Ho ripreso il titolo dalla rubrica “L’esule news” di mercoledì 16 novembre. Di mio ho aggiunto il punto interrogativo per concedere un qualche beneficio d’inventario ai numerosi guerrafondai nostrani. La frase si riferiva ad alcuni avvenimenti che si erano susseguiti nei giorni precedenti. Il 9 novembre le truppe russe si ritiravano da Kherson, non è chiaro se in seguito a qualche considerazione strategica o per una effettiva debolezza dell’esercito e del fronte interno. Nei giorni successivi i risultati delle elezioni di Midterm negli Stati Uniti non davano ai repubblicani il successo sperato ma non dimostravano neanche un aumento della popolarità di Biden, il che poteva essere interpretato come un segnale che i contribuenti americani non sono molto propensi a finanziare la guerra in Ucraina. Del resto già nei giorni precedenti Biden si era mostrato infastidito dalle continue richieste di armi da parte di Zelensky e quindi poco disponibile a una “escalation” del conflitto. Pochi giorni dopo, il 14 novembre, Biden e Xi Jinping si incontravano al G20 di Bali in Indonesia; naturalmente non è dato sapere il contenuto reale dell’incontro, in particolare sulla questione di Taiwan, ma si potevano cogliere segnali di distensione. Un comunicato della Casa Bianca, prima dell’incontro, aveva chiarito che Pechino e Washington sono “in competizione”, precisando però che “vale la pena assicurarsi che la competizione abbia dei limiti, che abbiamo regole chiare e che facciamo tutto il possibile per garantire che la competizione non diventi conflitto”.
La prova del nove però è avvenuta il giorno dopo, il 15 novembre, quando un missile cadeva in territorio polacco provocando la morte di due persone. In teoria questo poteva essere il tipico “casus belli”, in quanto la Polonia poteva invocare l’articolo 4 della NATO per un possibile intervento degli alleati. Ma già nello stesso giorno diverse fonti, a cominciare dal segretario generale della NATO Stoltenberg, parlavano di un errore, in quanto il missile sarebbe appartenuto alla contraerea ucraina e quindi non di provenienza russa. Scampato pericolo! Ma, per arrivare ai giorni nostri, è del 1 dicembre la notizia che USA e Francia lanciano una conferenza per la pace a Parigi il 13 dicembre mentre Biden aprirebbe a un incontro con Putin, e Lavrov, ministro degli Esteri russo, propone Kerry, ex segretario di Stato USA, come “partner di dialogo”. Non ci resta che attendere lo svolgersi degli eventi.
Intanto è arrivato il famigerato “generale inverno”, quello che ha arrestato l’avanzata delle armate di Napoleone e della Wermacht nazista, che provocherà sicuramente un rallentamento delle operazioni militari sul campo. La Russia ricorre ora ai missili per danneggiare le infrastrutture e le centrali elettriche ucraine e lasciare la popolazione in balia del freddo e della fame. Ma ho l’impressione che ambedue i contendenti diano segnali di stanchezza. Secondo fonti dell’intelligence della Difesa britannica la Russia sta lanciando sull’Ucraina vecchi missili Cruise, a cui verrebbe rimossa la testata nucleare sostituita da una zavorra. “Questa improvvisazione mette in luce il livello di scarsità dello stock della Russia di missili di lungo raggio”. Dall’altra parte “da un’inchiesta pubblicata sul New York Times è emerso come dopo nove mesi di conflitto in Ucraina, gli aiuti bellici da parte di Stati Uniti e alleati della NATO potrebbero essere arrivati al limite” per esaurimento del budget previsto poiché “un giorno di guerra – in termini di armamenti bellici – equivale a un mese di quella in Afghanistan”.
Inoltre la Russia deve fare i conti con l’esodo di massa che si è verificato dopo l’annuncio della mobilitazione parziale nel settembre scorso, quando decine di migliaia di persone, con qualsiasi mezzo, hanno cercato di varcare il confine verso altri Paesi, richiedendo asilo. Ora è possibile pensare che la maggior parte di questi fuggitivi provenissero dalle grandi città come Mosca o San Pietroburgo e che fossero mediamente più acculturati, cioè una sorta di intellighenzia, una élite culturale che abbandona clamorosamente il campo, vale a dire, come si dice, una fuga di cervelli. Le difficoltà incontrate nella mobilitazione potrebbero essere dimostrate dal fatto che sono state consegnate cartoline per l’arruolamento ai manifestanti arrestati e che ai disoccupati arruolati verrebbe promesso uno stipendio di circa 170.000 rubli al mese, l’equivalente di 3 mila euro, in alcuni casi, come in Cecenia, si parla addirittura di 300.000 rubli (5 mila euro) cioè cinque volte più alto di uno stipendio normale. Resta il fatto che se analizziamo i dati relativi alle spese militari in Russia nel nuovo millennio possiamo rilevare una media del 3% del PIL nonostante il picco del 5,43% nel 2015 in occasione del sostegno alle repubbliche del Donbass in seguito al referendum dell’autonomia e agli attacchi dell’esercito ucraino.
Per quanto riguarda l’Ucraina la sua situazione era già pesante prima della guerra. Il salario reale medio era inferiore a quello del 1990 e la sua performance economica tra il 1990 e il 2017 è stata la quinta peggiore in tutto il mondo. Per far fronte a questa crisi “i governi post-Maidan si sono impegnati in una serie di salvataggi grazie ai prestiti concessi dal FMI, ma il prezzo pagato per questi prestiti è stato un severo programma di tagli nei servizi pubblici e nel sostegno al welfare”. Le misure di austerità imposte dall’FMI “richiedono un aumento delle tasse equivalente allo 0,5% del PIL annuo, un aumento dei contributi pensionistici e un aumento delle tariffe energetiche”. Inoltre l’FMI insiste perché si realizzi una sostanziale privatizzazione delle banche, delle imprese statali e delle proprietà terriere. In particolare “il paese dovrebbe liberalizzare il mercato della terra” e si calcola che la cessione a multinazionali straniere dovrebbe interessare “una superficie agricola di 42,7 milioni di ettari, equivalente all’intera superficie dello stato della California!”. A tutto ciò bisogna aggiungere la corruzione dilagante dei cosiddetti oligarchi. Il conflitto in corso ha avuto un impatto significativo sull’economia dell’Ucraina che si trova a essere intrappolata in una zona di guerra, tra gli interessi del capitalismo occidentale e quelli del capitalismo russo.
La situazione interna degli Stati Uniti comunque non è così buona. Nel luglio del 2022 l’inflazione ha registrato un picco del 9%, anche se alcuni osservatori riportano una inflazione reale del 20%, mentre i salari dei lavoratori hanno subito un crollo a partire dal 2000 e il tasso di disoccupazione raggiunge la doppia cifra. Gli investimenti sia pubblici che privati sono in calo già dagli anni 90 con un forte spostamento dei capitali verso la finanza speculativa. Nell’ultimo decennio sono diminuiti anche gli investimenti degli Stati Uniti verso l’estero, confermando un andamento che dura ormai da decenni. Nello stesso periodo cresce invece l’indebitamento, sia quello delle corporation che quello delle famiglie e, di conseguenza, si è sviluppata la finanza speculativa, espressa dall’ammontare dei derivati che arrivano ad essere dieci volte il PIL in termini di valore. Tutto ciò ha portato alla grande recessione del 2008/2009 innescata dalla sofferenza dei mutui subprime e dal fallimento di Lehman Brothers. Tutto ciò fa pensare che gli Stati Uniti come tali non rappresentano più una superpotenza economica e che il capitalismo ha subito una radicale trasformazione che vede nelle grandi multinazionali i protagonisti del capitalismo moderno. E da ultimo bisogna notare che le spese militari USA nel 2022 sono state di poco superiori al 3% del PIL, ben lontane rispetto al 40% durante la II guerra mondiale e anche rispetto ai picchi durante la guerra di Corea (15%) e la guerra del Vietnam (10%).
Situazione analoga si può verificare anche nel maggiore competitor degli Stati Uniti e cioè la Cina. “Dopo anni di prestiti forsennati al mercato immobiliare, adesso gli istituti bancari del Dragone scontano gli effetti della svalutazione dei crediti finiti in sofferenza. Risultato, perdite per 212 miliardi di dollari”. Il mercato immobiliare cinese, che vale circa il 30% del PIL, da anni barcolla pericolosamente, trascinando nell’abisso un pezzo di economia cinese, con un enorme impatto sul sistema bancario. Gli ultimi dati certi sulla crisi del settore immobiliare risalgono al 2021 e si riferiscono al crac del colosso Evergrande che ha lasciato 1,3 milioni di unità abitative incomplete. Le stime delle previsioni di crescita per la Cina “per il 2022 sono scese al 2,9% dal 3,1% precedente, mentre per il 2023 le previsioni di crescita sono al 4% su base annua, dal 4,5% precedente”. Su questa battuta d’arresto incide certamente la risposta molto rigida adottata dal governo cinese nei confronti dell’epidemia da Covid 19 con intere città di decine di milioni di abitanti costrette a un lockdown molto duro e per periodi prolungati e a ciò si aggiunge il clima estremo con ondate di caldo che hanno superato i 43 gradi. L’economia cinese rimane comunque fondamentalmente votata all’esportazione: l’export è aumentato del 18% nonostante la Cina non sia più la fabbrica del mondo e nonostante gli sforzi del governo per promuovere lo sviluppo interno. Ricordiamo inoltre che il surplus commerciale cinese veniva investito in buoni del tesoro americani per finanziare il debito pubblico e privato, e quindi i consumi, degli Stati Uniti. In ogni caso la Cina non ripete l’Inghilterra, nel senso di un susseguirsi determinato di modelli di sviluppo storicamente codificati.
In questa vicenda l’Unione Europea rischia di fare la figura del vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, anche se in realtà non è proprio così. Sembra che uno degli obiettivi principali della guerra di Putin in Ucraina fosse quello di creare divisioni all’interno della UE ed, eventualmente, provocare un distacco dall’alleanza atlantica. Questo secondo obiettivo mi sembra difficile da realizzare mentre le divisioni all’interno della UE sono comunque rilevanti e di difficile soluzione, anche se si possono escludere decisamente ritorni a forme di autarchia fuori tempo. E’ necessario però aggiungere che le divisioni all’interno dell’UE possono essere gradite anche agli Stati Uniti. Di fatto l’economia della Germania è gravemente in pericolo dopo la chiusura del gasdotto North Stream. L’Italia è forse il paese più a rischio visto che importa circa 71-74 miliardi di metri cubi di gas ogni anno e il suo debito pubblico diverrebbe facile bersaglio della speculazione finanziaria. L’Unione Europea si dimostra debole sul piano militare e in preda alle solite divisioni, con una industria tecnologicamente avanzata che ha bisogno dei mercati mondiali di gamma medio/alta; non per niente il cancelliere tedesco Scholz si è recato in visita in Cina e il 9 novembre ha incontrato il presidente Xi Jinping, confermando i tradizionali legami sino-tedeschi in diversi settori industriali. Infatti Scholz nella sua visita era accompagnato da una delegazione di leader di aziende tedesche.
Da quanto detto sopra è possibile ricavare alcune conseguenze importanti. Intanto il ricorso a una terza guerra mondiale per risolvere la crisi è reso molto problematico dal fatto che attualmente nessuna delle potenze in gioco sembra in grado di produrre questo immane sforzo, senza contare l’entità delle distruzioni che un tale evento comporterebbe, dato che una guerra mondiale nelle condizioni odierne diverrebbe inevitabilmente un conflitto nucleare, e in questo caso sarebbe a rischio non solo il genere umano ma anche il modo di produzione capitalistico stesso. Una specie di suicidio tipo “muoia Sansone con tutti i filistei”. A questo punto qualcuno potrebbe ribattere che il capitalismo e la razionalità non vanno molto d’accordo. Risponderei con una frase di Marcuse: “Uno degli aspetti più inquietanti della civiltà industriale avanzata: il carattere razionale della sua irrazionalità”. E poi come diceva Paul Mattick in un suo articolo del 1940 “Oggigiorno, si tratta solo di vedere se, nella misura in cui la depressione non sembra più poter ricostituire le basi di una nuova prosperità, la guerra stessa non abbia perduto la sua funzione classica di distruzione-ricostruzione indispensabile per innescare un processo di rapida accumulazione capitalistica e di pacifica prosperità postbellica”.
L’ipotesi più probabile è che la guerra in Ucraina possa costituire l’ennesimo episodio di una condizione di guerra permanente seguita alla seconda guerra mondiale, dalla Corea al Vietnam, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, un episodio certamente doloroso per le distruzioni e le migliaia di vittime civili, ed emotivamente (e mediaticamente) più sentito in quanto più vicino a noi nel cuore dell’Europa. Naturalmente questa guerra, come le altre precedenti, costituisce una fonte di profitti per le maggiori corporation mondiali che producono armi, il cosiddetto complesso militare-industriale, come la famosissima Lockeed Martin o la Boeing o anche la nostrana Leonardo Finmeccanica, come del resto hanno fatto le Big Pharma durante la pandemia, anche se la produzione di armi in generale costituisce un consumo improduttivo di plusvalore per il capitale sociale, tanto più per il fatto che questa produzione viene comprata quasi per intero dallo stato. A questo proposito destano quindi stupore le affermazioni di Draghi, relative alla cosiddetta “Bussola strategica per la difesa europea”, quando parla di una ripresa economica trainata dalla produzione di armi, cosa che si rivelerà certamente una pura illusione.
Un’altra conseguenza della guerra permanente è quello che ormai si può considerare uno stato di emergenza permanente, giustificato prima con motivi sanitari molto discutibili, e che ora viene prorogato a causa della guerra. Una emergenza permanente che mira a indurre nella popolazione uno stato di paura (della malattia, della morte, della povertà, della bomba…) che sembra essere, da sempre, uno degli strumenti principali del dominio di classe. Allo stato di emergenza è legata poi quella che tutti definiscono una “economia di guerra”. Ora già in un libro uscito subito dopo il primo lockdown pandemico del 2020, dal titolo Lo spillover del profitto, denunciavamo “il linguaggio da tempo di guerra diventato subito virale nei mass media di regime, insieme al ritorno di una retorica patriottarda fuori tempo”, prendendo poi in considerazione alcuni fenomeni che potevano far ritornare alla mente situazioni tipiche di una economia di guerra, come la speculazione sui prezzi dei generi di prima necessità, il coprifuoco di fatto, e l’introduzione di un lasciapassare per accedere a quasi tutte le attività, compresa quella lavorativa. Lo scoppio della guerra ha naturalmente portato all’estremo questi fenomeni, compresa una inflazione galoppante che coinvolge ora anche i generi di prima necessità, con il conseguente taglio di fatto dei salari dei lavoratori, oltre all’aumento stratosferico delle bollette energetiche. L’espressione “economia di guerra” va intesa tuttavia in senso relativo in quanto la riconversione della produzione verso i settori cruciali in tempo di guerra, produzione di armi ecc., è solo parziale, anche se in aumento, ma ben lontana dai livelli del “keynesismo di guerra” degli anni 30. Per provare questo basta ricordare i dati, prima citati, sulle percentuali di spese militari rispetto al PIL di Stati Uniti e Russia e che in Europa la percentuale di queste spese deve ancora raggiungere il preventivato 2% sul PIL. Si potrebbe parlare, in maniera molto sintetica, di una economia di guerra senza una guerra dichiarata, che invece potrebbe mascherare una “grande depressione” in arrivo.
Un’ultima considerazione: si fa un gran parlare sui media mainstream di fine della “globalizzazione” e del mondo unipolare, di ritorno a un mondo bipolare, come sostengono alcuni, a mio avviso, nostalgici di un mondo che fu, in cui tutto era più chiaro e in cui ci si poteva schierare agevolmente, o ancora di un mondo “multipolare” che avrebbe come protagonisti i paesi BRICS con alla testa Cina e Russia. Credo però che bisogna operare una distinzione fra creazione del mercato mondiale, che è una caratteristica permanente e ineliminabile del modo di produzione capitalistico, pur con le sue diverse fasi, e la cosiddetta “globalizzazione”, intesa come la risposta data dal capitale alla crisi degli anni 70 e alla relativa caduta del saggio di profitto, con le sue caratteristiche specifiche che oggi sono entrate in una fase di crisi. Una risposta che ha portato attraverso processi di concentrazione globale, di megafusioni transnazionali e acquisizioni all’estero, al formarsi delle grandi multinazionali senza patria in concorrenza fra di loro per il controllo del mercato mondiale. Tuttavia mi sembra difficile riorientare la divisione internazionale del lavoro (con il conseguente commercio mondiale), affermatasi negli ultimi decenni, per costringerla entro i limiti di blocchi geopolitici, come sostengono i sostenitori della “fine della globalizzazione”. Facciamo solo l’esempio dei chips. E’ noto che già prima della guerra si erano verificate gravi disfunzioni in importanti filiere produttive per la mancanza o la carenza dei chips (microprocessori di computer) e di altri semilavorati che viaggiano lungo le catene produttive delocalizzate. La guerra in corso ha accentuato in maniera estrema questi processi. Recentemente il presidente Biden ha emesso il “Chips and Science Act 2022” il cui scopo è quello di riportare la produzione dei chips (semiconduttori) negli Stati Uniti. Ma fare gli ingenti investimenti in capitale fisso necessari per la costruzione di impianti industriali per la produzione dei famosi chips nelle attuali condizioni economiche non è per niente facile né immediatamente profittevole. Dal dire al fare c’è di mezzo il mare.
Visconte Grisi