Il 14 maggio, c’è stata la sentenza di primo grado contro i 63 imputati e imputate nel “secondo troncone” del processo per la manifestazione contro le frontiere del 7 maggio 2016 al Brennero (1).
L’accusa di “devastazione e saccheggio” – con la quale il PM aveva chiesto il doppio delle condanne rispetto a quelle comminate– è caduta, ma il giudice ha calcato il più possibile la mano sugli altri reati (principalmente “danneggiamento” e “resistenza”), aggiungendovi il “concorso morale”. Risultato: tutti condannati, pochi a meno di un anno, molti a pene sopra i 3 anni, più d’uno a 5, per arrivare in un caso ai 6 anni di carcere. Anche il fatto che la condanna più alta sia stata comminata a un compagno che durante il corteo parlava al megafono dimostra che il giudice ha mantenuto inalterato il copione di PM-Digos-Ros . Se aggiungiamo che il processo si è svolto con rito abbreviato, per cui le condanne sono già “scontate di un terzo”, quello di ieri è assomigliato più che un processo a un plotone di esecuzione che si muove con la flemma di un burocrate.
Un compagno