Niente di nuovo al vertice dei G7 svoltosi il 26 e 27 maggio a Taormina.
Trump questa volta non si è smentito, ribadendo la propria decisione di rigettare l’accordo per il clima, siglato a Parigi nell’autunno del 2015. Erano passate poche settimane dagli attentati al Bataclan, allo stadio e in alcuni ristoranti. Parigi era militarizzata, gli attivisti che si diedero appuntamento per una manifestazione in occasione dell’apertura della conferenza sui cambiamenti climatici, ebbero un primo assaggio dello stato di emergenza proclamato da Hollande.
Chi analizzò quegli accordi non potè che constatare quanto esili e poco efficaci erano le misure concrete che i partecipanti all’incontro avevano deciso di adottare.
Gli effetti del Climate change sono ormai tanto forti da essere percepiti come normali da tanta gente. C’era una volta l’inverno… è una favola che i più giovani sentono raccontare sempre più spesso.
Quegli accordi, se anche Donald Trump non fosse Doanld Trump non erano certo in grado di invertire la rotta. Forse neppure di fermare la discesa sempre più rapida e ripida. Più probabile un mero rallentamento.
La logica del profitto, la logica capitalista da valore solo a quello che rende. Per questa ragione i privilegiati del mondo hanno da qualche anno a disposizione i prodotti della Green Economy. Per gli altri, quelli da meno di un dollaro al giorno, resta il privilegio di cercare nell’immondizia qualcosa con cui sopravvivere.
L’allora primo ministro francese Laurent Fabius a sigillo della COP 21 dichiarò solennemente che “L’accordo di Parigi permette ad ogni delegazione di ritornare al proprio paese a testa alta. Il nostro impegno collettivo vale di più della somma di quelli singoli. La nostra responsabilità verso la storia è immensa.”
Una retorica vuota che si è infranta definitivamente a Taormina, con il mancato accordo sulle questioni climatiche, che qualcuno sperava ancora possibile.
La consapevolezza che qualcosa si stia modificando a livello climatico è ormai diffusa non solo tra gli addetti che analizzano i dati scientifici ma anche tra coloro che delegano ai rappresentanti istituzionali la soluzione dei problemi del vivere quotidiano.
Per questo nessun governante due anni fa volle rimanere fuori dall’inquadratura festante “dell’accordo mediatico”. Le aspettative dell’opinione pubblica non potevano essere deluse …. un fattore che ha certamente pesato sull’allineamento di ben 195 nazioni. A tutti è chiaro che il “problema clima”, con gli eventi atmosferici che di volta in volta lo caratterizzano, ha dimensioni globali ed è altrettanto indubitabile che le scelte di questi decenni influenzaranno la “storia” futura.
Trump ha costruito la propria immagine sul rigetto della dimensione universalista tipica della governance mondiale, facendosi paladino degli americani “rovinati dalla globalizzazione”, la gente della Rust Belt che sogna la vecchia Detroit come i melanesiani sognvano i loro Cargo della salvezza pieni di divinità.
Poco importa che lo stesso Trump sia un Paperone come tanti, una via di mezzo tra Donald Duck e Silvio Berlusconi. Quello che importa è l’immaginario che rappresenta. Un immaginario che relega le questioni climatiche tra i passatempi dei ricchi sinistri, indifferenti alle sorti dei bianchi impoveriti e spaventati degli Stati Uniti.
Una storia, che nella sua diversa declinazione peninsulare, conosciamo sin troppo bene.
Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Marco Tafel, esperto di questioni ambientali, autore di numerosi articoli sul climate change.
tratto da
www.anarresinfo.noblogs.org
qui anche una cronaca delle mobilitazioni