L’ennesima violazione dei dati ai danni degli utenti di FaceBook, che ha coinvolto più di 530 milioni di profili,[1] risale agli inizi di aprile e non è stata messa in particolare evidenza dai mass-media perché notizie del genere sono ormai diventate talmente comuni da non meritare troppa attenzione, mentre per le singole persone coinvolte la faccenda potrebbe anche essere di estrema importanza.
Una importanza che, in tempi come quelli che stiamo vivendo, mette ancora maggiormente in evidenza il rapporto tra la riservatezza che dovrebbero avere i nostri dati personali e la tecnologia dell’informazione digitale che, in questi ultimi tredici mesi, ha aumentato esponenzialmente il suo peso nella vita individuale e collettiva.
Non è certo un segreto l’impennata nell’utilizzo dell’informatica e della telematica in tutti i settori: la didattica a distanza, il lavoro agile, le applicazioni connesse al Sistema Sanitario, solo per citare le aree più direttamente coinvolte. Una centralità che ha costretto, anche coloro che in precedenza erano riusciti a evitarlo, a confrontarsi con la “cittadinanza digitale” e tutti i suoi problemi.
Il rischio concreto che si sta correndo è che molti dei sistemi e delle tecnologie che in questi mesi si sono diffuse in modo così ampio continueranno a essere usate anche quando sarà tutto finito. Stato e governi hanno spinto e continuano a farlo, come mai era accaduto prima, verso comportamenti che comportano l’acquisizione massiccia di ogni genere di informazioni relative alla popolazione e difficilmente rinunceranno poi a usarli, per scopi molto meno nobili.
Per questo motivo è fondamentale, adesso più che mai, denunciare l’accumulo e la conservazione a lungo termine dei dati, senza che siano assolutamente necessari e adeguatamente protetti, anche nel caso venga fatto con la scusa di salvaguardare la salute pubblica. Bisogna contrastare questa raccolta di informazioni personali quando va a intaccare le libertà civili e i diritti inviolabili, soprattutto in alcuni settori nei quali più che in altri si presentano il maggior numero di rischi.
Uno di quelli più delicati riguarda le tecnologie di riconoscimento biometrico: oggi, per accedere in qualsiasi luogo al chiuso, si è obbligati a passare davanti a una telecamera che rileva la temperatura corporea e controlla se indossiamo una mascherina. Nella maggior parte dei casi queste telecamere non dovrebbero conservare le immagini che registrano ma alcune di esse potrebbero facilmente essere collegate a sistemi – collocati altrove – dove invece questa conservazione avviene. I volti delle persone, usati in combinazione con programmi per il riconoscimento facciale, possono essere usati per il tracciamento degli spostamenti personali e quindi per un controllo estremamente invadente della vita di un individuo. Un caso, abbastanza inquietante, racconta di un cittadino moscovita, uscito di casa per buttare la spazzatura, che si è trovato dopo poco la polizia alla porta che lo ha multato per violazione della quarantena.[2] Negli Stati Uniti d’America alcuni istituti scolastici hanno acquistato videocamere che oltre a controllare la temperatura hanno anche capacità di riconoscimento facciale.[3] Nel settore dell’istruzione, però, questo non è certo l’unico problema.
La didattica a distanza, mettendo da parte il dibattito relativo alla sua validità pedagogica, è basata sull’uso intensivo di piattaforme quasi sempre di proprietà di grandi aziende private che traggono i loro profitti dalla commercializzazione dei dati forniti (volontariamente o meno) dagli utenti. Non ci sarebbe da meravigliarsi quindi se usassero alcune delle informazioni che vengono trasmesse e ricevute durante le video-lezioni per scopi commerciali. A questo rischio va sicuramente aggiunto il fatto che molte di queste piattaforme sono parte integrante di “pacchetti” che comprendono anche altri programmi come caselle e-mail, dischi condivisi, forum, sondaggi e tanti altri. Programmi che poi spesso vengono usati (anche a livello personale) dai dipendenti delle istituzioni educative, dagli studenti e dai familiari, con tutte le conseguenze relative alla riservatezza di dati che nulla hanno a che vedere con l’istruzione.
Un altro settore profondamente coinvolto nell’aumento esponenziale dell’uso degli strumenti di comunicazione elettronica è quello del cosiddetto “lavoro agile”, che vede lavoratrici e lavoratori a casa per ore davanti a un computer sempre connesso alla Rete. Questi potrebbero già (in parte e in modo a loro invisibile) essere controllati durante il loro lavoro: quanto traffico dati generano, che programmi stanno usando, per quanto tempo utilizzano il computer e che siti web visitano. Probabilmente questo genere di sorveglianza a distanza della “produttività” potrebbe in un futuro molto vicino essere utilizzata anche per il lavoro in presenza. Così come sarebbe molto facile tracciare gli spostamenti, come già viene fatto in alcuni casi, dei lavoratori dotati di strumenti elettronici trasportabili (cellulari e tablet) forniti dal datore di lavoro.
I lavoratori e le lavoratrici dovrebbero chiedere già oggi, come obiettivo minimo, che il datore di lavoro dichiari in modo esplicito se vengono usati programmi di controllo per il lavoro a distanza e che genere e che tipo di dati vengono raccolti, dove vengono conservati, per quanto tempo, con che livelli di sicurezza e chi e perché può accedervi. Soprattutto, quali garanzie ci sono che all’interno delle informazioni raccolte non finiscano anche quelle non legate all’attività lavorativa.
Un ambito specifico, che coinvolge tutta la popolazione, riguarda i dati usati nel settore sanitario. Già prima dell’attuale emergenza la loro raccolta e conservazione, che avviene da tempo sia nelle strutture sanitarie pubbliche sia in quelle private, è stata sempre considerata meritevole di una particolare attenzione. Non a caso le leggi definiscono “riservate” e destinatarie di una particolare protezione le informazioni relative alla salute. Oggi è ancora più importante che tali dati, che non contengono solo la positività o negatività a un tampone o la vaccinazione fatta ma anche tutti gli altri che riguardano la nostra salute, siano al riparo dalla “curiosità” delle aziende che ne fanno commercio.
A questi ambiti principali se ne potrebbero aggiungere altri più specifici anch’essi coinvolti, in questa situazione di eccezionalità, nell’aumento della quantità di informazioni che vengono raccolte. Oggi anche le persone che in passato erano, per varie ragioni, meno propense a utilizzare determinati strumenti sono state obbligate a farlo, in alcuni casi anche partendo quasi da zero e quindi con una minore capacità di difendersi dalle trappole più comuni.
Da un giorno all’altro siamo stati coinvolti in ore di video-chiamate, in un uso intensivo di e-mail, messaggeria istantanea e tutto il resto. Una diffusione e un aumento nell’uso, in un lasso di tempo relativamente ristretto, una cosa che non si era mai verificata in precedenza, un utilizzo al quale le persone si sono adattate spesso anche solo per avere a disposizione un surrogato dei contatti sociali che sono stati proibiti. In questo ultimo caso oltre al pericolo per la riservatezza delle proprie informazioni, insito nell’uso di determinati strumenti e applicazioni, va sottolineato che adoperare in modo intensivo e continuato la comunicazione elettronica, in mancanza di un corrispettivo nella vita reale, costituisce anche un probabile futuro danno nei rapporti interpersonali.
Ricordare alcuni dei rischi che in questo momento storico corrono i nostri dati personali non significa che l’uso di determinate tecnologie sia sempre e comunque da contrastare, più che altro è un invito a non abbassare la guardia anche quando organizzarsi e lottare è più difficile.
Pepsy
Riferimenti
[1] Vedi https://www.businessinsider.com/stolen-data-of-533-million-facebook-users-leaked-online-2021-4?IR=T .
[2] Vedi https://www.nature.com/articles/d41586-020-03188-2 .
[3] Vedi https://www.wired.com/story/schools-adopt-face-recognition-name-fighting-covid/ .