Uno schermo che siamo noi

La ripresa di Cinema Cielo di Danio Manfredini

È doveroso tracciare un bilancio di qualcosa che non succede tanto spesso nella vita di un semplice appassionato di teatro come me, quando si trova a sedersi sulle poltrone delle sale teatrali italiche da ormai circa mezzo secolo, se non erra la sua memoria: sto parlando di tornare a vedere, per addirittura la terza volta, uno spettacolo di un importante attore ed autore italiano, la ripresa di un pezzo di storia del nostro teatro contemporaneo, Cinema Cielo di e con Danio Manfredini. Spettacolo che ha vinto il premio Ubu nel lontano 2004, da me visto nella sua prima apparizione, dopo l’anteprima al festival di Santarcangelo nel 2003, quando fu presentato in quella stagione teatrale all’allora Elfo di Milano, adesso Teatro Menotti.

L’impressione all’epoca fu devastante, non solo per me: ricordo benissimo le decine di minuti di applausi scroscianti fatte da spettatori che per la maggior parte – me compreso – avevano le lacrime agli occhi, con Danio e gli altri tre attori costretti a ritornare in scena non so quante volte, ma l’ovazione durò tre quarti d’ora almeno, perché nessuno si decideva ad andarsene, a smettere di applaudire. Lo spettacolo, ovviamente, non è rimasto esattamente identico a quello dell’epoca, nemmeno il suo impatto è rimasto tale a quello di venti anni fa, perché i tempi sono cambiati, c’è stata di mezzo una diversa carriera e avventure diverse per i quattro protagonisti, ma ha perso in definitiva ben poco del suo spessore poetico, attoriale, sonoro e di scrittura, anche per uno spettatore che ha attraversato tutti gli anni trascorsi durante la sua mutazione come me. Ho parlato di un livello sonoro, perché, insieme a quelli visivi e di performance attoriale, non si può in questo spettacolo mettere in secondo piano la banda sonora, ripresa direttamente dallo spettacolo originale di Sant’ Arcangelo, che non ha invece subito mutazioni, anche nella mia visione di qualche giorno fa a Sarzana, nella tournée che è adesso in corso, che lo riporterà anche nella sala dove l’ho visto la prima volta.

In Cinema Cielo lo spettatore trova in scena la sala dell’omonimo reale storico cinema a luci rosse di Milano, un tempo sito in viale Premuda: si trova davanti le poltrone, alcune occupate da dei manichini, attraversate da diversi personaggi che vivono la loro esistenza estrema alla ricerca di piacere sessuale, di un rifugio dalla vita esterna, di un’illusione d’amore, mentre scorre un film sullo schermo che però siamo anche noi, lì seduti in platea ad osservare loro, come guardoni osservati dai personaggi che guardano verso di noi; un microcosmo allucinato, ma disperatamente poetico. Oltre a vedere possiamo ascoltare il sonoro di diverse voci fuori campo che appartengono a questa storia, più la banda sonora di un film immaginario che i personaggi guardano e che segue la trama di Notre Dame de Fleurs di Jean Genet, un testo da cui Danio diversi anni dopo Cinema Cielo ha tratto anche un bellissimo reading allietato dalla visione dei suoi disegni; tra l’altro questo spettacolo, adesso, si chiude con la visione di un disegno di Danio che appare sul sipario alla fine, là dove si vede all’inizio la foto del vero Cinema Cielo. C’è però differenza tra le avventure di Divine del romanzo di Genet, e quelle del travestito missionario dell’amore, interpretato da Danio sul palco che si muove con le sue alucce su dei tacchi alti.

Divine, Notre Dame de Fleurs, le loro amiche/amici proseguono la loro vita fuori dagli schemi normali fino alla tragedia finale e questo mondo altro viene trasceso da Genet come esemplare di una nuova e sovrumana morale, mentre la serie di avvenimenti mostrati nello spettacolo di Danio non giunge a questa dimensione di esaltazione, ma trascina tutti i personaggi in una sorta di estasi della comprensione umana che, paradossalmente, ha quasi del mistico, specialmente nelle avventure sessuali del travestito, narrate però nel suo dialogare direttamente con Gesù, che appare anche (in croce) verso la fine: un Gesù di periferia, un Gesù degli ultimi che – dice questo personaggio – non ha abbastanza forza per portarci tutti nelle sue braccia, quindi non ha più la forza di salvarci.

Quindi com’è stata l’esperienza di me spettatore alla terza visione dello spettacolo, che ha ritrovato con gli attori, con un altro se stesso, attraverso i decenni, dopo esserselo portato dentro con l’intensità del ricordo, ma anche con lo sguardo cambiato col mutarsi dei corpi messi in scena, quelli veri degli attori, quelli dei manichini, quelli evocati dalle voci della narrazione di Genet, un testo che anche lo spettatore-me ha letto ed amato (molto) nella sua lontana gioventù?

Ed è qui che si consuma la riuscita di questa reprise, nel centellinare nuove emozioni, forse meno sconvolgenti, ma altrettanto poetiche, altrettanto intense e più mature, accolte in una nuova visione in cui lo spettatore guarda questo campionario di umanità e viene quasi allegoricamente a essere osservato da esso e dalla sapiente messa in scena di Manfredini, oltre che dalla recitazione antinaturalistica sua e degli altri attori, diffusa nelle parole, nei gesti della camminata dei personaggi dell’ “angelica” protagonista e di altre figure che percorrono peripateticamente i corridoi del Cinema Cielo, come in una processione allucinata, immersi in un quadro di luce, di suoni e di canzoni che lasciano il segno. Quando questa musica si dirada, si spengono gli applausi, lo spettatore se ne torna a casa, sotto la pioggia, avendo rinchiuso dentro di sé un’altra emozione e un’altra dose della poesia del teatro del Grande Danio Manfredini.

Falco Ranuli


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