Stimolante e ben argomentato, l’articolo Ideologia, utopia, pseudo utopia a firma Enrico Voccia («Umanità Nova», n. 23, 25 giugno 2017, pp.4-5) si presta bene come spunto per ulteriori approfondimenti critici. In particolare ci parrebbero utili, e forse interessanti per i lettori di queste pagine, alcune focalizzazioni sul concetto stesso di “ideologia”, sulle sue peculiarità tipicamente novecentesche, sui suoi micidiali “meccanismi” anti-libertari.
Tutto succede mentre la guerra europea sta devastando le “strutture” mentali e sociali preesistenti. È proprio in quegli anni che il corpus teorico del pensiero politico contemporaneo si resetta inglobando i lasciti ottocenteschi (idee imperiali razziste, pensiero liberale democratico, socialista rivoluzionario, conservatore-nazionale), ma si commisura soprattutto alla civiltà moderna che incombe. L’ideologia è ideologia di progresso tout court; la scienza si fa strumento del potere politico fornendo l’elemento scenico di una comunicazione istituzionale basata sul fideismo tecnicistico e pseudoscientifico come sarà nei casi del Comunismo e del Nazionalsocialismo. Élite tecnocratiche domineranno poi anche lo stesso milieu politico nei sistemi democratici,sistemi dove il peso dei tecnici cresce in maniera inarrestabile sottraendosi a qualsiasi controllo delle assemblee parlamentari.
Stato e lavoro fordista sono i due cardini che racchiudono, di fatto, l’essenza totalitaria del nuovo secolo già ai suoi albori. Ciò mentre l’insieme complesso delle relazioni umane si conformerà inesorabilmente ai valori della produzione industriale e del consumo, veri motori della moderna vita sociale. Il fulcro della nostra analisi è proprio questa sorta di funzione Caterpillar svolta, si deve dire sistematicamente e con inusitata violenza, dagli eventi traumatici del XX secolo (guerre, rivoluzioni e totalitarismi) nei confronti di quel variegato patrimonio ideale maturato a partire dal 1789: contro le grandi civilizzazioni ottocentesche.
Divenute ormai mera espressione della più volgare funzionalizzazione (messe cioè al servizio strumentale della politica di potenza), sebbene risultanti di una lunga plurisecolare elaborazione teorica e frutto di prassi più o meno consolidate, quelle idee, di fatto brutalmente trasformate in ideologia, persa seduta stante la loro insita complessità,si sono ridotte a prodotto superficiale e di facile consumo nel secolo delle masse e del culto del capo. Una questione quest’ultima che viene ampiamente colta da Maria Luisa Berneri:
“L’esistenza di neurosi di massa è oggigiorno una cosa anche troppo evidente. Ciò è luminosamente mostrato nel culto del capo che ha raggiunto una forma acuta negli stati totalitari, ma che è egualmente evidente nei così detti paesi democratici” («Volontà», n. 4/1949).
Politicizzazione delle idee e ideologizzazione della politica sono i capisaldi della modernità incombente. Certo, anche l’irrazionalismo primonovecentesco ha fatto la sua parte. In origine soltanto fruttuosa fonte di ispirazione per i movimenti artistici, filosofici e letterari di rottura culturale antiborghese, poi, stravolto e scavalcato dalla violenza e dall’assolutismo dei movimenti dittatoriali di destra e di sinistra, si è manifestato in tutta la sua virulenza già con la prima guerra mondiale e soprattutto con gli anni Trenta quando – per dirla con Karl Dietrich Bracher – il problema della verità si trasformava “in una lapidaria questione di potere”.
Esito di brutali energie negative, l’ideologia, con i suoi connotati pseudoreligiosi evidenti, si è intimamente legata all’efficacia e all’immediatezza del messaggio stesso, e si è manifestata attraverso inusitate peculiari modalità comunicative: la propaganda prima di tutto e, con essa, la pratica della mobilitazione emozionale e drammatizzante. Da questo punto di vista si può individuare, ragionando sul lungo periodo, un’omogenea“era ideologica” all’interno della quale – con costanza sia nei regimi totalitari, sia nei regimi democratici – si evidenziano tre nuovissimi elementi caratterizzanti l’esercizio del potere pubblico: il problema della legittimazione, il sistema di comunicazione e quello del controllo. Di conseguenza, i relativi ordinamenti politici, elitari e autoreferenziali, si impegnano, attraverso apposite strutture amministrative statuali, a mantenere comunque un rapporto aperto e continuo con i sudditi-cittadini. La politica si fa così mera comunicazione, sempre più rapida e superficiale nei concetti, ma mirata nei suoi obiettivi. Il messaggio viene enormemente semplificato, mentre si assiste ad una reiterata elaborazione degli stereotipi e delle strategie del “capro espiatorio” (nemico interno, nemico oggettivo, autore di delitti possibili, ecc.). In cent’anni, passando dalla carta stampata alla radio nel periodo tra le due guerre, dalla televisione degli anni Ottanta alla rivoluzione digitale, i mass media si “evolvono”, fino a trasporre e confondere mezzo e contenuti. Ma l’assetto dicotomico di fondo sembra rimanere inalterato: da una parte un’opinione pubblica impotente, dall’altra monopolio della verità e privilegio della conoscenza. La crisi dei corpi intermedi, partiti e sindacati ma non solo, insieme all’avvento dell’era digitale, hanno accentuato ulteriormente il problema anche se hanno creato nuove possibilità alla sovversione sociale. Fondamentale il discorso della semplificazione sopra accennato, che si configura come rozza pretesa del potere di ridurre ogni realtà complessa ad una sola verità, scaturente da un unico modello esplicativo (bianco o nero, buono o cattivo, bello o brutto).
Un ultimo aspetto che ci interessa è quello cruciale della “transizione”, vero punto debole di qualsiasi costruzione utopica a causa proprio dell’insita indefinitezza dei tempi, che – si dice – non potranno essere altro che millenari e dunque eterni. Contro tutti i dogmi Karl Popper, nel suo famoso elogio della società “imperfetta”, sottolineava come senza conflitti si sarebbe edificata “una società non di amici ma di formiche”. A fronte di tutto questo rimangono due possibili opzioni: o l’accettazione supina dell’esistente, o un anarchismo declinato semplicemente nelle pratiche del presente, per una società davvero aperta, plurale e libera subito.
Giorgio Sacchetti