattari, anno IX, n. 32 del 6/9/1930)

NOTE DEL CURATORE

[1] Ricciotti Garibaldi, nipote di Giuseppe Garibaldi, fascista dissidente poi divenuto agente segreto dello stesso regime; nel ’25 ideatore di una falsa spedizione armata contro il regime, che in realtà era una trappola in cui caddero anche alcuni anarchici esiliati in Francia.

[2] Federzoni Luigi, capo del nazionalismo italiano prima del fascismo, artefice della fusione con il PNF, ministro di Mussolini e Presidente del Senato durante il ventennio, condannato all’ergastolo dopo la liberazione ma amnistiato nel 1947.

[3] Nitti Francesco Saverio politico “democratico”, Presidente del Consiglio durante il biennio rosso ‘19-’20, creatore delle famigerate Guardie Regie, esule anti-fascista in Francia.

[4] Carlo Bazzi, massone, amico di Mussolini fascista dissidente e fuoriuscito in Francia dopo il 1924.

[5] Fernando De Rosa, giovane antifascista, in contatto sia con il Partito Socialista, che con Giustizia e Libertà. Nel ’29 attentò senza riuscirci al Principe ereditario Umberto di Savoia. L’attentato fu condannato dal PCI.

[6] Concentrazione Antifascista, coalizione di antifascisti in esilio, si costituì a Parigi, il 28 marzo 1927 tra il PRI, il PSI, il PSULI (socialisti riformisti), la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo e l’ufficio estero della CGIL di Bruno Buozzi. Tra il 1931 ed il 1934 vi aderì anche Giustizia e Libertà. Nel ’34 la Concentrazione si sciolse per contrasti interni.

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