Lo scorso 6 maggio si è svolto lo sciopero generale della scuola indetto dal sindacalismo di base. In piazza sono state portate le problematiche ormai strutturali di un settore che da anni reagisce con decisione ad un profondo piano di ristrutturazione che nell’ultimo periodo, sfruttando l’emergenza sanitaria, punta a ridefinire la scuola in senso aziendalistico più di quanto non sia finora avvenuto.
Secondo i primi dati, lo sciopero ha visto un’adesione tripla rispetto a quella degli ultimi scioperi nazionali, quello dell’8 giugno 2020, indetto da CGIL, CISL, UIL, Gilda e SNALS, e a quello dello scorso 26 marzo, indetto dai soli Cobas. Molte le ragioni dello sciopero.
La richiesta, di per sé semplice, di abbassamento del numero di alunni per classe e conseguente aumento del personale e stabilizzazione dei precari, unita a quella altrettanto semplice di reperimento di spazi idonei e sicuri con adeguati interventi di edilizia scolastica, è stata ignorata dall’arroganza governativa e dalle complicità delle grandi centrali dei sindacati concertativi, ben sollecitate dagli interessi di Chiesa, Confindustria e Terzo settore. Richieste semplici e non nuove, perché da anni rivendicate da chi si oppone alle politiche dei tagli, tanto più urgenti per affrontare un periodo di emergenza sanitaria ancora aperta.
Invece anche quest’anno il decreto sugli organici recentemente emanato impone, per il prossimo anno scolastico, classi costituite con un minimo di 27 alunni, con la possibilità di arrivare a 32 per la redistribuzione dei resti. Una misera realtà a fronte delle millantate risorse che sarebbero previste nel Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR). Lo sciopero del 6 maggio ha messo decisamente in evidenza tutti i limiti presenti nel Piano e come esso nefastamente si inquadri nel percorso iniziato dall’Unione Europea con Lisbona 2000, funzionale alla costruzione di una scuola asservita alle imprese, alle esigenze dei privati, una scuola che blatera di inclusione mentre costruisce mattone su mattone l’esclusione delle ceti popolari e dei settori più fragili.
Degli oltre 32 miliardi destinati alla scuola dal PNRR solo 4 miliardi sono destinati alla messa in sicurezza e alla riqualificazione degli edifici scolastici. In nessuna parte del Piano si trova un riferimento alle assunzioni necessarie; dalle cifre previste per la formazione iniziale, che non arrivano a 1 miliardo, si deduce però che le assunzioni saranno molto poche, visto che per assumere gli oltre 200.000 docenti e 60.000 Ata che occorrerebbero, secondo le stime dei sindacati di base, le risorse per la formazione dovrebbero essere intorno agli 8 miliardi. Il grosso delle risorse andrà al processo di digitalizzazione, dal cablaggio degli edifici all’innalzamento delle competenze digitali, in linea con una assunzione della didattica digitale integrata, nuovo nome della DaD, come elemento stabile e ordinario della didattica. Finanziamenti importanti verranno riservati anche al settore della scuola dell’infanzia, segmento escluso dall’obbligo scolastico, gestito prevalentemente dagli enti locali e, soprattutto in alcune zone del paese, dalla Chiesa cattolica, il che la dice lunga sull’utilizzo politico di questi fondi. Ribadito, come prevedibile, il foraggiamento perpetuo del carrozzone Invalsi; nessun impegno invece sulla possibile internalizzazione di figure che a scuola ormai sono presenti da tempo come educatori, assistenti all’autonomia e alla comunicazione, su cui ancora dominerà l’esternalizzazione clientelare alle cooperative, centrali dello sfruttamento per migliaia di lavoratori. Questo il grande bluff del PNRR contro il quale la piazza del 6 maggio ha rivolto la sua protesta, insieme a molte altre questioni, tra cui quella del Piano scuole Estate.
Ben 520 milioni di euro, a dimostrazione che i soldi ci sono, verranno sperperati per finanziare l’apertura estiva delle scuole allo scopo di recuperare le fragilità, la perdita di competenze e la perdita di socializzazione dovuta alle ripercussioni del Covid sulla scuola. Cioè: si continua a formare classi pollaio, si impone per tutto l’anno, da settembre a giugno, un sistema che crea fragilità e poi d’estate si buttano soldi per creare attività di recupero ghettizzanti, perché riservate ai fragili da recuperare. Certo, se si vuole creare una zona in cui il terzo settore laico o cattolico possa inserirsi con prerogative che si saldano con quelle previste dal PNRR e in cui il lavoro estivo dei docenti, per ora volontario, possa divenire poi obbligatorio, la strada è questa. Nessun accenno peraltro nel Piano Estate a come sostenere questa apertura estiva. L’organico supplementare Covid verrà licenziato infatti il 10 giugno e non si sa con quali risorse si potrà provvedere alle aperture, alle igienizzazioni, alla gestione dei protocolli di sicurezza, nelle scuole, visto che siamo ancora in fase di emergenza sanitaria.
La visione della scuola che esce fuori dal piano oscilla tra quella di maternage per gli studenti più piccoli a quella di addestratrice di forza lavoro per i più grandi. Le carenze della scuola per l’infanzia vengono prese di mira perché “condiziona negativamente l’offerta di lavoro femminile e riduce il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro”: una misera motivazione in pinkwashing che mostra in realtà il generoso dono ai settori cattolici. Emblematica anche l’implementazione delle scienze motorie prevista nel PNRR, altro generoso dono a carrozzoni come il C.O.N.I. che dal fascismo in poi non cessano di esercitare la loro longa manus sulla scuola.
L’’ottica aziendalistica presente nel Piano riduce l’istruzione degli studenti più grandi al solo addestramento professionale, funzionale all’interesse delle aziende e di un mercato del lavoro che si alimenta solo con precarietà e sfruttamento. In realtà la specializzazione è inutile e pericolosa. È inutile perché le tecnologie e le operazioni, soprattutto nei settori più avanzati, fanno parte delle conoscenze più riservate delle aziende e la formazione scolastica può dare solo i rudimenti, d’altra parte la specializzazione rappresenta un pericolo, vista la continua trasformazione dei processi produttivi e la discontinuità dei contratti di lavoro, per cui un giovane può fare tre mesi come saldatore per poi trovare lavoro come aiuto cuoco e poi ancora come rider.
In realtà lo scopo della formazione professionale è quello di dare una giustificazione “oggettiva” alla stratificazione sociale: non hai studiato abbastanza e quindi è inevitabile che tu occupi gli scalini più bassi della scala sociale. Da qui l’accettazione della gerarchia e la strumentale esaltazione della tecnologia.
Allo stesso modo in cui l’approccio tecnologico nasconde il disordine di un processo produttivo organizzato dal singolo capitalista per il proprio profitto individuale, la stratificazione scolastica (la logica del merito) nasconde le cause sociali della disoccupazione: competenze digitali o meno, l’innalzamento dell’età della pensione, con il conseguente prolungamento del tempo di lavoro, ha provocato la diminuzione dei posti di lavoro disponibili per i giovani. Allo stesso modo, la disoccupazione provocata dall’innovazione tecnologica può essere combattuta non con le competenze STEM, ma riducendo l’orario di lavoro a parità di paga.
Il PNRR è quindi anche una grande operazione propagandistica, destinata a rinviare a domani la necessaria resa dei conti. Prioritari per il governo rimangono i profitti dei banchieri e dei grandi gruppi industriali, le prebende dei fannulloni del sistema, preti e militari, non i servizi pubblici (come la scuola) efficienti per tutti e soprattutto per i ceti popolari.
Il PNRR rappresenta un’altra stretta del cappio rappresentato dal vincolo internazionale sulle condizioni di vita e di lavoro di milioni di proletari. Non è vero che il governo Draghi rappresenta una svolta: è quasi trent’anni che tutti i governi hanno giustificato le loro misure antipopolari con le richieste europee; è trent’anni che prendiamo questa medicina, e stiamo sempre peggio, mentre c’è chi si arricchisce! La retorica del lavoro e del rischio calcolato significa, in parole povere, proprio questo: alla lavoratrici e ai lavoratori la fatica e il rischio, a loro il calcolo dei profitti fatti sulla nostra pelle.
Le lavoratrici e i lavoratori della scuola hanno alle spalle lunghi anni di lotte in cui hanno contrastato le manovre di ristrutturazione che si sono volute portare alla scuola e, anche questa volta, hanno dimostrato di saper dare una lettura critica e demistificante dei processi in atto, smascherando ciò che c’è dietro a Recovery, PNRR, Piano Scuole Estate, denunciando le ormai annose politiche di tagli e l’attacco ai lavoratori della scuola. Lo hanno fatto partecipando allo sciopero e facendo sentire la loro voce nelle piazze ma lo fanno soprattutto quotidianamente, sui posti di lavoro, contrastando giorno per giorno le logiche aziendalistiche dei dirigenti, del ministero, del governo.
Il 22 e 23 giugno prossimi si terrà a Catania la riunione ministeriale del G20 dedicata a Lavoro e Istruzione. Il G20 riunisce i ministri e i governatori delle banche centrali dei 20 paesi più industrializzati. La riunione ha lo scopo di coordinare a livello internazionale l’azione dei governi. Anche questa potrà essere quindi un’occasione importante per far sentire la nostra protesta contro le politiche governative sull’istruzione.
Tiziano Antonelli