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Guerra per l’economia. Economia di guerra.

Guerra per l’economia. Economia di guerra.

Il conflitto innescatosi con l’attacco russo all’Ucraina si inserisce in una fase economica già abbastanza complessa. La pandemia o sindemia da COVID-19 sembra quasi dimenticata, scalzata o addirittura surclassata nei dibattiti dal conflitto in atto, eppure i postumi per il corpo sociale di questi due anni di assoluto delirio li pagheremo ancora per qualche tempo. Ma cerchiamo di andare per ordine, il tema è complesso e il rischio di debordare in un fritto misto è sempre dietro l’angolo. La premessa principale per affrontare la problematica è rispolverare dai libri di scuola superiore o dell’università un principio che molti tecnici e studiosi hanno adottato per raccapezzarsi in situazioni complicate. Il principio di sovrapposizione degli effetti. In breve è un espediente concettualmente semplice, si analizzano i fattori o gli effetti di una azione separatamente e poi si valutano sinergicamente. Questo consente di riuscire a destreggiarsi anche in questioni molto delicate e complesse. Ciò detto andiamo a dipanare il discorso verso quello che è il nostro punto di interesse, ossia come conflitti e speculazioni arrivino a influire sui costi del nostro quotidiano, dalla tazzina di caffè alla bolletta della luce, erodendo settimana dopo settimana il potere d’acquisto di salari e stipendi inesorabilmente fermi al palo. Chi ha un po’ di dimestichezza con le questioni economiche avrà già intuito che stiamo parlando di inflazione. Uno spauracchio che per circa tre lustri non ha fatto parlare di sé, dal momento che veniva artificiosamente tenuta bassa a suon di purghe e anestesie monetarie di ogni genere, costi quel che costi (il famoso whatever it takes di draghiana memoria). Altro piccolo corollario da inserire nel discorso riguarda la capacità che hanno i conflitti in specifiche aree strategiche di ribaltare equilibri in contesti anche molto distanti. In questo caso le vicissitudini legate agli approvvigionamenti energetici dalla Russia hanno suggerito di rivedere alcune scelte in Medioriente e riabilitare le fonti energetiche iraniane. Nel momento in cui scrivo, la firma per l’accordo sul ripristino del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), anche noto come accordo sul nucleare iraniano, sembra molto prossima, a netto di uno sgambetto dell’ultimo momento della Russia. [1] Piccola parentesi sui paradossi del nostro misero mondo: da un lato si spara con l’artiglieria pesante, dall’altro si gambizza con l’ostracismo economico, ma in un luogo terzo ci si siede ad un tavolo per firmare accordi e trattati. I posteri avranno un bel da fare per capire il livello di follia raggiunto in questi tempi. Tornando a noi e alle ripercussioni economiche di questo periodo tanto burrascoso, possiamo intanto dire che il conflitto in atto ha qualcosa di nuovo. Non mi riferisco ai sistemi d’arma a guida satellitare e a tutte le diavolerie come droni, ecc.

Il fatto è che avviene in Europa, ma non è neanche questo, o non solo questo, il problema, dal momento che appena trent’anni fa ne abbiamo avuto uno proprio dietro casa. La sua novità è che avviene in una Europa diversa dal ’39 e diversa dal ’91, ossia in una fase assai particolare. Negli anni ’90 la polarizzazione dei mercati da parte dello Zio Sam era ancora un fatto assodato, la Cina aveva avviato le strategie delle ZES e Deng Xiao Ping aveva strategicamente inaugurato un programma di industrializzazione senza precedenti nella storia. [1][2] Oggi non solo il tipo di globalizzazione che impera non è retta dalle stesse dinamiche che si avevano negli anni ’90, ma gli attori non sono quasi più gli stessi. Lo Zio Sam non pesa sullo scacchiere internazionale quanto prima. La Russia pur non essendo una super potenza economica o militare non è lo sfacelo che era negli anni ’90; la Cina è il vettore trainante della crescita mondiale. Il conflitto jugoslavo vedeva innanzitutto l’Est Europa alle prese con l’implosione dell’URSS avvenuta pochissimi anni prima, la Nato in piena fase espansiva, e la tecnologia digitale stava cominciando a muovere i primi passi verso la connessione globale (memento: ancora fino ai primi del 2000 internet non era una realtà imprescindibile come lo è oggi) e l’Unione europea era ancora in fase di avvio. Quel conflitto pur se durato complessivamente 10 anni (marzo ’91 novembre 2001 sommando tutti i conflitti dalla Croazia alla Macedonia) non ha causato lo stesso sconvolgimento economico e finanziario di una settimana di bombardamenti in Ucraina. I capitali in gioco sono assai più isterici in quanto le informazioni viaggiano in maniera istantanea, e la ridefinizione del sistema produttivo in favore del “just in time” non garantisce praticamente più le scorte di magazzino o le riserve di qualunque tipo. Stanti queste lunghe ma necessarie premesse possiamo cominciare a dipanare la matassa che ora dovrebbe apparire un tantino meno imbrogliata. Ad oggi ci troviamo a dover fare i conti con alcuni effetti ben definibili temporalmente che concorrono ad influire negativamente sulle nostre economie domestiche e lavorative.

Green Washing

Il primo fattore è la stagnazione secolare che stava investendo l’Europa appena prima della pandemia e che questa ha da un lato amplificato, mandando gambe all’aria alcuni settori letteralmente spazzati via, dall’altro ha generato profitti ragguardevoli e finanziato la riconversione per specifici settori manifatturieri. C’è da ricordare che il green washing proposto dal Green Deal europeo era stato concepito per giustificare investimenti pubblici senza precedenti per rinvigorire l’economia europea dopo le purghe dell’austerity.[4] Ma la pandemia lo ha fatto passare, almeno in Italia, come PNRR, ossia Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, giusto per dare tutte le colpe al virus che come capro espiatorio è perfetto. Quindi abbiamo il primissimo effetto, arrivano soldi a palate e i mercati cominciano ad andare in fermento da abbuffata, peccato però che nel frattempo i fermi macchina per i vari lock-down abbiano creato uno shortage generalizzato e un repentino innalzamento dei prezzi sia delle materie prime che dei semilavorati.[5] Compresa tutta la filiera della sub componentistica elettronica made in China cha si è fermata per qualche mese e ancora pare non riesca a soddisfare in pieno la ripresa produttiva. Il motore singhiozza, pur essendoci benzina in abbondanza manca l’ossigeno ossia c’è liquidità in quantità mai viste ma mancano materiali e prodotti. Quindi primo aumento dei prezzi per una compressione dell’offerta rispetto ad una impennata di domanda generata dalla spesa pubblica. Come si possa essere così tanto controfase negli interventi macroeconomici è quasi inspiegabile. Prima guerra economica di accaparramento di tutto quello che c’è di disponibile. Energia acquistata con pagamenti pronto cassa, cose mai viste! Non scendo qui nelle questioni tecniche di evoluzione dei contratti da pluriennali a quelli a spot, ma dirò che certe scelte si sono ritorte contro quegli stessi interessi che si voleva difendere a spada tratta. Ovviamente quelli di bottega. Queste “innovazioni” hanno introdotto meccanismi rialzisti che in tempi di “normalità” equivalevano a semplici rimbalzi momentanei, ma in tempi di congiunzioni tanto sciagurate hanno costituito dei veri e propri capestri costringendo come al solito a battere cassa al capitale pubblico. Questo lo si è visto in misura decisamente maggiore con il mercato energetico. La transizione green ha assunto come soluzione di comodo quello di passare dal fossile solido e liquido (carbone e petrolio) a quello gassoso (che idea originalissima). Quindi nel giro di pochissimi mesi, per il semplice fatto di aver varato una serie di programmi che incentivano il gas (metano e idrogeno in primis) come combustibile green il prezzo è cominciato a salire trascinandosi dietro tutti i sovra costi di chi divora metri cubi di gas al giorno per la produzione. Più avanti fornirò qualche dato sui metalli più energivori che in tutta onestà fanno spavento. Ma non basta, questa tendenza rialzista è ulteriormente stimolata dagli investimenti green delle varie aziende energetiche che come al solito ne scaricano i costi sui consumatori fino all’ultimo centesimo. Non sia mai si riducessero i dividendi! Già questi primi fattori, shortage e innalzamento del costo energia, hanno dato una sostanziale spinta all’inflazione che del resto stava già salendo a causa della riduzione reddituale (leggasi licenziamenti di tutto il comparto a nero e non solo) e impennate di domanda di beni chiave che hanno fatto lievitare i prezzi.

Speculazione mon amour

Come ovviamente si potrà immaginare in tutto questo pandemonio i poveri diavoli subiscono e i furbi si ingrassano, il mercato finanziario fagocita e specula su tutto, è onnivoro e quando non ha altro si nutre di sé stesso come il famoso serpente che divora la sua coda rigenerandosi in un cerchio infinito. Questo circolo vizioso lo abbiamo visto col botto dei sub-prime e delle cartolarizzazioni, si specula ciclicamente sullo stesso prodotto ogni volta seppellendolo sotto una serie di altri prodotti in una sorta di gioco di matrioske tendenzialmente infinito fintanto che non scoppia la bolla. Gli accaparramenti dei beni di largo consumo e sulle materie prime sono stati negoziati con una voracità giustificata sia dal contraccolpo pandemico sia dall’inasprirsi del conflitto in Ucraina. Per inciso molte persone si sono accorte del conflitto solo dopo che è partita la prima cannonata, ma gli speculatori hanno fiutato l’affare da un bel pezzo. Da una rapida osservazione dei principali titoli si può vedere che la congiuntura tra costi energetici primari e aumento dei prezzi dei beni ha dato una certa scossa già nel 2021. Di fronte a un picco di 4 miliardi di dollari nei costi delle materie prime (tra cui olio di palma, alluminio, grano hanno visto aumenti a doppia cifra) nel primo trimestre 2021, alcune grosse aziende come Procter & Gamble, Nestle, Anheuser-Busch InBev, Heineken e PepsiCo hanno reagito trasferendo i costi sui loro clienti. Autentici geni della finanza! Il 20 aprile, il gigante degli articoli per la casa Procter & Gamble, ha annunciato che avrebbe aumentato i prezzi di beni come i pannolini. Immaginiamo il costo medio di quei prodotti e sommiamolo a tutto quello che serve per i bambini da 0 a 12 mesi, un salasso per una famiglia monoreddito. Dall’altra parte gli speculatori hanno accentuato gli aumenti comprando quei titoli che sapevano sarebbero schizzati di lì a 6-9 mesi (memento: si ragiona per trimestri in quelle alte sfere). Di fatti all’inasprirsi della situazione in Ucraina ecco gli aumenti: i prezzi, del greggio del nichel dell’alluminio fino al grano e ai vari insilati, sono aumentati vertiginosamente, con un aumento netto settimanale più alto dal 1974, durante i giorni della crisi petrolifera. Come durante i periodi di scarsità c’è la borsa nera, il mercato azionario non fa assolutamente nessuna eccezione, e c’è chi in questi periodi sta facendo affari mirabolanti semplicemente scommettendo sui rialzi. Questi guadagni per qualcuno hanno costi per tutti in termini di rincari.

Conflitto e dintorni

L’Agenzia internazionale per l’energia ha avvertito che la sicurezza energetica globale è minacciata e neanche l’avvio di un programma di rilascio pianificato di riserve petrolifere di emergenza da parte degli Stati Uniti e di altre principali economie è riuscito a sedare i problemi di approvvigionamento. JPMorgan Chase & Co. ha affermato che il prezzo del greggio potrebbe chiudere l’anno a $ 185 al barile se l’offerta russa continua a essere interrotta. Il grano è salito al livello più alto dal 2008 a causa dei crescenti timori di una carenza globale poiché la guerra in Ucraina ha interrotto circa un quarto delle esportazioni mondiali dell’alimento base utilizzato ovunque. Il prezzo della macinazione del grano a Parigi ha raggiunto la cifra senza precedenti di 400 euro ($ 438) per tonnellata. Va da sé che l’aumento di un bene primario come il grano associato ai costi di trasporto in ascesa libera è il preludio di un autentico disastro sociale. Anche i metalli di base sono aumentati ulteriormente. L’impennata dei prezzi dell’energia ha rafforzato lo slancio spingendo verso l’alto i costi. L’alluminio, uno dei metalli più assetati di energia, è salito del 4% a $ 3.867 a tonnellata al London Metal Exchange (LME), un nuovo record, mentre il nichel, un altro metallo chiave per le batterie, è balzato bruscamente, si pensi solo che sulla piazza di Londra è stato scambiato ad oltre $ 30.000 a tonnellata per la prima volta dal 2008. Anche il rame si sta avvicinando al suo massimo storico. Le scorte nei magazzini monitorati dal LME sono scese ai livelli più bassi dal 2005.

L’aumento dei prezzi delle materie prime ha il potenziale per spingere l’inflazione ancora più in alto, praticamente bruciando stipendi e salari già magri a causa della precarizzazione generale dei posti di lavoro e, in più, fermi da anni.

Conclusione

Da quanto premesso in apertura dell’articolo, queste tre azioni combinate stanno ponendo le basi per un periodo particolarmente nefasto, al quale si aggiunge il contraccolpo inevitabile sulla spesa pubblica che, ricordiamo, non è scevra da ritorsioni dal sapore amaro marca Troika. Tutto questo flusso di denaro ha in teoria un costo, a meno che, vista la disastrosa situazione, non si giunga a una conclusione logica che è quella di sganciare definitivamente il debito pubblico dal mercato dei bond, ipotesi che appare abbastanza remota. Quello di cui possiamo stare sicuri è che tutto questo sfacelo lo pagheranno sempre e solo le popolazioni, sia come indigenza materiale che come sfruttamento senza sosta. Ma tornando un ultimo istante entro i confini territoriali del nostro sempre più bislacco Belpaese, ci ritroviamo con una situazione abbastanza disastrosa. Anni di austerity e precariato hanno da un lato inaridito le casse degli enti locali, assottigliato i servizi di assistenza (tutti, dalla sanità agli alloggi popolari) e ridotto all’osso i risparmi. Una bordata come quella che sta arrivando è la somma di tutti gli effetti delle scelte assurde e scellerate degli ultimi vent’anni. Il concentrato di tutti i processi di privatizzazione, precarizzazione, aziendalizzazione che una pandemia e un conflitto in rapida successione hanno fatto esplodere. Siamo noi pronti, territorio per territorio, a capire come intervenire sulla rabbia popolare che con tutta probabilità comincerà ad esplodere? Siamo noi in grado di prevedere gli scenari da qui a qualche mese per evitare che la solita feccia fascistoide e quell’altra (forse ancora peggiore) rossobruna si erga alla testa di cortei forcaioli assetati di generica vendetta e rivalsa? Abbiamo noi un’idea di come organizzare percorsi di emancipazione dalle logiche della riproduzione capitalista che non siano dabbenaggini tipo il primitivismo, il contadinismo o idiozie come gli orticelli urbani o le sagre delle polpette rivoluzionarie OGM free? Abbiamo quindi una strategia che non sia infilare la testa sotto la sabbia?

J.R.

NOTE

  1. Articolo redatto il 6 Marzo 2022.

  2. Una Zona Economica Speciale (ZES) è un’area all’interno o al di là dei confini nazionali amministrata secondo regole speciali. Sono disponibili in diverse forme, che in Myanmar includono zone franche e zone di promozione, nonché il potenziale per la creazione di altri tipi di zone secondo necessità.

  3. Cfr., Umanità Nova, “Nuovi equilibri europei”, url: https://umanitanova.org/nuovi-equilibri-europei/

  4. Crf., Umanità Nova, “Austerity e COVID-19. Politiche “lacrime e sangue” e gestione della sindemia”, url: https://umanitanova.org/austerity-e-covid-19-politiche-lacrime-e-sangue-e-gestione-della-sindemia/

  5. Cfr., Umanità Nova, “Shortage. La razionalità del mercato elimina i più deboli”, url: https://umanitanova.org/shortage-la-razionalita-del-mercato-elimina-i-piu-deboli/

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