In seguito alla pubblicazione in Umanità Nova penultimo scorso di “FALLACIE E FANDONIE. La Favola dell’YPG, degli Anarchici e dei Compagni in Genere Utili Idioti della NATO” un nostro lettore ci ha invitati ad analizzare anche altre fonti critiche verso l’operato delle forze rivoluzionarie operanti nella regione del Rojawa. Si tratta di fonti, con qualche eccezione, meno sguaiate e più “politiche”, che evitano le infamità di Meyssan e soci ed operano una critica maggiormente ragionata in merito. Stiamo parlando delle tesi espresse a più riprese da numerose fonti di informazione in rete, quali Cittàfutura, marxismo.net, miglioverde, agoravox, l’interferenza, lettera43, polinice, contropiano, osservatorioafghanistan, oltrelalinea, ecc. che possono, sostanzialmente, condensarsi in due punti: 1. le varie forze rivoluzionarie operanti nella regione hanno stretto un’alleanza di fatto con gli Stati Uniti d’America; 2; il confederalismo democratico è sopravvalutato enormemente nelle sue potenzialità di liberazione.
Tenendo presente che lo spazio di Umanità Nova è troppo ristretto per un’analisi delle singole critiche, per cui dovremmo di necessità fare un discorso generale, cominciamo dalla prima. La cosa, in effetti, l’avevamo toccata tangenzialmente già nell’articolo scorso, perciò qui saremo solo un po’ più analitici. Si tratta di un dato di fatto: per interessi tattici, il governo a stelle e strisce, già con Obama ed oggi con Trump alla guida, ha deciso di supportare l’azione dell’YPG e delle forze collegate contro il Daesh. Il fatto è che non si tratta certo della prima volta nella storia dei movimenti rivoluzionari che un mio nemico si trovi ad essere nemico del mio nemico e decida strumentalmente di aiutare le forze rivoluzionarie: per di più proprio noi europei dovremmo saperlo bene, dal momento che è esattamente ciò che è accaduto durante la Resistenza Antifascista nella prima metà degli anni quaranta del Novecento.
Durante questo periodo che vedeva il governo statunitense impegnato contro le potenze nazifasciste, questi ha trovato assai utile aiutare con approvvigionamenti ed anche specifiche azioni militari l’operato dei gruppi partigiani. Nessuno di questi – ivi comprese le formazioni partigiane maggiormente legate idealmente ai redattori delle testate che oggi apportano questa critica alle attuali formazioni rivoluzionarie ed antifasciste operanti in Rojawa – ha rifiutato questi aiuti, senza che la cosa abbia mai fatto particolare scandalo.
Certo, si dirà, immediatamente raggiunto lo scopo, le forze armate USA hanno smantellato, talvolta con notevole violenza, sia le formazioni partigiane sia le conquiste sociali messe in atto nei territori liberati. Il problema è che tutto ciò non è che non sarebbe avvenuto se i partigiani avessero sdegnosamente rifiutato gli aiuti dell’esercito statunitense: avremmo avuto solo qualche anno in più di regimi nazifascisti. La situazione del Rojawa, onestamente, non mi sembra sostanzialmente diversa e, allora, perché stracciarsi le vesti sul Rojawa e non sulla Resistenza?
Una sorta di assioma della politica si può considerare questo, nella forma icastica che le dava mia nonna ben prima di Andreotti: pensar male è una brutta cosa, ma ci azzecchi quasi sempre. Il nostro pensar male ci indirizza verso il fatto che, in uno scontro tra stati capitalisti, una certa cultura marxista ha scelto di appoggiare, d’altronde in modo esplicito, certuni contro gli altri – in modo particolare la Russia putiniana contro l’USA trumpiana. Solo così si capisce, in effetti, perché queste critiche siano sorte ora e non c’erano quando ad appoggiare di fatto le azioni dell’YPG erano le truppe russe e dell’esercito regolare siriano, prima del mutamento di fronte e della loro alleanza con la Turchia di Erdogan che ha preteso l’abbandono di qualunque forma di appoggio al Confederalismo Democratico.
Di conseguenza, l’atteggiamento dell’YPG appare scandaloso solo se si fa questa classifica dello stato capitalista più o meno cattivo, rientra, invece, nei limiti della “normalità” di uno stato di guerra se questa classifica ci si rifiuta di farla. In una simile situazione, è materialmente impossibile rifiutarsi di accettare tali genere di aiuti. Quello che conta è essere coscienti che il nemico del mio nemico non è divenuto, se non temporaneamente e fintamente, mio amico per potersi regolare al meglio. Cosa accadrà in futuro? Non lo sappiamo, ma siamo certi che se l’esperimento del Confederalismo Democratico andrà a rotoli, di sicuro la causa non sarà l’aver accettato un bombardamento di supporto ed un carico d’armi, così come se la Resistenza non è riuscita a raggiungere le sue mete più avanzate, la causa non è stata aver recuperato qualche cassa d’armi caduta dal cielo. Certo, ci auguriamo che la scommessa fatta dalla popolazione curda e non solo di quella regione non si ritrovi soffocata dall’abbraccio mortale del suo ex alleato – ma questa è un’altra storia.
Veniamo ora alla seconda critica, quella per cui il confederalismo democratico non sarebbe un’autentica esperienza di autogoverno socialista della società e ne sottolinea tutti i limiti e le contraddizioni. Anche qui i critici hanno, di primo acchito, certamente ragione: per quanto – come i critici stessi ammettono – le condizioni sociali, politiche e culturali presenti oggi in Rojawa sono il paradiso in terra se confrontati con le situazioni del resto della regione ed anche dei paesi capitalisti a regime democratico, certamente i limiti sono evidenti a chiunque abbia in mente un rinnovamento radicale delle forme sociali. Il fatto è che tra gli anarchici una simile critica non è certo aliena a chi l’esperimento del Rojawa lo supporta da vicino e da lontano, per cui vede uno dei motivi del suo supporto proprio nell’influenzarlo sempre più in senso socialista ed autogestionario, così come quando si appoggia uno sciopero non lo si fa certo solo se questo ha caratteri espropriatori ma ci si muove perché sia un momento di crescita nella direzione di una società del tutto liberata da ogni forma di sfruttamento.
C’è però anche un altro ordine di problemi. Criticare un’esperienza come quella del Rojawa per i suoi caratteri non sufficientemente avanzati ha un senso del tutto diverso se fatta in un’ottica anarchica e se fatta in un’ottica marxista. Nel primo caso, si auspica e si lavora politicamente perché una tale esperienza divenga sempre più simile ad una società senza classi e senza gerarchie, perché faccia un passo avanti. Nel secondo caso, lo si dimentica spesso, perché faccia un passo indietro.
Per un marxista, infatti, ogni modo di produzione non lascerà il campo se non quando avrà sviluppato a pieno tutte le sue potenzialità – conseguenza di questo è che ogni minima conquista della classe lavoratrice è d’intralcio al pieno sviluppo del modo di produzione capitalistico. Marx e Lenin sono chiarissimi su questo punto ed a partire dall’ultimo c’è stata una piena coerenza tra teoria e prassi nella gestione degli stati a governo marxista.
Per cui, quando in marxismo.net leggiamo che “Ogni elemento di cambiamento sociale oltre il capitalismo deve estendersi a livello internazionale al fine di essere in grado di sopravvivere. Per essere in grado di difendersi contro questa pressione, almeno per un tempo determinato, sarebbe necessaria una rottura con le strutture dell’economia di mercato. Questo è concepibile solo sulla base di un’economia nazionalizzata e democraticamente organizzata, di una pianificazione economica e un monopolio statale del commercio estero” che dovrebbe sostituire “l’economia cooperativa della Rojawa”, non ci può che venire in mente il “decalogo” del Manifesto del Partito Comunista e le democrazie dell’est. Questo di là della buona fede con cui si mettono in piedi determinate analisi, perché come suol dirsi le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni ed il marxismo – come è giunto a capire Öcalan – è stato finora la quinta colonna delle relazioni sociali capitalistiche nel movimento operaio e socialista. Senza parlare del fatto che tutte queste analisi vanno a confluire, come dicevamo sopra, nella scelta dello stare a fianco di una nazione capitalistica piuttosto che di un’altra.
Enrico Voccia