Società e sanità tra polemiche e lockdown

Le ultime settimane sono state segnate da un certo fermento.[1] Piazze che si sono accese più o meno spontaneamente, con i consueti ed infelici tentativi infruttuosi di replica dopo alcuni giorni, tentativi farina del sacco di un ceto politico sostanzialmente incapace di incarnare un dissenso che sia genuinamente popolare. Lo abbiamo più e più volte visto, vi stiamo assistendo e probabilmente lo rivedremo ancora questo triste spettacolo. Le cause possono essere molteplici,[2] ma sta di fatto che la difficoltà interpretativa non è solo colpa del mero scollamento tra “pratiche antagoniste” e la realtà praticata ed esperita dal corpo sociale.
È proprio la definizione di quest’ultimo che tende a sfuggire ad una qualsivoglia definizione, quantunque definirlo assuma un significato particolare in questo preciso momento di crisi. Forse mai come ora, dagli scorsi trent’anni,[3] si avverte la necessità di poter descrivere la complessità che ci determina come individui letteralmente sciolti in una nube sociale, a tratti rarefatta. L’interpretazione e la definizione di quello che per comodità definiamo quindi corpo sociale non è un aspetto da accademici orfani di una definizione elegante, un orpello per dare un significato a qualche parola altisonante di nuovo conio.
Definire l’essenza di una società è di primaria importanza se si vuole tentare di capire dove si sta andando a finire. Se, tornando alla cronaca, si tentasse di capire il perché del proliferare di momenti di protesta, senza avere chiaro in mente che non è possibile concedersi il lusso della generalizzazione, si finirebbe per etichettare tutto come sommovimento eterodiretto o peggio ancora proteste da bottegai insoddisfatti. Niente di più sbagliato o segno di assoluta miopia. C’è un problema di fondo che deve essere messo sul tavolo del dibattito, cioé la visione che il corpo sociale ha dell’emergenza che non è e non può essere considerata una visione omogenea e univoca. Banalmente chi ha avuto contati con la pandemia, per esperienza diretta, assume l’aspetto sanitario come problema prevalente; chi vive la pandemia subendone le conseguenze economiche vede nel lockdown il problema principale.
Questo dato già di per sé spacca la visione almeno in due macro categorie contrapposte, chi chiede il blocco e chi lo vuole togliere. Se nel ragionamento, che noi continuiamo a tenere nell’ambito della dialettizzazione del problema ma che nella realtà sociale tende a scadere nella polemica, inseriamo la situazione disastrosa della sanità in molte regioni del Paese, allora ci troviamo ad affrontare un discorso disarticolato dal rimpallo delle responsabilità tra governo e regioni. Chi doveva fare cosa e chi non ha fatto quel che doveva? Le regioni accusano il governo di non aver ottemperato alle promesse, il governo contrattacca sostenendo che la responsabilità della sanità è demandata alle regioni in un ping pong massacrante che si risolve in ospedali al collasso.
Da qui l’immane confusione, amplificata dalle polemiche di chi tenta di ricostituirsi uno straccio di elettorato menando strali su tutto e tutti e, nel mezzo, monta comunque un senso di frustrazione e rabbia, alimentata da una totale incomprensione degli eventi. L’alternanza di esperti che dicono tutto e il contrario di tutto, l’incertezza di cure per il virus, l’incertezza di fondi per colmare la mancanza di reddito (vuoi per licenziamento, vuoi per chiusura forzata dell’attività o per il rallentamento delle attività produttive), il tutto inserito in una macchina decisionale che sforna decreti contraddittori che finiscono per adottare misure inique tra categorie economiche e soggetti sociali. Si innescano le guerre tra poveri e tra categorie protette e non, si innalzano altari per i martiri del COVID-19, per seppellire le varie responsabilità dietro al cordoglio. La lista di camici morti sarebbe potuta essere molto più corta se il sistema sanitario fosse stato pronto e non decimato da tagli da un lato e ruberie dall’altro.
Le contraddizioni che da molto tempo avevamo davanti agli occhi ora esplodono, a volte come fossero delle novità. Il problema risiede in una società oramai avvezza alle contraddizioni che su queste si fonda, che però reagisce quando diventano macroscopiche, quando non interessano solo “gli altri” ma investono in pieno tutta la struttura socio-economica, senza sconti per nessuno o quasi, in quanto c’è sempre qualche preferenza dettata proprio dalla contraddittorietà dell’organizzazione sociale, che deve necessariamente ammettere la disparità tra soggetti per portare avanti il suo compito principale, che è quello di riprodurre il capitale prima che sé stessa. La confusione che si genera non è figlia della crisi in sé o della contingenza della fase ma, in questo momento, se mai viene alla luce come un elemento covato da tempo. Tanto una confusione oggettiva, relativa alla scarsa conoscenza dei processi, cioé l’impossibilità di sondare la complessità in atto, quanto una confusione soggettiva, causata dalla coesistenza di opinioni contrastanti nella stessa linea di pensiero, alimentano un senso di spaesamento, smarrimento e incertezza che sfociano in rabbia.
Con la rabbia dovrebbe esplodere anche qualche consapevolezza se solo si riuscisse a mettere un po’ di ordine in questo delirio. Purtroppo molto spesso si è contribuito all’entropia comunicativa immettendo informazioni imprecise, finite poi in pasto a meccanismi di diffusione virali, forse addirittura peggiori dello stesso COVID-19. Per troppo tempo si è indugiato nell’errore di associare l’informazione alla conoscenza: questo ha illuso molti di dominare la complessità del nostro tempo, ha creato una sorta di consapevolezza assolutamente inconsistente che è stata poi spazzata via dalle prime evidenze poste in essere dalla pandemia. Ci risvegliamo con la nave che affonda, con la consapevolezza dell’impotenza o dell’incapacità degli ufficiali al comando di governare nella tempesta.
Fuor di metafora, ritroviamo l’inconsistenza dell’agire politico intrappolato da richieste economiche diametralmente opposte a quelle necessarie alla sopravvivenza del corpo sociale. Un teatrino delle ombre nel quale va in scena una farsa clamorosa fatta di scambi di accuse e questioni di principio in una assurda pantomima tra chi non ha idea di come tenere sullo stesso piano la salute pubblica e l’economia. Finendo poi, purtroppo, per scegliere la salute economica dei soli pezzi grossi, sacrificando tutto il resto, forse nella macabra speranza di eliminare la povertà eliminando direttamente i poveri lasciando che la natura della pandemia faccia il suo corso.

Questo ci riporta al punto iniziale della trattazione, il punto sanitario. La complessità delle contraddizioni insite nel sistema sanitario nazionale, peraltro se non proprio note a tutti quantomeno osservabili ad uno sguardo lievemente più approfondito di una rapida occhiata alla cronaca, è quantomeno un fattore decisivo nel sentimento rancoroso che serpeggia tra la gente.

Se però per la “malasanità” si infiammavano gli animi e gli autonominatisi tribuni del popolo tuonavano per l’indignazione dalle loro trasmissioni televisive, allora la memoria collettiva si resettava. Dimentica dei disastri e degli scandali la popolazione forse immaginava che il sistema per quanto traballante avrebbe retto il colpo: ovviamente speranze vane – spesso la polemica sulla malasanità nascondeva tutte quelle contraddizioni oggi esplose. Per ogni disgraziato che moriva sotto i ferri c’era forse tra un chirurgo malaccorto e/o una macchina difettosa, qualche medico alla suo ennesimo intervento della giornata, o un anestesista in straordinario permanente, o poco tempo per sterilizzare i blocco operatorio. Stendere però tutto sotto la pialla mediatica dell’aggettivo che catalizza l’attenzione è più conveniente per tutti.
Così, di aggettivo in aggettivo, costruiamo un immaginario fatto di luoghi comuni, perorati da cronache e statistiche ben confezionate. Immaginario valevole per ogni situazione, la scuola, i trasporti, la previdenza sociale ecc.: una sorta di presa d’atto che le cose stanno così e che nessuno può farci nulla. Fintanto che tutto resta nella routine e non capita qualcosa che manda gambe all’aria un sistema già di per sé instabile allora esplode la rabbia e, se poi il sistema in crisi innesca un effetto domino che tira dietro tutto il resto della struttura, ecco che si alzano le urla e si scende in piazza. Mimando però esattamente lo stesso sciatto copione di chi poi si addita come responsabili. Urla che si alzano verso “i palazzi” ma solo ora che il danno è fatto, come nella migliore tradizione dei governi che corrono ai ripari a tragedia avvenuta. D’altronde se uno Stato è nel bene e nel male l’astrazione che però fonda le sue radici nella concretezza di un processo socio-culturale, non è poi così anomalo che la popolazione ricalchi il solco tracciato dagli apparati.
Anni di precarizzazione, di smantellamento di tutto ciò che poteva costituire una spesa “superflua” non hanno arrestato la voracità di chi ha preso il servizio pubblico come bancomat personale, come bacino di preferenze ed elargizione di lavori o spartizione di appalti. Non è questo che ha destato troppa preoccupazione, dal momento che ad un processo cronico, quello delle clientele sanitarie, si è associato quello del riassetto territoriale e della chiusura dei vari presidi con il pretesto di ridurre le spese. Quello che era, ed è, sotto gli occhi di tutti è che chiudendo i rubinetti solo i più grossi continuavano a gestire i rimanenti flussi di finanziamento e a poco servivano le nomine di commissari plenipotenziari, se i pieni poteri si estrinsecavano nel contenimento della spesa e nel ripianamento del bilancio attraverso la nomina di direttori generali o nella loro rimozione, nella gestione dell’edilizia sanitaria o nell’essere coadiuvato da reparti di carabinieri e GdF. Estromettere e nominare direttori generali o amministrativi, peraltro tutte nomine politiche, suona un po’ come spoil system. Semplici cambi a vertice di varie consorterie, tanto è vero che l’alternarsi di vari commissari non pare aver spostato di un millimetro la situazione in alcune regioni, come ad esempio la Calabria.
Tutti nodi che vengono al pettine nel momento peggiore ma non poteva essere altrimenti. Monta la rabbia di un corpo sociale seriamente compromesso e disgregato, che trova momenti di accumulazione ma sempre fuori da istanze di rappresentabilità. Un corpo sociale schiacciato quindi tra la sfiducia e l’insofferenza, tradito da chi gli prometteva cambiamento e nonostante tutto non ancora stanco di delegare. Un’amalgama gassosa che ogni tanto ha degli stati di condensazione ai quali però vuole tenere fuori ogni situazione organizzata, ogni componente in conflitto con le altre, anche all’interno di macro-tematiche che dovrebbero essere ricompositive. Traiettorie individualiste, tracciate da un sistema socio-economico che punta ad annichilire la visione mutualistica della società puntando ad una disgregazione sempre più fine.
J.R.
NOTE
[1] Articolo scritto il 15.11.2020.
[2] J.R., “Frustrazione Movimentista e Derive Elettoraliste”, in Umanità Nova, https://www.umanitanova.org/?p=12767
[3] Ci si riferisce al supposto spartiacque storico del 1989 (caduta del “muro”) ma, a ben vedere, la rarefazione del corpo sociale aveva già dato avvisaglie della sua presenza stabile da qualche anno, con l’inizio del processo di deindustrializzazione in favore della produzione di servizi: di lì a poco si sarebbe scatenata la new economy tutta basata sull’economia immateriale, facendo dell’informatizzazione dei processi di produzione e di scambio un valore in sé, cominciando a farsi strada processi di implementazione degli investimenti che sfruttano la velocità delle reti informatiche.

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