Rojava: ancora bombardamenti della Turchia

I nuovi bombardamenti dello stato turco nel Nord-Est della Siria nella notte tra il 5 e il 6 ottobre hanno segnato l’inizio di una nuova serie di attacchi da parte di Ankara. In poco più di una settimana questa operazione militare delle Forze armate turche ha colpito con attacchi aerei, missili e bombardamenti d’artiglieria l’area di Kobane, Sarrin e Manbij nel Nord Ovest, e le aree di Hasake, Qamishlo e Tel Tamr, nel Nord Est.

Anche questa volta i bombardamenti sono presentati dal governo turco come una risposta al “terrorismo”. È infatti in seguito ad un attentato esplosivo ad Ankara lo scorso 1 ottobre, di fronte alla sede del Ministero degli Interni, rivendicato dal PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), che dopo poche ore sono iniziati i raid della Turchia. Prima nel Nord dell’Iraq, verso “obiettivi del PKK” come dichiarato dal Ministero della Difesa turco, e poi, nei giorni successivi, nel Nord Est della Siria dal momento che il capo del governo turco Davutoğlu ha indicato le YPG (Unità di difesa del Popolo) come responsabili dell’attentato insieme al PKK.

Uno schema già visto. Da anni ormai con operazioni di bombardamento e con invasioni di terra lo stato turco ha cercato di distruggere l’esperimento politico e sociale che nel Rojava ha provato a realizzare, pur nelle grandi contraddizioni della guerra, il confederalismo democratico. Modello ideologico sincretico a cui è approdato il movimento curdo di liberazione che fa riferimento ad Abdullah Öcalan a partire dalla metà degli anni ’90 dello scorso secolo. Sia il PKK, attivo nel territorio dello stato turco, sia le YPG, milizia del PYD (Partito dell’Unità Democratica), attivo all’interno dei confini della Siria, fanno riferimento a questa corrente politica. Ma la sovrapposizione tra PKK e YPG è funzionale solo alla propaganda dello stato turco a sostegno della politica di guerra condotta da Ankara, nel tentativo di legittimarne l’intervento nel Nord-Est della Siria.

Che questo argomento non sia altro che un pretesto e che i raid delle forze armate turche non siano realmente una risposta agli attentati, è chiarissimo se andiamo a vedere quali sono gli obiettivi di queste operazioni di bombardamento. Gli attacchi di questi giorni hanno portato alla distruzione di otto centrali elettriche, dodici stazioni petrolifere, due stazioni idriche e due ospedali specializzati per COVID-19. Inoltre, sono stati colpiti quattro avamposti militari appartenenti alle SDF (Forze Democratiche Siriane), coalizione militare di cui le YPG sono componente centrale. La tipologia degli obiettivi colpiti rende chiaro l’effettivo scopo di questi raid: colpire le infrastrutture vitali per l’economia e la società. Infatti la strategia di lungo periodo dello stato turco nel Nord-Est della Siria è quella di eliminare il pericoloso modello alternativo rappresentato dall’esperienza del Rojava, costringere la popolazione alla fuga, occupare vaste aree all’interno del territorio siriano. Dopotutto è quello che da sei anni il governo turco sta facendo con le successive operazioni a Idlib, a Afrin, a Serê Kaniyê. Il programma dichiarato di Ankara e avallato dalle potenze mondiali è quello di occupare una fascia di territorio di 650 km lungo il confine con la Siria, con la profondità di 30 km. Questo piano ha lo scopo di occupare le basi del movimento curdo di liberazione nella regione e annientare le radici anche ideali delle importanti sperimentazioni sociali in atto, ma ha probabilmente anche un fine espansionistico, dal momento che la costituzione di questa fascia militarizzata muoverebbe, almeno di fatto, i confini della Turchia 30 km più a Sud.

Di questa nuova fase della guerra condotta dalla Turchia nel Nord-Est della Siria, in Italia si è parlato molto poco, anche negli ambienti da sempre più sensibili alle iniziative di solidarietà.

Molte persone lo hanno saputo solo dopo la notizia dei cinque giovani attivisti torinesi arrestati nei giorni scorsi nella città di Şanlıurfa in Turchia nel corso di una conferenza stampa del YSP (Partito della Sinistra Verde) contro la nuova fase di guerra lanciata da Ankara. Dopo la stretta autoritaria imposta da Erdoğan in seguito il fallito colpo di stato del 2016, anche le conferenze stampa sono spesso interrotte e sciolte con la forza dalla polizia, i partecipanti vengono malmenati, fermati e torturati per essere rilasciati nei giorni seguenti, spesso con incriminazioni a loro carico. I cinque torinesi, fermati insieme ad altri dieci attivisti internazionali e numerosi altri esponenti della sinistra locale, dopo essere stati tradotti in un centro per i rimpatri, sono stati rispediti in Italia venerdì scorso.

Casi come questo non devono purtroppo stupirci. Negli ultimi 6 anni in Turchia le diverse correnti rivoluzionarie, ma anche l’opposizione dei partiti istituzionali e il dissenso in genere, sono stati posti sotto una stretta repressione, combattuta come una guerra. Arresti di massa, torture, assassinii politici, stragi, bombe nelle piazze e nelle stazioni, scioglimento di organizzazioni, coprifuoco, fino al bombardamento delle città in cui si sviluppavano forti movimenti antigovernativi. L’opposizione alla guerra condotta dalla Turchia nel Nord-Est della Siria è stata silenziata con il sangue.

In questi mesi si sta concludendo il lungo processo voluto dal governo di Ankara per mettere fuori legge il partito di opposizione HDP (Partito Democratico dei Popoli), nato dalla spinta del movimento curdo, e l’ampia area di opposizione che si riuniva attorno a quella formazione sta sostenendo la creazione di un nuovo riferimento, l’HEDEP (Partito dell’Eguaglianza e della Democrazia dei Popoli), nato il 15 ottobre scorso come trasformazione del YSP. Certo si comprende che, coerentemente con la scelta del parlamentarismo, in vista delle elezioni amministrative che si terranno nella prossima primavera in Turchia questa area dell’opposizione voglia mettersi al sicuro dalle montature repressive, creando un nuovo partito che permetta di partecipare legalmente alle elezioni. Tuttavia osservando gli eventi degli ultimi anni non è possibile ignorare come la via parlamentare, in un regime autoritario consolidato, militarizzato e costantemente in guerra come quello turco, rischi sempre più di diventare non solo un’illusione ma una vera e propria trappola. Non solo infatti il gioco elettorale è più truccato che mai, ma nel momento in cui la competizione elettorale rimane l’unica forma di mobilitazione politica e sociale consentita, e comunque fortemente repressa, è chi gestisce il potere a fare delle elezioni stesse un momento di controllo, legittimazione e costruzione del consenso. Dopotutto il blocco religioso-fascista che governa la Turchia, a pochi anni dal ribaltamento dell’ordinamento politico con il passaggio dal parlamentarismo al presidenzialismo, vorrebbe addirittura riscrivere da zero una nuova costituzione per il paese. Come finora avevano fatto solo le dittature militari, prima nel 1961 e poi nel 1982. Il militarismo è l’essenza del potere in Turchia.

Intanto Erdoğan si prepara a celebrare il centenario della fondazione della Repubblica, che certo sarà un grande momento di propaganda. Pur nella profonda crisi economica e sociale che attraversa il paese, il blocco di potere religioso-fascista al governo si è mantenuto in sella e lo ha fatto in buona parte attraverso la guerra. È presto per dire se i bombardamenti di questi giorni sono apripista per una nuova invasione via terra del Nord-Est della Siria. Ma certamente una nuova invasione è nei piani a breve termine di Ankara.

Pochi giorni fa, il 10 ottobre, ricorreva l’ottavo anniversario della strage di Ankara, quando alcune bombe furono fatte esplodere presso la stazione al passaggio di una grande manifestazione per la pace. 103 morti e oltre 200 feriti. Tra le vittime anche compagni anarchici, come Ali Kitapçı e Tayfun Benol. Una strage di stato per terrorizzare la società, stroncare nel sangue ogni forma di opposizione, impedire che si sviluppasse un nuovo movimento antigovernativo. È importante ricordare questi fatti per comprendere come le bombe del 2015, le stragi di stato di Amed, Suruç, Ankara, la repressione sanguinaria, non fossero altro che i primi passi della guerra controrivoluzionaria che oggi la Turchia continua a portare avanti, e di cui sono parte anche i bombardamenti di questi giorni nel Nord-Est della Siria. Per questo è importante rilanciare iniziative di solidarietà per la cessazione immediata dei bombardamenti e che denuncino anche la collaborazione dello stato italiano con Ankara, dall’inquietante caso dell’arresto di Devrim Akcadag in Sardegna, alla continua collaborazione militare nel quadro della NATO e non solo.

Per questo è importante rimarcare in queste iniziative la prospettiva rivoluzionaria, di trasformazione sociale, come unica via d’uscita alla spirale di guerra e autoritarismo imposta dai governi.

DA

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