Le pensioni basse sarebbero già oggi un’emergenza sociale tanto da suscitare allarme anche nei giornali economici, se non rappresentano un problema per la tenuta sociale del paese lo diventeranno di sicuro nei prossimi anni con vuoti contributivi e calcoli su un sistema iniquo e svantaggioso (il modello contributivo).
Nell’arco della vita lavorativa tra precariato, partite iva, part time lunghi anni partoriscono contributi pensionistici veramente irrisori, siamo del resto il paese con elevati numeri di part time involontari che in prospettiva futura determineranno pensioni basse.
Una pensione interamente calcolata con il sistema retributivo determinerebbe un assegno previdenziale superiore anche del 40% rispetto ad una pensione, maturati con i medesimi anni lavorati, con il calcolo costruito invece sui contributi versati.
Tra pochissimi anni il retributivo sarà solo un lontano ricordo, quanti hanno iniziato a lavorare, ed avere dei contributi, dopo il 1994, saranno la quasi totalità della forza lavoro.
Avere qualche anno con il retributivo è una condizione possibile per gli attuali sessantenni, per chi oggi ha pochi anni in meno invece no, quei pochi anni, anche a detta dei Caf, accrescono il futuro importo della pensione e per questo il Governo sta studiando tutte le forme per calcolare la vita lavorativa solo con il contributivo, ad esempio una delle ipotesi è quella di rinunciare agli anni retributivi per chi vorrà anticipare anche di un anno l’uscita dal mondo del lavoro magari per condizioni di salute e oggettive impossibilità a svolgere attività gravose.
La sconfitta del mondo del lavoro ha origini lontane e non sbagliamo a datarla con la svolta dell’Eur e la politica dei sacrifici nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso. Da allora è venuto meno quel patto sociale tra lavoratori in produzione e pensionati, diminuendo per altro il numero degli occupati la spesa previdenziale diventa meno sostenibile per le casse statali anche se il calcolo dell’assegno previdenziale ormai avviene solo in base agli anni effettivamente versati. E per questo vogliono costringere i lavoratori e le lavoratrici, con il silenzio assenso, a indirizzare il loro TFR verso la previdenza integrativa facendo leva sulla complicità di quei sindacati che cogestiscono proprio i fondi previdenziali. Fin dagli anni Ottanta si è affermata non solo l’ideologia individualista ma anche la politica dei sacrifici (interamente scaricata sui salariati) in nome della tenuta economica del sistema fiscale dimenticando che una spesa previdenziale andrebbe sempre rapportata al numero degli occupati, al numero delle ore e degli anni lavorati, alle tasse effettivamente pagate e ormai sproporzionate rispetto al reddito percepito.
È prevalso invece un altro ragionamento a uso e consumo dei dominanti, bassi salari, pensioni da fame, speculazione finanziaria sui soldi della forza lavoro, tagli al welfare…. Una contro-narrazione su quanto avvenuto negli ultimi 40 anni in Italia dovrebbe prendere in esame, ad esempio, l’approvazione del sistema di calcolo in materia previdenziale e di quello che determina poi le politiche salariali, sistemi iniqui per ridurre il futuro assegno previdenziale (ma anche la spesa del Tfr o Tfs) con il progressivo innalzamento dell’età pensionabile imponendo forti decurtazioni per chi scelga di uscire anticipatamente dalla produzione.
Chi ha buchi contributivi, anni di part time andrà in pensione alle soglie dei 70 anni con un assegno da fame e magari dovrà inventarsi qualche lavoretto al nero per integrare.
Sarebbe importante una fotografia aggiornata sulle pensioni e sui percettori degli assegni bassi, la quantificazione numerica suddivisa anche per fasce di età e provenienza regionale.
Per comprendere di quanto stiamo parlando menzioniamo alcuni dati: la pensione minima dal 1° gennaio 2024 è pari a 598,61 euro (7.781,93 euro all’anno). L’assegno vitalizio 2024 arriva a 341,24 euro (4.436,12 euro annui). L’assegno sociale si ferma a 534,41 euro (507,03 del 2023). Nell’ultimo biennio, con la inflazione alle stelle, la rivalutazione è stata di poco superiore al 13%, il prossimo anno invece gli aumenti dovrebbero essere quasi ininfluenti tra 10 e 16 euro al mese, praticamente il costo di una pizza (magari una margherita) e di una bottiglia di acqua.
Il ragionamento da fare dovrebbe essere ben altro, non investire sulla previdenza o sulla sanità integrativa, pensare che con pensioni inferiori a 1000 euro è impossibile condurre una vita dignitosa e anche le rivalutazioni in base al costo della vita (che con il codice Ipca è del tutto inadeguato a salvaguardare il potere di acquisto) saranno comunque del tutto insufficienti a garantire una esistenza dignitosa.
Siamo un paese di vecchi\e e pertanto il numero dei pensionati in futuro sarà in continuo aumento rispetto alla forza lavoro attiva proprio per il progressivo invecchiamento della popolazione, ad esempio mantenendo in servizio, volontariamente, i dipendenti pubblici fino a 70 anni prima o poi lo Stato dovrà sobbarcarsi gli oneri del pagamento del Tfs per decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici in uscita dal mondo del lavoro. Si guadagna solo tempo sperando che il conto presentato da Bruxelles alla fine non sia socialmente insostenibile. Ritardare l’età della pensione è stata una scelta dettata dalla Ue ma subito recepita dall’Italia con particolare solerzia mentre in altri paesi i sindacati non si sedevano ai tavoli di trattativa del Governo organizzando invece settimane di scioperi generali per impedire l’aumento degli anni lavorativi e alla fine conquistando condizioni decisamente migliori di quelle riservate ai lavoratori italiani. Prova ne sia che fino ad oggi l’età della pensione varia da paese a paese (ma l’Ue sta dettando linee per portare l’età della pensione a 70 anni per tutti i paesi membri) e l’Italia, al pari dei paesi nordici, è tra le nazioni dove si va in pensione decisamente tardi.
Le basse pensioni riguardano anche aree geografiche prospere, ad esempio il Veneto o la Lombardia, dove la percentuale dei disoccupati è più bassa e qui entrano in gioco altri ragionamenti come il nero, i contributi previdenziali irrisori da parte dei datori di lavoro, gli straordinari pagati fuori busta, i contratti collettivi al massimo ribasso.
Il capitolo previdenziale è appena aperto e ben lungi da trovare definitive soluzioni valide almeno per i prossimi anni, i nodi al pettine devono ancora arrivare e bisogna attrezzarsi per difendere gli interessi della classe lavoratrice.
Federico Giusti