Un interessante libro sull'esperienza dei G.a.f.

Contro la storiaAllora, ricapitolando, gli anarchismi in Italia sono tre. Il più famoso è quello insurrezionalista, conosciuto anche dal grande pubblico in quanto spesso evocato da media e veline poliziesche sempre più all’unisono. Poi, proseguendo da sinistra verso destra, c’è quello ufficiale della FAI (la storica e scalcinata Federazione Anarchica Italiana fondata nel 1945, in odor di inconcludente moderatismo socialdemocratico). Infine abbiamo un’area culturale, quella sì di gran lunga “La più importante” e davvero “La più significativa” (ohibò). Ora se noi esaminiamo, nella stessa sequenza, le tre citate entità politico antropologiche sotto il prisma di un supposto tasso di rivoluzionarismo, ecco che si nota subito un calo verticale sconcertante del parametro passando dagli anarco-insurrezionalisti alla FAI, fino ad azzerarsi proprio appena ci si avvicina al milieu dei pensatori. Al contrario, se consideriamo invece il livello di capacità di elaborazione teorica e di acculturazione politica, questo, dalle quote medio basse che si riscontrano nei primi due anarchismi, balza all’improvviso ad altezze stratosferiche solo appropinquandosi all’area culturale, come è naturale che sia. Ecco, il nuovo libro di Giampietro Berti (alias Nico) – già autorevole cattedratico patavino – esamina solo ed esclusivamente quest’ultima componente come del resto si capisce, se non dal titolo, almeno dalla quarta di copertina. Anzi abbiamo saputo, in via riservata, che il vero titolo dell’opera fosse in realtà un altro, poi cassato dal serioso editore Biblion: GAF [Gruppi anarchici federati], Centro studi libertari e dintorni. Cinquant’anni di anarchismo in Italia, tolta la FAI (che tanto quelli mi stanno sui coglioni).

L’autore, scherzi a parte, è uno studioso non solo prolifico ma che si è anche distinto, nel corso degli ultimi decenni, per una produzione scientifica di qualità e per una elaborazione teorica di altissimo livello. Poco votato alle fastidiose estenuanti ricerche di base negli archivi, che preferisce lasciare ad altri, il suo profilo preponderante è quello di storico del pensiero politico. Forte si è infatti sempre rivelata la sua propensione all’analisi, ad affrontare cioè questioni di carattere interpretativo sugli snodi contemporanei dell’anarchismo e non solo.

Un parallelo con ciò che è stato il grande Eric Hobsbawm per le vicissitudini del comunismo non è affatto azzardato. Al pari dell’eminente studioso marxista britannico, Berti ha marcato con un’impronta indelebile il proprio campo intellettuale d’intervento, nel caso quello della storiografia sui movimenti libertari. Ed allo stesso modo, sul piano della metodologia e degli approcci utilizzati, ci sono singolari similitudini tra i due; in particolare si tratta di quell’attitudine che gli antropologi attribuiscono agli “osservatori partecipi”, ossia al vezzo di giustapporre il proprio vissuto alle vicende collettive di cui si è stati attenti testimoni e anche protagonisti, fino a identificarlo e fonderlo completamente con esse. Ciò significa che la natura soggettiva delle coordinate narrative è destinata ad emergere in ogni opera che viene prodotta, scaturendo quasi sempre da proprie visuali comunque intrecciate ai ricordi personali, alle memorie e ai documenti raccolti. I risultati così si traducono invariabilmente in affreschi storici di forte efficacia, caratterizzati da una potente forza interpretativa/comunicativa. Insomma, se da una parte si è avuto il famoso Secolo breve di Hobsbawm, ora qui abbiamo, con riferimento all’anarchismo, il Mezzo secolo preciso di Berti.

Dalla lettura si ha anche l’impressione che le parti in commedia siano già affidate, tanto da capire subito chi, nei ranghi del movimento, abbia avuto ragione e chi invece torto marcio.

Tuttavia il libro parte da un presupposto reale e ben argomentato. Con gli anni Sessanta matura “la piena consapevolezza del paradossale rapporto creatosi fra l’insuccesso storico e il successo teorico dell’anarchismo”, ciò in quanto “uno spezzone non secondario della cultura politica, sociale e filosofica del mondo progressista ha utilizzato-saccheggiato a piene mani molte teorie, intuizioni e schemi del pensiero libertario…”. Ecco, la spiegazione di questo paradosso è scritta tutta in queste pagine.

La struttura del volume è organizzata in “medaglioni” tematici che, sebbene spezzino un po’ il filo del racconto, sono però utilissimi per la consultazione e anche a fini archivistici. La rinascita dell’anarchismo è individuata nelle esperienze innovative della rivista «Materialismo e Libertà» e nel percorso politico dei Gruppi giovanili anarchici federati (GGAF) poi GAF. Il lavoro è articolato in undici capitoli con una cesura importante alla fine degli anni Settanta, nei quali la dimensione politica classica della militanza è definitivamente abbandonata. Seguono schede molto approfondite e particolareggiate sulle testate («A rivista anarchica», «Interrogations», «Volontà», «Libertaria») e sull’instancabile attività editoriale (Antistato e Elèuthera), sui convegni internazionali tenuti a Venezia e sull’attività del Centro studi libertari.

La descrizione delle attività svolte è fin troppo minuziosa ed occupa una parte importante dell’opera, nella rassegna alcune iniziative culturali promosse appaiono due volte (creando l’effetto esilarante dei famosi carri armati di Mussolini).

A parte le “magagne” che abbiamo riscontrato (la spiccata autoreferenzialità prima di tutto), questo nuovo lavoro di Berti si presenta come uno strumento fondamentale per la comprensione di una parte delle vicende, intricatissime, che hanno contrassegnato l’anarchismo italiano dal secondo Novecento in poi. E si deve inoltre dire, a onor del vero, che questo “libro su libri” come lo ha chiamato lo stesso autore, è nient’altro che una riflessione molto soggettiva che si basa sui risultati di grande valore e consistenza conseguiti dalla storiografia sull’argomento negli ultimi due o tre decenni. C’è insomma una rete occulta di “cirenei” che, molto volentieri, hanno messo a disposizione i risultati delle loro sudate ricerche di base.

Per finire ci piace segnalare un breve paragrafo del libro dedicato a “L’anarchismo etico di Paolo Finzi”, ossia al redattore conosciutissimo di «A rivista anarchica»: “L’anarchismo di Finzi rafforza la preminenza della coerenza etica tra mezzi e fini, per cui il senso ultimo dell’agire anarchico non consiste nel suo contenuto specifico, ma nel suo modo di porsi” (p. 421). Chissà se l’interessato sarà d’accordo.

Giorgio Sacchetti

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