SOMMARIVA, Marco, L’uomo degli incarichi, Sicilia Punto L Edizioni 125 pagine, 8 euro
L’uomo degli incarichi l’ho letto una prima volta ritagliandomi dei frammenti in più giornate ma non è così che mi piace leggere i libri. Le centoventicinque pagine che lo compongono, poi, si prestano bene alla lettura tutta d’un fiato ma, in questo periodo, il tempo è più avaro del solito dalle mie parti. Devo confessare, però, che da un certo punto in poi avrei voluto proseguire nella lettura per scoprire pagina dopo pagina il contenuto della successiva, spinto dalla curiosità. Direi un buon segno per qualsiasi narrazione.
Prima di scrivere queste righe, però, ho voluto rileggerlo per poterne apprezzare il ritmo come sottolineato da chi ha scritto la prefazione: Mario Severini (The Gang). La storia “dura” sette giorni più il giorno “zero”. Il racconto si apre proprio con l’immagine del cd “Tribes union”, del gruppo appena citato, espulso dal lettore di un’auto. Seconda confessione: a causa della mia ignoranza musicale non conoscevo la loro produzione artistica; ora sto cercando di rimediare ascoltando anche i pezzi che non sono citati nel libro che, oltre alle parole, contiene anche tanta musica, direi una vera e propria colonna sonora. Un’idea potrebbe anche essere quella di una lettura abbinata all’ascolto di tutti i brani che di volta in volta accompagnano quelle “istantanee” che Marco Sommariva realizza come se ci trovassimo di fronte allo schermo di una proiezione cinematografica.
Ritorniamo alla storia. L’auto in cui ci troviamo nella prima pagina, in realtà, è l’abitazione di un cinquantenne che, una “disoccupazione” dopo l’altra, si trova nella condizione, comune a tanti di questi tempi, di chi non sa più come arrivare alla fine del mese, pagare le rate, l’affitto, le bollette… Un’offerta di lavoro in realtà la riceve, anzi, direi che più che di un lavoro si tratta di un incarico.
Dalla trama, di tanto in tanto, senza disturbare, riemergono le frasi della saggezza paterna, ne cito una come esempio: “(…) l’uomo è come lo scafo di una nave: la parte incrostata di sé la nasconde”, una sorta di punteggiatura esperienziale che affiora tra le pieghe della vita. Mentre “navighiamo” tra un paragrafo e l’altro può capitare, quasi d’improvviso, d’imbattersi in domande come questa: “Quanti amori spenti sopravvivono grazie alla fiammella di pochi e sbiaditi ricordi felici? Quanti amori vuoti annaspano dolorosamente in un silenzio che fa soffrire più di un amore morto?”
Per chi fosse disposto ad aprirsi a qualche riflessione più generale le “provocazioni”, di quelle che “toccano” anche le nostre vite, non mancano. Rientrando nella vicenda si nota che le istruzioni necessarie a portare a termine “la missione” vengono fornite con modalità singolari la cui maggiore o minore credibilità non influenza la suspense che, da un certo punto in poi, caratterizza il racconto. Pare che chi è pratico del mestiere non si chieda mai cosa ha combinato il soggetto da liquidare. Il nostro, invece, qualche domanda se la pone. I suoi dubbi si alternano al susseguirsi degli eventi che l’autore inserisce in contesti dove si respira l’aria delle marginalità socioeconomica di una società “marcia” o almeno questa è stata la mia percezione. I giorni passano, il viaggio verso il luogo dove si dovrà concludere l’incarico prosegue. I pensieri si sovrappongono come pietre ma “occorre fare molta attenzione a come si ammassano; ho già vissuto qualche crollo e mi son fatto parecchio male”.
Siamo arrivati a Palermo, “non esiste una felicità perenne, quella è imbecillità”. Incisi come questo aprono di volta in volta una nuova sequenza e, mentre leggo, sento “l’audio” come se le parole fossero sussurrate al mio orecchio, per essere presto “travolte” dalle note di Hurricane di Bob Dylan. Da pagina settantacinque mi pare che il ritmo acceleri ancora, io invece rallento e mi fermo qua. Non racconto più nulla. A chi leggerà il compito di scoprire il resto.
Marco Tafel