Ricordo strumentale e comode amnesie

Dal 2004, quando il parlamento aveva varato, quasi all’unanimità, la legge istitutiva della Giornata del Ricordo, si è visto come la ricorrenza sia una sorta di rivalsa sulla “Giornata della Memoria” del 27 gennaio. Quest’ultima, rievocazione della Shoah ed in genere della repressione nazista prima e durante la guerra, ruota attorno a dati di dimensioni enormi: sei milioni di ebrei uccisi nei lager con molte centinaia di migliaia, se non un paio di milioni, di altre categorie (Rom, omosessuali, minorati fisici, prigionieri di guerra, soprattutto slavi, ed oppositori politici). Nella storia contemporanea europea non ci sono state stragi paragonabili, al di fuori delle guerre.

Le dimensioni della violenza postbellica dei vincitori jugoslavi nei territori attorno al confine orientale rivela livelli importanti, ma decisamente minori. Le foibe sono ripetutamente al centro dell’attenzione isterica di molti esponenti del potere e dei media e della speculazione politica esplicitamente reazionaria. Queste cavità carsiche coinvolsero, secondo una stima abbastanza attendibile tra le 2 e le 3.000 unità. In un computo più ampio, di circa un migliaio, sono comprese le persone morte nei campi di concentramento in Slovenia: qui furono deportati nella primavera del 1945 diversi funzionari dello stato italiano ormai sconfitto. Una burocrazia istituzionale italiana che fu un vero oppressore dei contadini sloveni e croati durante tutto il regime fascista.

La valutazione numerica e storica che appare più convincente è quella fornita da una recente pubblicazione, un Vademecum dell’Istituto Regionale per la Storia della Resistenza di Trieste, uno dei pochi centri di studio e di interpretazione attendibili o comunque seri, anche se pure questo lavoro presenta qualche ombra. (Vedi il documento, di una sessantina di pagine, sul sito dell’IRSML).

In effetti, per capire la realtà della repressione jugoslava postbellica occorre tener conto della precedente violenza dello Stato italiano esercitata dal “fascismo di confine”, un tipo di fascismo particolarmente aggressivo e con tratti razzisti. Per il regime di Mussolini i popoli slavi, in particolare quelli ad est dell’Italia, erano costituzionalmente inferiori e dovevano riconoscere e accettare il dominio degli eredi dell’Impero Romano. Altro aspetto da non dimenticare è quello dell’occupazione militare del 1941, quando l’esercito italiano invase la Slovenia e creò un’apposita Provincia di Lubiana come parte integrante del proprio dominio giuridico. Non fu un caso che la Resistenza antifascista slovena iniziasse in queste zone già nel 1941, ben prima di quella italiana sorta dopo l’8 settembre 1943, al crollo militare dell’Italia fascista.

Ecco perché la rivolta di queste popolazioni ebbe senza dubbio pure toni nazionalisti oltre alle motivazioni politiche e sociali più ampie. L’occupazione italiana dei territori, soprattutto rurali, annessi dopo il 1918 fu poi particolarmente feroce: villaggi incendiati, popolazioni deportate, fucilazioni continue, torture ed esecuzioni pubbliche. Per un totale di decine di migliaia di vittime. Ma in Italia, di fronte ai propri crimini, trionfa la comodissima amnesia…

Oggi un Presidente della Repubblica può affermare candidamente che l’inevitabile violenza post bellica jugoslava “non fu una ritorsione contro i torti del fascismo” perché tra le persone colpite molte non avevano alcuna complicità col regime fascista. Qui andrebbe ricordato, come fa opportunamente il suddetto Vademecum, come l’identificazione tra fascismo e italianità fosse stato per decenni un punto di forza del potere sociale e istituzionale. Perciò era legittimo, anche se non automatico, nelle popolazioni slave subordinate con la forza, associare all’oppressore fascista il privilegiato italiano.

Nel finale della guerra gli scontri politici e le minacce militari nelle regioni a cavallo del confine assunsero spesso livelli elevati in quanto il duro conflitto riguardava la “questione di Trieste”, cioè l’appartenenza statuale di una città di notevole rilievo economico (porto più settentrionale del Mediterraneo) oltre che simbolico. La città fu infatti conquistata e annessa all’Italia solo nel 1918, dopo un plurisecolare dominio austriaco, al termine di una guerra mondiale particolarmente lacerante.

Occorre tener conto del contesto storico e politico per considerare il contenuto dei discorsi ufficiali di queste giornate. A dire il vero, anche le più alte autorità statali italiane hanno recitato un ruolo già collaudato negli ultimi anni, cioè hanno letto gli eventi postbellici come espressione dell’odio antiitaliano o della furia belluina dei partigiani jugoslavi. Su questo terreno, un film apertamente filofascista come “Istria rossa” trasmesso su Rai 3 in prima serata, ha popolarizzato l’immagine del combattente slavo assetato di sangue, torturatore e stupratore. En passant, si dà per scontato che i soldati italiani fossero assai più gentili ed educati di questa gentaglia accecata dall’ideologia comunista.

Un episodio eclatante dell’imposizione della figura retorica dell’“italiano-brava-gente”, vittima quasi innocente, è stata la scelta di una fotografia che l’inqualificabile Bruno Vespa ha presentato a milioni di telespettatori. Lo sfondo dello schermo della sua trasmissione emessa, un paio di anni fa, sul principale canale della RAI raffigurava un gruppo di cinque persone pochi istanti prima della fucilazione. Per il presentatore, si trattava di italiani davanti a un plotone di esecuzione jugoslavo e si mostravano così dei civili vittime innocenti eliminati dalla malvagità degli slavocomunisti. Fu una scelta incauta: i soldati che stavano per fucilare portavano le divise italiane e i cinque sul punto di essere fucilati erano chiaramente dei poveri contadini slavi. Malgrado l’evidenza del fatto, Vespa insistette sulla sua interpretazione trasformandola semplicemente in un esempio di tipo generale di una fucilazione del periodo.

La storica che denunciò la manipolazione venne attaccata e considerata un’alleata degli infoibatori slavi. Si colse così l’occasione per ribadire l’accusa di “negazionismo”, una colpa da estendere a tutti coloro che rifiutavano la lettura revanscista di quella storia tormentata. Non è casuale che questa etichetta sia la trasposizione della condanna dei negazionisti che avevano sostenuto che i lager nazisti non fossero così terribili e che non avessero fatto tante vittime, ebrei o meno.

Nel 2019, ogni critica alle falsità propagandistiche dei nazionalisti italiani (di destra, ma non solo) è stata subito definita “negazionista” e come tale ritenuta semplicemente provocatoria. Non sono mancate nemmeno le proposte politiche di togliere il diritto di parola a chi avesse sostenuto tali posizioni.

Ecco come la condanna giuridica dei negazionisti della Shoah, spesso sollecitata da governi europei sedicenti democratici, ha aperto la porta alla proibizione delle critiche al revanscismo e vittimismo fondato sulle foibe. Tanto più quando queste analisi critiche al neonazionalismo sono fondate su studi e riflessioni di un certo spessore. In fin dei conti la canea “antinegazionista” dimostra la pochezza della preparazione storica di chi la sostiene; invece si vorrebbe imporre una verità da non discutere, un dogma da accettare.

Anche un documento, utile e interessante, come il suddetto Vademecum di Trieste, rischia di cadere in questo tranello, spinto dalla valanga di manipolazioni dominanti e quasi esclusive. La polemica, pur metodologicamente fondata, contro l’ipercriticismo delle fonti che “finisce per negare credibilità a tutte le fonti che contraddicono l’interpretazione preferita” (p.12) scivola fino ad assimilare il negazionismo delle foibe, peraltro senza citare esplicitamente autori e affermazioni negazioniste, al riduzionismo, cioè al ridimensionamento del fenomeno repressivo. In realtà nessuno, a quanto mi consti, sostiene l’inesistenza delle foibe, ma piuttosto una quantificazione effettiva considerando sproporzionata ed infondata quella della vulgata nazionalista. Siamo nel campo del confronto storico sui documenti e sulle interpretazioni e non sulla pura polemica politica o nazionale.

Anche l’ANPI, nel tentativo di allontanare da sé sospetti di negazionismo, ha disconosciuto iniziative troppo critiche. A Parma, la locale sezione ANPI aveva indetto un incontro nel quale erano presenti relazioni molto diffidenti verso le cifre che di solito sono attribuite alle vittime delle foibe. Inoltre si attaccava anche la mitica Foiba di Basovizza, nei dintorni di Trieste, come esempio di strumentalizzazione propagandistica che gonfiava artificialmente i numeri allo scopo di impressionare e condizionare l’opinione pubblica. Da parte sua il duce leghista rispondeva tuonando contro il finanziamento di questa associazione così poco patriottica, cioè poco rassegnata e obbediente.

Il giorno 10 febbraio lo stesso Ministro degli Interni nella celebrazione in pompa magna sulla Foiba di Basovizza pronunciava delle frasi assurde e del tutto fantasiose: come “i bambini uccisi nelle foibe sono uguali a quelli morti ad Auschwitz”. L’ineffabile ma prevedibile personaggio era convinto che poiché le foibe rappresentano il male peggiore dell’umanità, pure le cavità carsiche avrebbero dovuto accogliere i corpicini di piccole vittime. La cosa è del tutto inventata! Nessuno, proprio nessuno ha mai sostenuto che ci fossero dei bambini gettati nelle foibe, nemmeno gli esaltatori più vittimistici della violenza slavo-comunista. Invece ad Auschwitz molte migliaia, come tutti sanno, furono i gasati figli di ebrei e di altri.

Anche tale ennesima menzogna indica la spudoratezza di chi è abituato a imporsi e a mietere consensi tra persone altrettanto ignoranti e presuntuose. Il “dramma delle foibe”, come titolavamo sul “Germinal” del 1975 un’intervista a Galliano Fogar, attivissimo esponente del sunnominato Istituto triestino, serve a seminare confusione funzionale all’odio nazionale e allo spirito, mai sopito, di rivincita nazionale contro i “s’ciavi”, la definizione spregiativa con cui i fascisti di ieri (e di oggi) a Trieste definivano le persone slave.

Il clima isterico della commemorazione ufficiale (con ministri, prefetto, sindaco, parlamentari e gli immancabili carabinieri in alta uniforme; senza dimenticare le associazioni dei combattenti della RSI) ha giocato un brutto scherzo a un certo Tajani. Questo esponente di Forza Italia, che si fregia del ruolo di Presidente del parlamento europeo, ha esclamato “Viva Istria e Dalmazia italiane” non rendendosi conto, il poverino, di pestare i piedi a due stati europei come Slovenia e Croazia. E la reazione di queste è stata pari all’attacco subito.

Alla fine, com’è logico, le acque si sono calmate. Tajani, neo irredentista, ha porto le sue scuse cerando la solita copertura “sono stato mal capito”. Si è poi verificato un ipocrita intervento presidenziale di chi, pochi giorni prima, aveva assolto il fascismo come concausa della violenza delle foibe. Il teatrino istituzionale aveva terminato lo spettacolo.

Claudio Venza

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