Giovedì 28 agosto, l’ISIS, il gruppo jihadista dello ‘Stato Islamico d’Oriente’ ha diffuso un video che mostra alcuni miliziani distruggere una coltivazione di marijuana ad Akhtarin, nel nord della Siria. In quel regno del terrore che è il Califfato di Siria e di Iraq, il proibizionismo è ferreo e sono severamente puniti non solo la detenzione e la vendita di droghe proibite, ma anche di alcool e tabacco che, prima dell’arrivo dei miliziani neri dell’ISIS, in Siria e in Iraq erano venduti liberamente, come in quasi tutti i paesi arabi. Nelle decapitazioni e nelle flagellazioni pubbliche che il venerdì pomeriggio all’uscita della moschea segnano il tempo degli abitanti delle città del Califfato (che sono costretti ad assistervi), a salire sul patibolo non sono solo i cristiani, gli appartenenti alle altre minoranze religiose o i soldati governativi, ma anche gli spacciatori e i contrabbandieri delle sostanze messe all’indice e a volte addirittura le persone che gestivano le rivendite di alcool e di tabacco chiuse dagli jihadisti. Secondo alcuni analisti, proprio il feroce proibizionismo imposto dall’ISIS è uno dei fattori che hanno allontanato dal Califfato le simpatie del mondo arabo, dove soprattutto il tabacco e in parte l’hashish sono ampiamente diffusi ed anche l’uso di alcool viene deprecato (nella cultura popolare l’alcool è considerato molto nocivo per il cervello), ma sostanzialmente tollerato. Le pubbliche esecuzioni di tabaccai, osti e spacciatori nei media nostrani non hanno, invece, avuto molto spazio a parte qualche trafiletto d’agenzia. Nei paesi della penisola araba ed in particolare in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo (che, per qualche mistero della geopolitica, sono i principali alleati degli USA nell’area, nonostante siano anche i più grossi finanziatori di Al Qaeda e dell’ISIS), vige il proibizionismo più spietato. Secondo Human Rights Watch,in Arabia Saudita sono state eseguite 19 condanne a morte per decapitazione, spesso in luoghi pubblici, solo dal 4 agosto scorso. Tra i 19 prigionieri messi a morte da inizio mese, stando a notizie diffuse dai media del regno, ci sono una persona condannata per stregoneria e ben sette per traffico di droga. Negli Emirati Arabi Uniti, invece, non solo è prevista la pena di morte per detenzione e traffico di stupefacenti, ma la legge del paese prevede l’arresto in caso di rilevamento su una persona di una traccia anche minima di qualsiasi sostanza illegale. A luglio un cittadino britannico è stato condannato a 4 anni di carcere dopo che i funzionari della dogana gli hanno trovato 0.003g (3 mg) di cannabis attaccati alla suola della sua scarpa.
Negli ultimi anni diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani tra cui Amnesty International hanno denunciato il fatto che per i reati di droga c’è stato un aumento delle pene che in numerosi paesi comprendono anche la pena di morte e l’ergastolo. Secondo Amnesty, pene così severe sono “assolutamente ingiustificate”, sia perché spesso sono comminate anche per sostanze poco nocive come la cannabis, sia perché il traffico di droghe in sé non è un reato violento, dato che nessuno in genere viene costretto ad assumere sostanze ed, anzi, sono i consumatori che si rivolgono agli spacciatori per procurarsele. Tra i paesi mesi nella lista nere per le violazioni dei diritti umani legate alla War On Drugs, ci sono anche gli Stati Uniti. Negli USA la marijuana attualmente è totalmente legale in Colorado e nel Washington State (e a novembre potrebbero diventarlo anche in Alaska e Oregon dove ci saranno dei referendum), mentre la cosiddetta cannabis terapeutica è legale in altri 23, ma sono almeno venti i casi certificati di condanna all’ergastolo per detenzione di cannabis, come denuncia il sito “lifeforpot.org“. Recentemente ha fatto molto scalpore il caso di Jeff Mizanskey, 61enne del Missouri che da 20 anni sconta l’ergastolo per detenzione di marijuana. Per due volte l’uomo era stato arrestato per possesso di marijuana, la prima volta per aver venduto un grammo ad un informatore della polizia, la seconda durante un fermo stradale dopo esser stato trovato in possesso di 2 once di marijuana (circa 57 grammi). L’ultima nel 1994 quando cadde nel tranello di un presunto amico, che informò la polizia sul fatto che aveva della marijuana in casa. Dopo questo ultimo fermo è stato condannato all’ergastolo che sta scontando da 20 anni, senza nessuna possibilità di sconto di pena. Come ha scritto il figlio in una lettera, “ha visto essere rimessi in libertà suoi compagni di cella condannati per strupro, rapina, omicidio, ma per mio padre non è prevista una data di scarcerazione. Per possesso di marijuana dovrà morire in carcere”. Jeff Mizanskey, come tutti gli altri venti ergastolani della cannabis,è stato condannato alla detenzione a vita a causa di una legge attiva in diversi stati americani chiamata, con un termine preso in prestito dal baseball, “three strikes you’re out” (tre colpi e sei fuori). Secondo questa legge, approvata in molti stati negli anni ’90 sull’onda della “tolleranza zero”, alla terza volta che si viene tratti in arresto per uno stesso reato si viene considerati “detenuti incalliti” senza possibilità di recupero, e quindi condannati all’ergastolo. Se in alcuni stati questa severissima legge sulla recidiva è prevista solo per i crimini violenti, in altri stati come Missouri e California, è prevista anche per la detenzione di droga. Per Jeff è stata attivata anche la petizione “Clemency to Jeff Mizanskey” su change.org(con oltre 378 mila firme) ed anche una campagna su Twitter attraverso l’hashtag #FreeJeff, ma il successo riscosso dalle campagne on line non ha convinto il governatore Nixon a concedergli la grazia: Per i condannati a vita per cannabis l’unica speranza è che cambino le leggi federali. La DEA ha infatti chiesto alla Food and Drug Administration (FDA) di effettuare una revisione dello status della marijuana, attualmente classificata come droga in tabella I. La rivelazione arriva da un funzionario dell’FDA nel corso di un’audizione al Congresso. La FDA valuterà se la marijuana soddisfa ancora i criteri della tabella I, che considera la cannabis come sostanza altamente pericolosa e senza utilizzi terapeutici. La classificazione è la più dura dei cinque programmi previsti dalla DEA e ha le maggiori restrizioni. Con 23 Stati che permettono l’utilizzo terapeutico della marijuana, molti pensano che potrebbero essere allentate le restrizioni federali. Sui giornali americani è molto alta l’attenzione sulla materia dopo che , il New York Times, a seguito di una decisione della direzione e del board editoriale, ha deciso di lanciare una campagna a favore della legalizzazione dei derivati della cannabis. Nelle ultime settimane è finita sulle prime pagine una ricerca basata sui dati del Centro di Controllo e Prevenzione delle Malattie (CDC) e pubblicata sulla rivista dell’ American Medical Association (il corrispondente USA del nostro Ordine dei Medici) Jama Internal Medicine. La legalizzazione della marijuana a fini terapeutici contro i dolori cronici e altre malattie, riduce del 24,8% il numero di morti per overdose di analgesici è stato il clamoroso risultato dello studio che ha comparato i dati degli Stati che hanno autorizzato la cannabis terapeutica e di quelli che non l’hanno autorizzata. La declassificazione della cannabis negli USA non potrebbe, peraltro, non avere conseguenze nel resto del mondo dove stanno subendo delle battute di arresto i tentativi di uscita dalla War On Drugs. In Uruguay la commercializzazione di marijuana tramite le farmacie non avrà inizio quest’anno, come era stato previsto dal Governo. La motivazione ufficiale del rinvio è che ci vuole più di un mese per dare le licenze ai produttori e le piante richiedono da tre a sei mesi per crescere e produrre il raccolto. Tempi grami anche per i cannabis social club spagnoli, locali gestiti da associazioni di produttori e consumatori di cannabis e che finora venivano tollerati grazie alla legge spagnola che consente non solo la detenzione per uso personale, ma anche la coltivazione. Il 18 agosto , infatti,il consiglio comunale di Barcellona ha ordinato la chiusura immediata di 49 dei 145 cannabis social club (Csc) della città. Questi ordini sono stati notificati a seguito di un’operazione di polizia, che ha ispezionato tutti i club cannabici della capitale catalana. La super-retata sembrerebbe essere stata fatta in attesa della prevista regolamentazione dei CSC che in Catalogna contano 165.000 soci e che rappresentano una originale e apprezzabile esperienza di liberalizzazione “dal basso”. Secondo una bozza pubblicata su El Pais, la Agencia de Salud Pública de Cataluña pretenderebbe di regolamentare tutto il settore: coltivazione, trasporto della marijuana fino agli specifici locali e i requisiti di accesso per i soci. Una delle principali novità è che potranno associarsi solo i residenti, per porre fine al cosiddetto turismo della cannabis sempre più diffuso a Barcellona. Inoltre sarà necessario avere più di 21 anni e non potra’ essere soddisfatto nessun socio che non abbia un’anzianita’ di iscrizione maggiore di 15 giorni. Inoltre ogni socio dovra’ essere presentato da un altro gia’ associato. La bozza di regolamento non è stata accettata, naturalmente, dalla maggior parte dei Cannabis Social Club che dopo le perquisizioni hanno organizzato un corteo notturno sulle Ramblas a cui hanno partecipato migliaia di persone ed altre proteste.
La War On Drugs continua, è sempre più feroce ma è anche sempre meno popolare e le manifestazioni antiproibizioniste si diffondono. In Germania, sabato 11 agosto10mila berlinesi sono scesi sabato in piazza nella “Hanf- parade 2014″, un corteo colorato e pacifico, formato da persone di ogni età, che ha percorso le strade della capitale tedesca con lo slogan “Semaforo verde per la legalizzazione della cannabis“. Si trattava della 18esima edizione della marcia che non aveva mai raggiunto un numero così alto di partecipanti.
robertino