Specchio della società. Le violenze nel carcere di Trapani.

Lo scorso 20 novembre sono stati resi noti gli esiti di una complessa indagine che ha interessato il carcere di Trapani e che ha portato all’arresto di undici agenti della polizia penitenziaria e alla sospensione dal servizio di altri quattordici secondini. Nel complesso, ben quarantasei persone sono indagate a vario titolo per reati gravi come tortura, abuso di autorità contro i detenuti, falso ideologico e calunnia.

Le indagini presero il via nel 2021 a seguito delle coraggiose denunce di alcuni detenuti, esasperati dal clima di vero e proprio terrore che si era instaurato tra le mura del “Pietro Cerulli”, il carcere di Trapani che in città tutti conoscono, da sempre, come “San Giuliano”. L’attività investigativa, svolta dal nucleo della polizia penitenziaria di Palermo, ha ricostruito le solite dinamiche aberranti che caratterizzano la vita delle carceri italiane e che, di tanto in tanto, vengono allo scoperto.

Cosa succedeva, dunque, a “San Giuliano”? Gli inquirenti hanno riferito di un sistematico uso della violenza, fisica e psicologica, da parte degli agenti della penitenziaria nei confronti dei detenuti: botte, umiliazioni, abusi. Al centro dell’inchiesta la sezione Blu delle carceri trapanesi, un reparto di isolamento inizialmente dedicato ai carcerati con problematiche ed esigenze particolari (immigrati, soggetti fragili o vulnerabili che necessitano di una sorveglianza speciale o che devono essere separati dal resto della popolazione carceraria per ragioni disciplinari o di sicurezza). Ma come nei peggiori esperimenti psico-sociali, l’efferatezza e il sadismo degli aguzzini in divisa sarebbero addirittura aumentati al cospetto di queste persone. Le indagini – supportate da intercettazioni e da immagini – avrebbero rivelato la presenza di una “squadretta”, un gruppo di agenti incaricato di reprimere i detenuti con metodi brutali e illegittimi: «Appena succede qualcosa, saliamo nel reparto… li sminchiamo [li riempiamo di botte, n.d.r.]» – avrebbe detto uno degli agenti intercettati, riferendosi ai detenuti – e se i dottori parlano «sminchiamo anche loro».

Il procuratore della Repubblica di Trapani, Gabriele Paci, ha espressamente parlato del carcere trapanese come di una «zona franca» nella quale la violenza era una prassi. Questa violenza sarebbe stata la soluzione adottata dai secondini per gestire le proteste sempre più frequenti dei detenuti, stanchi di una situazione di cronica invivibilità del penitenziario.

Nello specifico, tra le tante schifezze riferite dalle autorità, i detenuti venivano picchiati con schiaffi, pugni, calci e talvolta trascinati lungo i corridoi della sezione, spesso già immobilizzati e incapaci di reagire.

In altri casi gli indagati avrebbero buttato acqua e piscio addosso ai prigionieri, umiliandoli e deridendoli. Oppure è successo che i detenuti stranieri venissero costretti a spogliarsi davanti agli agenti e ai loro colleghi, tra risate e commenti offensivi sulle dimensioni dei genitali, il tutto condito da prevedibili insulti razzisti. Non tutti i carcerieri erano direttamente coinvolti negli abusi, ma è emerso che numerosi agenti – pur presenti durante gli episodi di violenza – avrebbero omesso di intervenire. Un clima di impunità e di cameratesca omertà rafforzato da numerose relazioni di servizio nelle quali i detenuti sono stati falsamente accusati di aggressioni o comportamenti violenti.

Come sempre avviene in questi casi, le (poche) reazioni da parte delle istituzioni o delle forze politiche sono state tutte improntate allo sdegno, da un lato, e alla doverosa necessità, dall’altro, di isolare le “mele marce” che infangano la rispettabilità e il buon nome di tutto il corpo di polizia penitenziaria.

Noi non sentiamo il dovere di essere garantisti nei confronti di soggetti che operano attivamente all’interno di un’istituzione totale come il carcere, e quindi non ci accoderemo al coro di chi difende a ogni costo la necessità del carcere come uno strumento socialmente utile per la “rieducazione” o il “reinserimento” in società di chi ha sbagliato.

Agli inquirenti, se vorranno o ne saranno capaci, spetterà il compito di fare completa luce su quello che è successo nei corridoi e nelle celle della sezione Blu di “San Giuliano”. A noi spetta il compito di analizzare da un punto di vista sociale e politico l’ennesima notizia di cronaca in cui un carcere italiano si disvela come un luogo in cui si consumano torture e abusi di ogni tipo.

La violenza all’interno dei penitenziari non è un fatto episodico ma sistemico. I fatti di Trapani offrono uno spaccato brutale della violenza sulla quale si fonda il carcere, qualunque carcere, come istituzione concepita per dare corpo alla vendetta dello stato. La violenza carceraria è speculare alla violenza che si consuma nella società e non potrebbe essere altrimenti. La cultura gerarchica che sta a fondamento della società gerarchica in cui viviamo non potrà mai produrre un carcere “rieducativo” perché è una contraddizione in termini del tutto irrisolvibile con gli strumenti del diritto così come lo abbiamo sempre conosciuto. Se la legge cristallizza e dà forma ai rapporti di forza violenti e gerarchici all’interno della società, la sua estrinsecazione repressiva non potrà mai generare alcunché di buono o di umano e, in maniera del tutto naturale, contribuirà a perpetuare altra ingiustizia, altra violenza, altra sopraffazione.

Ecco perché siamo francamente stanchi di sentir parlare, ogni volta, di poche “mele marce”. Perché pur tenendo in considerazione che ogni individuo, se vuole, può comportarsi decentemente anche in un ruolo intrinsecamente repressivo, siamo altrettanto consapevoli di quanto sia labile e angusto questo perimetro di autonomia e di coscienza in un contesto disumano e disumanizzante come il carcere.

No, noi non salviamo la “parte buona” delle carceri e di chi ci lavora, semplicemente perché non crediamo alla bontà del carcere. Notizie come quelle provenienti da Trapani non ci sorprenderanno mai finché esisteranno le carceri e finché violenza e conflitti saranno i prodotti ineluttabili di una società fondata sulla disuguaglianza e sul dominio.

Alberto La Via

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