E’ sufficiente considerare la riduzione dal 2008 al 2016 della spesa per l’istruzione per comprendere la deriva che stiamo affrontando. Si passa infatti da 46,5 miliardi di euro a 41,6 miliardi di euro con la riduzione del 10,7%.
Si tratta con ogni evidenza di scelte di una classe politica, e in realtà delle forze economiche sociali e internazionali che ne determinano gli orientamenti, che assume come inevitabile e persino desiderabile una collocazione del capitalismo italiano nel segmento della produzione di basso profilo, l’abbandono dell’investimento in ricerca e innovazione, e della centralità della piccola e media impresa che operano negli interstizi dell’economia mondo. D’altro canto, in questi stessi anni, il sistema industriale italiano ha subito un pesantissimo ridimensionamento, ampia parte delle aziende di maggior rilevanza sono state acquistate da imprese estere, e si può dunque affermare che c’è una relazione evidente fra crisi del capitale nazionale e ridimensionamento del settore della formazione.
Contemporaneamente, il salario medio del personale della scuola ha subito una riduzione superiore al 10%, e si colloca su 22 paesi industrializzati al diciannovesimo posto. Se si fa una comparazione fra il reddito di un docente laureato e quello di un laureato di un’altra categoria vi è una differenza a scapito dei lavoratori della scuola del 15-20% a seconda dell’ordine di scuola.
A questa situazione di relativo impoverimento corrispondono alcune precise caratteristiche di quella che si definisce composizione tecnica della categoria dei lavoratori della scuola, una categoria che vede sempre più forte la presenza di forza lavoro femminile e contemporaneamente forza lavoro proveniente dalle regioni dell’Italia meridionale, con l’effetto che la maggioranza assoluta del personale della scuola è costituito da donne provenienti dall’Italia meridionale o da una famiglia con la stessa provenienza. D’altro canto, ed è anche questo un segno dei limiti del capitalismo italiano, nelle ricche aree di quello che siamo soliti definire il profondo nord, e cioè le province del Veneto della Lombardia, vi sono significativi fenomeni di descolarizzazione da “ricchezza”, dal momento che o ci si laurea puntando sulle professioni liberali, o si comincia a lavorare in giovane età.
Quindi, in estrema sintesi, una categoria impoverita, che ha perso gran parte del tradizionale prestigio sociale, sottoposta, contemporaneamente, alle pressioni delle famiglie degli studenti e a quelle di una gerarchia scolastica preoccupata in primo luogo di soddisfare la “clientela”.
Non a caso, fra i lavoratori della scuola, i disturbi di carattere psichico hanno avuto una crescita esponenziale negli ultimi anni ed è questo sintomo delle difficoltà attuali.
Un degrado che si è dato non senza resistenza.
Senza volerne trarne alcuna “legge di movimento”, è interessante notare che, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, l’Italia ha visto massicce mobilitazioni di lavoratori della scuola con una periodicità decennale.
Nella seconda metà degli anni Settanta si dà una massiccia mobilitazione dei precari della scuola, che costituiscono una parte importante della categoria, e che si danno un’organizzazione indipendente su base nazionale con l’obiettivo di ottenere l’assunzione a tempo indeterminato mediante l’uso massiccio di scioperi, manifestazioni, blocchi degli esami. E’ assolutamente evidente che il movimento dei precari della scuola è, per grandissima parte, costituito dai cuccioli del maggio, gli studenti che hanno animato le lotte della fine degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta e che in quel ciclo di lotte hanno imparato ad organizzarsi.
Nella seconda metà degli anni Ottanta la scuola è attraversata da un ciclo di lotte per il salario e contro la meritocrazia. In questo secondo ciclo di lotte è ancora assolutamente evidente la continuità dal punto di vista della composizione politico culturale del movimento con la generazione del Sessantotto e col movimento dei precari che però si è trasformato in movimento dei lavoratori della scuola in gran parte a tempo indeterminato.
Per quanto riguarda il salario, la rivendicazione di forti aumenti salariali prende le mosse dalla rottura di uno scambio non dichiarato ma evidente che aveva funzionato a lungo fra bassi salari e la possibilità di pensionamenti precoci. La prima riforma delle pensioni, ben più moderata rispetto alla situazione attuale, rompe questa sorta di tacito accordo, per di più i salari nel decennio precedente si sono seccamente ridotti.
CGIL CISL UIL e SNALS (il principale sindacato autonomo) propongono l’introduzione di un legame fra salario e merito. E’ interessante rilevare che i fautori più convinti della meritocrazia sono i dirigenti della CGIL che, nello stesso periodo, conquistano rilevanti consensi fra i dirigenti scolastici.
In particolare, fra il 1986 ed il 1988, si dà un numero rilevante di scioperi, il blocco degli scrutini ha molto impatto, e si forma un vero e proprio movimento, quello dei comitati di base, che si sviluppa anche in altre categorie di lavoratori e, in particolare, anche se con caratteri diversi, fra i ferrovieri.
Le lotte portano a massicci aumenti salariali NON legati al merito, ma il movimento sconta l’approvazione di una legge che limita pesantemente il diritto di sciopero in tutto il settore pubblico e, in particolare, nella scuola.
Alla fine degli anni ’90, con un governo di centrosinistra, inizia un nuovo tentativo di legare le retribuzioni al merito attraverso l’introduzione di un concorso che avrebbe permesso ad una minoranza di insegnanti di avere aumenti delle retribuzioni molto superiori a quelli medi. Su quest’ipotesi sono d’accordo CGIL CISL SNALS UIL e sembra quindi scontato che passi. Contro il concorso viene indetto dal sindacalismo di base e dalla Gilda uno sciopero di massa, con l’effetto che il governo ritira il concorso e gli stessi sindacati istituzionali abbandonano, provvisoriamente, l’opzione meritocratica.
Siamo comunque ancora in una fase storica in cui può bastare una giornata di sciopero di massa dei lavoratori della scuola a far recedere dalle sue decisioni il governo.
E’ opportuno, a questo punto, rilevare che non vi è alcuna relazione diretta fra mobilitazioni dei lavoratori della scuola e appartenenza alle diverse organizzazioni sindacali. Effettivamente, nel corso del biennio ’86-’88, la Cgil Scuola ha una certa perdita di iscritti, ma si tratta, con ogni evidenza, di un segmento di lavoratori con un forte senso di appartenenza politica alla sinistra più radicale e che considera l’iscrizione alla CGIL come un’opzione in primo luogo politica. La graduale e sempre più accentuata spoliticizzazione delle organizzazioni sindacali e la loro trasformazione in sindacati di servizi le rende sostanzialmente immuni rispetto agli effetti delle mobilitazioni, la grande maggioranza dei lavoratori si iscrive ad un sindacato per i servizi e partecipa alle lotte, quando partecipa, a prescindere dall’appartenenza sindacale.
E’ anche vero che la relazione si farà più complessa, come vedremo, in occasione delle mobilitazioni seguenti quando CGIL CISL Gilda SNALS e UIL modificheranno il loro modo di porsi nei confronti dei movimenti.
Nel 2008 si svilupperà una forte mobilitazione contro il taglio degli organici previsto con la cosiddetta Riforma Gelmini, dal nome della Ministra dell’Istruzione del governo di centro destra allora al potere. Contro il taglio degli organici vi saranno, a breve distanza, uno sciopero organizzato dal sindacalismo di base, con un’ampia partecipazione, e uno sciopero indetto da tutto il movimento sindacale che vede una partecipazione enorme. Lo stesso giorno di questo secondo sciopero CISL Gilda SNALS UIL spaccheranno il movimento trovando un accordo con il governo che prevede il ritiro di alcune misure particolarmente pesanti che colpiscono la scuola primaria, tradizionale feudo della CISL, ma anche forti tagli dell’organico. Come si vede, in questo caso, sia perché il governo è di centrodestra, sia perché la burocrazia sindacale ha ben appreso la lezione dei precedenti movimenti, il modo di porsi del sindacato istituzionale è radicalmente cambiato. Questo cambiamento determina anche una forte modificazione nel modo di funzionare dei movimenti: i lavoratori considerano, in grandissima parte, l’unità sindacale come un bene prezioso e quindi premono per scioperi unitari, nello stesso tempo quest’attitudine comporta una sostanziale debolezza, e nel momento in cui il sindacato istituzionale abbandona, del tutto o in parte, la mobilitazione i movimenti rifluiscono.
Nel 2015, infine, un governo di centrosinistra ma con caratteristiche nuove visto che ha sposato politiche neoliberali che in questa misura erano in precedenza impensabili, con la riforma della “Buona Scuola” tenta un’operazione di radicale ristrutturazione della scuola stessa, aumentando in misura rilevantissima il potere dei dirigenti scolastici, e intervenendo su aspetti e argomenti molto sentiti quali la distribuzione del salario, la mobilità da scuola a scuola, le misure disciplinari etc, etc. A questo proposito, è opportuno ricordare che con l’autonomia scolastica e l’attribuzione della dirigenza ai capi d’istituto, che si trasformano da figure con un potere limitato a figure con un potere crescente, si è già avviata da anni, fra l’altro ad opera di governi indifferentemente di centrodestra e di centrosinistra, un’aziendalizzazione delle scuole e un aumento del potere della gerarchia scolastica. E’ però avvenuto in questo processo un fatto imprevisto: i sindacati istituzionali hnno favorito l’autonomia scolastica e l’aumento di potere dei capi d’istituto pensando che visto che gli stessi capi di istituto erano stati selezionati in gran parte da loro ciò avrebbe comportato un aumento del loro potere nella scuola. Al contrario, i neonati dirigenti scolastici sono usciti in massa dai sindacati “generali” dando vita a un loro potente sindacato corporativo, intenzionato a liberare i dirigenti stessi dai limiti al loro potere che derivavano proprio dalla presenza sindacale.
In sostanza, la “Buona Scuola” non è quindi una novità assoluta ma il pieno compimento di un processo avviato da anni, per un verso, e, per un altro verso, un’innovazione costruita molto male dal punto di vista tecnico. Contro la Buona scuola quindi si sviluppa una mobilitazione che vede manifestazioni e presidi e che ancora una volta culmina in uno sciopero di massa.
La novità, se vogliamo, è che il governo non concede, all’inizio, quasi nulla e il sindacato istituzionale si trova a dover scegliere fra il cedere le armi e il radicalizzare lo scontro. Credo che non sia difficile indovinare qual è stata la scelta, per altro malamente camuffata dalla parola d’ordine imbecille “ogni scuola sarà una barricata”. In pratica, insomma, si affida alle singole scuole lo sviluppo del conflitto, quando è evidente che, scuola per scuola, di fronte ai dirigenti e al loro staff, vi è il massimo della debolezza.
D’altro canto, in questo clima pesantemente “unitario”, il sindacalismo di base e in generale le aggregazioni di movimento, pure vivaci e combattive, hanno le mani legate; gli scioperi che si tentano hanno una visione ridottissima e in realtà logorano le minoranze più combattive in maniera autolesionista.
Dopo la chiusura del movimento contro la Buona Scuola, nel maggio del 2015, a livello generale, anche se vi saranno alcune mobilitazioni, si entra in una fase di sostanziale passività che va però letta bene.
Infatti, in maniera assolutamente non conflittuale, fallisce quanto prevede la Buona Scuola per quel che riguarda la minoranza di insegnanti da premiare, che avrebbero dovuto essere circa il 15%. Gli stessi dirigenti, nella consapevolezza che penalizzare l’85% degli insegnanti in strutture che funzionano grazie alla collaborazione sarebbe stato suicida, premiano con forti oscillazioni a seconda delle scuole, un numero molto più alto di docenti, con l’effetto per di più che il premio diventa molto più modesto. Per altro, lo stesso governo, in sede contrattuale, diventa più timido, in particolare sulla delicata materia della mobilità.
Alcune provvisorie conclusioni.
Ovviamente, quanto scritto sinora rende conto solo assai parzialmente della complessità dei fatti avvenuti e della situazione.
Mentre le mobilitazioni dei precari degli anni Settanta per l’assunzione a tempo indeterminato, e quella più generale degli anni Ottanta per forti aumenti salariali, erano “offensive”, quelle sviluppatesi negli ultimi tre decenni sono state essenzialmente sempre “difensive”. L’iniziativa era in mano all’avversario, e tali lotte non potevano che essere difensive, dal momento che non c’era la forza per ribaltare la politica generale sui servizi e sulla formazione conquistando le necessarie risorse.
Di conseguenza, le stesse vittorie ottenute in diverse occasioni possono essere definite, almeno così si usa in Italia, vittorie in discesa.
Credo, per altro, che il patrimonio di lotte e di elaborazione sviluppatosi in questi decenni, e la rete dei militanti che attualmente lo sostiene, siano di qualche interesse e mi propongo di tornare sulla questione a breve.
Cosimo Scarinzi