L’articolo di Monica Jornet “Orgogliosi di essere tifosi” (Umanità Nova 2, 21 gennaio 2018) sollecita e stimola riflessione, dibattito, voglia di confrontarsi, alcune critiche e qualche divergenza.
Può darsi che essere tifosi sia anche un modo per sentirsi bambini, appassionarsi, gridare, sentirsi accomunati da un’identità da difendere con orgoglio. In un mondo che non consente ai proletari troppe distrazioni gratificanti e soddisfacenti, qualche momento di felicità un po’ “stupida” e “infantile” va bene. Però non esageriamo. Godere di una passione sganciandosi completamente da tutto quello che rappresenta e dal contesto politico e sociale in cui si sviluppa non è salutare. Apprezzare e gustare il buon vino è una virtù, ubriacarsi tutti i giorni una scelta autodistruttiva che fa comodo solo a chi ci vuole addormentati e acritici.
Temo che la narrazione che Monica fa degli ultras sia davvero un po’ troppo romantica. Se è giusto respingere l’immagine mainstream che li definisce solo come violenti tendenzialmente sottosviluppati, credo sia altrettanto giusto tener conto di quello che, specchio di questi tempi, esprimono le curve. Maschilismo e razzismo, per esempio, sono diffusissimi, cosi come la dimensione militaresca e guerrafondaia. Le metafore sessuali sono ampiamente diffuse con un notevole campionario di varianti, le mamme le sorelle e le mogli insultate secondo i più beceri luoghi comuni del maschilismo più retrivo e bastardo. Non parliamo poi dell’omosessualità.
E non basta. Le azioni dei calciatori di colore sono spesso accompagnate dal verso della scimmia, in qualche caso, ancor più esplicitamente, sono volate in campo le banane. E poi l’antisemitismo: Anna Frank con la maglia della Roma per dire romanisti ebrei, copyright dei tifosi della Lazio, è solo l’ultimo episodio. Basta dare un’occhiata, il campionario di schifezze è purtroppo lunghissimo. Prima che la federazione vietasse l’esposizione e l’espressione di ogni simbolo politico (anche con l’intento di spezzare i legami tra società e tifoserie più estreme) sono stati frequentissimi gli striscioni esplicitamente inneggianti al duce, i saluti fascisti e nazisti. Oggi molte curve sono stracolme di tricolori. Sono tutti fascisti determinati e consapevoli? Certamente no, per fortuna. Se gli ultras delle grandi squadre fossero attivi militanti politici forse dovremmo seriamente valutare l’ipotesi di andare in clandestinità. Sono però il portato più estremo del qualunquismo diffuso, del razzismo sempre più esplicito e sempre meno strisciante, di una rabbia sociale che cade nella trappola di sfogarsi con chi sta peggio.
Non c’è solo questo, d’accordo, ma c’è anche questo. Ci sono gli ultra che raccolgono soldi per i terremotati, quelli che ospitano in visite turistiche i tifosi avversari, quelli che di fronte a eventi tragici esprimono solidarietà. Ma a me sembra quasi tutto dentro la logica amico/nemico e spesso i gemellaggi sono guidati da questa dimensione. Se odi il mio nemico allora sei mio amico.
Mi racconta un collega che ha passato anni in curva. “Tutta la settimana, dai turni di lavoro alla gestione del denaro, dalla cura dei figli al tempo libero, era finalizzata alla partita della domenica. Non era solo il tempo effettivamente trascorso allo stadio: si passavano ore e spesso giorni a preparare slogan, striscioni, coreografie. Si facevano sacrifici enormi per avere i soldi per andare in trasferta”. Ora, va bene che quando abbiamo una scadenza politica importante, una lotta, un progetto che ci anima forse gli assomigliamo un po’. Va bene che anche a chi come me è un tifoso ogni tanto capita di dedicare tempo soldi ed energie per andare a vedere una partita. Ma così non è un po’ troppo? Constatiamo la dedizione senza esprimere critiche? O anche senza fare un po’ di autocritica per come non siano invece gli ideali che ci portiamo addosso un po’ più attrattivi di una maglietta colorata?
E non mi piace neppure l’idea che sia bello che il tifo per una squadra annulli le differenze con chi mi sta accanto. La gioia per un gol dovrei condividerla abbracciando il razzista o il fascista che mi sta a fianco? Il maschilista che ha urlato insulti sessisti fino a un attimo prima? Ma scherziamo? Non annullo proprio nessuna differenza!
E’ strano che, tra le eccezioni positive, Monica non abbia citato il St.Pauli, che mi pare l’unico serio tentativo, almeno in Europa, di legare tifo e politica, sport e idealità. Le curve della squadra di Amburgo non ammettono fascisti, razzisti e maschilisti, il sostegno alla squadra è sempre associato ad un esplicito messaggio politico. Gli striscioni in solidarietà ai profughi e ai rifugiati, per esempio, sono stati una costante nello scorso campionato. Ma quello che provano e riescono a fare i tifosi del St.Pauli è qualcosa di più. In base al principio, stavolta non ridotto a slogan, che “la squadra è dei tifosi” sono intervenuti diverse volte nelle scelte della società. Per esempio quando hanno chiesto (e ottenuto) la cacciata di un giocatore che aveva espresso simpatie di estrema destra. O quando, qualche anno fa, hanno minacciato di disertare lo stadio se la società non avesse chiuso ogni rapporto con un facoltoso sponsor che pubblicizzava sexy shop e che inondava lo stadio con spot e immagini che facevano della donna un puro oggetto sessuale da usare a proprio piacimento. Anche in questo caso raggiungendo gli obiettivi che si erano prefissi.
Ormai quella di Amburgo è una realtà consolidata, frutto di anni di intervento politico di varie arie dell’estrema sinistra che merita attenzione e forse ci può fornire qualche spunto interessante.
Poi c’è il discorso sul calcio giocato e l’affascinante gioco di immaginare un calcio anarchico. Se le grandi competizioni e i grandi campionati europei (compreso, nonostante sia ormai nelle retrovie, quello italiano) sono ormai completamente asserviti ad una dimensione così affaristica che quasi non sembra più sport, credo sia però innegabile che il calcio, quello di base per i bambini e gli adolescenti (che sta ora investendo anche sulle bambine e le adolescenti) e quello cosi capillarmente diffuso in ogni angolo d’Italia abbia una innegabile funzione sociale. Non sono ambiti ideali, d’accordo, ma dove sono oggi gli spazi di aggregazione per i giovani? Molti tecnici del calcio giovanile ammettono, esplicitamente, di ricevere spesso dai genitori impegnati per gran parte della giornata quasi un mandato di cura e attenzione nei confronti dei figli, una richiesta che molte scuole calcio finiscono nei fatti per soddisfare. Anche perché non costano molto e magari sollecitano sogni di ricchezza futura. Se non c’è la scuola calcio c’è l’oratorio. In mancanza di una valida alternativa preferisco uno schema difensivo a un ave maria. Mi sento un po’più tranquillo.
Pensare a un calcio anarchico è un bel gioco di fantasia. A me pare che, già in sé, il calcio sia almeno un bel tentativo di tenere insieme fantasia e tattica, capacità individuali e dimensione collettiva. La squadra che vince è di solito quella capace di miscelare ed equilibrare queste due componenti. Maradona, al di là delle esaltazioni giornalistiche e popolari, ha sempre riconosciuto e ammesso che senza Bagni (il classico mediano che usava la grinta per fermare gli avversari) non avrebbe vinto nulla. E persino Platini, che ha avuto molto più fortuna come giocatore che come allenatore e come dirigente della federazione europea, ancora oggi ringrazia Bonini, stesso ruolo e stessa (scarsa) tecnica di Bagni. E aggiunge: io inventavo gol ma senza gli schemi difensivi non avrei fatto nulla.
Insomma c’è già, secondo me, una certa predisposizione all’equilibrio tra individualità e dimensione collettiva.
Rimane, è vero, il “problema” dell’allenatore. Se è quello che decide gli schemi e la formazione, quello che decide tutto e non discute nulla siamo in piena dimensione gerarchica. Ma se è solo quello che, in base all’esperienza, propone e poi discute tutto con la squadra?
E’ un gioco, naturalmente, e ognuno può sbizzarrirsi con la fantasia e la creatività.
Consiglio, infine, la lettura di un bellissimo libro che a mio giudizio unisce mirabilmente calcio e politica, funzione sociale e dimensione intima, fantasia e immaginazione. Lo ha scritto Osvaldo Soriano ed è bellissimo persino nel titolo. “Pensare con i piedi”.
Alberto Piccitto