Intervista a un compagno di Trieste che si è recato in Ungheria per osservare in prima persona e documentare la situazione che riguarda le persone in fuga dalla Siria e di passaggio nei paesi dell’Europa dell’Est. [NdR]
Come mai hai deciso di andare in Ungheria?
Ho deciso di andare in Ungheria quando ho visto sui giornali che le autorità ungheresi bloccavano i treni e che un folto gruppo di rifugiati decideva di dirigersi a piedi verso la frontiera austriaca. Purtroppo non sono riuscito a partire in tempo per seguire la marcia e non l’ho nemmeno vista, ma è stata questa la scintilla. Volevo vedere di persona cosa stesse succedendo e cercare di dare un’immagine diversa della crisi.
Dove sei stato?
Sono partito da Trieste il 9 settembre. In Ungheria sono stato alle stazioni di Budapest (Keleti, Deli e Nyugati), sul posto di confine austriaco/ungherese di Nickelsdorf/Hegyeshalom, alla stazione di Szeged, sul posto di confine serbo/ungherese di Horgoš/Röszke, nella transit zone e al campo di Röszke, ai campi di Ásotthalom e Mórahalom. In Serbia ho seguito i taxi e i bus che portavano i rifugiati sul posto di confine serbo/croato di Bezdan/Batina, con i primi gruppi che hanno sfondato il confine. In Croazia sono stato a Beli Manastir e ho visto da fuori il campo (detentivo!) di Ježevo (Dugo Selo), sono stato alle stazioni dei treni e dei bus di Zagabria, per seguire i taxi e bus che portavano i rifugiati verso Samobor, sul posto di confine croato/sloveno di Bregana/Obrežje.
Cosa hai visto? Quali sono le cose positive (individui, gruppi,…) che sono state messe in moto?
Quello che ho visto nelle tre stazioni di Budapest e lungo i confini austriaco e serbo durante l’emergenza può essere descritto come un vero e proprio miracolo umano. Ho visto centinaia di volontari, anche solo nelle stazioni di Budapest, lavorare incessantemente per fornire alimenti, acqua e vestiti alle persone in transito. Venivano fornite inoltre tende e posti letto oltre alla ricarica delle batterie dei telefoni, al wi-fi o tagli di capelli e barba gratuiti. Una vera macchina della solidarietà si è messa in moto per circa tre mesi. Nonostante l’estrema difficoltà della situazione, il lavoro dei volontari è stato determinante nell’alleviare le sofferenze di decine di migliaia di persone in transito attraverso l’Ungheria.
Nonostante il poco tempo, sei riuscito a creare delle relazioni? Cosa ti hanno raccontato, proposto, chiesto?
Nonostante il viaggio sia stato impegnativo sono riuscito a raccogliere i dati e le storie di alcune persone che ho ritratto, rifugiati ma anche volontari (europei ma non solo) e che vorrei incontrare in un prossimo futuro. Penso sia importante raccontare delle storie che abbiano una certa durata nel tempo, potrei dire quindi che questo è l’inizio. Ricordo la storia di un giovane ingegnere siriano che, arrivato nei pressi del confine ungherese, si era lavato e aveva indossato l’ultima maglietta pulita per passare il confine. Si aspettava ingenuamente di essere accolto e trovò ad aspettarlo l’esercito, la polizia in assetto antisommossa e una barriera pressoché insormontabile.
La tenda degli anarchici?
Arrivato alla transit-zone di Röszke (un accampamento di migliaia di persone, con una situazione igienica a dir poco allucinante) ho visto la tenda degli anarchici e antifascisti che, stando alle parole di un ceco conosciuto sul posto, era in piedi da parecchio tempo e che era il frutto della collaborazione tra anarchici austriaci e tedeschi. La tenda era autogestita e le persone cambiavano continuamente e su base ovviamente volontaria. Posso dire di aver visto cucinare e distribuire piatti e vivande nei momenti passati sul posto.
Cosa hai provato?
Le sensazioni che ho provato sono state assolutamente altalenanti. Gli spostamenti dei rifugiati non sono per niente lineari, almeno nel tratto fatto con loro. Il loro viaggio è fatto di spostamenti rapidi e improvvisi ma anche di blocchi che possono essere più o meno lunghi. Durante le partenze oppure durante il passaggio attraverso un confine aperto si percepisce entusiasmo e positività. I momenti peggiori sono ovviamente quelli in cui la via è bloccata, come per esempio è successo sulla ferrovia al confine di Röszke, dove si trova quel tristemente famoso vagone rosso coperto di filo spinato che blocca il passaggio verso l’Ungheria. La sera in cui ero lì ho visto fiumi di persone arrivare dopo un lungo tratto fatto a piedi, ricordo in particolare un giovane padre con in braccio la figlia di 6-7 giorni. Scoprirono che la frontiera era stata chiusa poche ore prima, la disperazione, l’incredulità e la rabbia erano le sensazioni che si percepivano in quei momenti e sono le stesse che hanno causato gli scontri del giorno dopo. Sono tornato a Trieste il 17 settembre.
L’intervista è a cura di Clara
Fotografie di Elio Germani
per approfondire www.shoot4change.eu/just-like-you-and-me/